14 maggio 2007

 
     

Giappone : condanne a morte basate su confessioni estorte
di Rico Guillermo*

Anche in Giappone ci si accorge - 40 ani dopo - di aver forse condannato a morte un innocente, sulla scorta del j'accuse di un ex magistrato che parla di confessioni estorte. E le associazioni nipponiche per i diritti umani spiegano che la polizia tormenta continuamente i sospetti, interrogati senza la presenza di un avvocato.

Diverse prove oggettive dimostravano l'innocenza dell'ex boxer Iwao Hakamada, condannato per aver ucciso una famiglia di quattro persone nel 1966. Gli abiti che avrebbe portato durante l'uccisione non erano della sua misura, la sua arma era troppo piccola confrontata con le frite inferte e la porta che secondo la polizia l'uomo avrebbe usato per la fuga era chiusa con un lucchetto.

Queste le rimostranze dei suoi avvocati. Ma i procuratori hanno avuto la prova piu' importante per convincere i 3 giudici della corte del distretto di Shizuoka a trovare Hakamada colpevole e condannarlo a morte: la confessione dell'imputato, quasi subito ritrattata dall'uomo, che ha testimoniato durante il processo di essere stato battuto e minacciato durante gli interrogatori, durati olre 22 giorni in una cella di detenzione della polizia, senza la presenza dell'avvocato. Tuttavia la firma della sua ammissione di colpevolezza lo ha tenuto in prigione in attesa un'esecuzione che sarebbe potuta giungere in qualunque momento.

Dopo quarant'anni la sua condanna e' sotto riesame, dopo che l'unico giudice sopravvissuto fra i tre che lo hanno condannato ha finalmente rotto il silenzio, affermando di aver sempre creduto che la confessione fosse stata estorta. "Ho notato subito che qualcosa era errato nella sua confessione" ha detto l'ex giudice, Norimichi Kumamoto, il quale afferma di essersi sempre rammaricato di non aver potuto persuadere il presidente della Corte (i tribunali giapponesi deliberano in segreto e le sentenze portano la firma di tutti i giudici, anche se prese a maggioranza, non essendo previsti pareri contrari).

Secondo il Los Angeles Times, il caso e' visto dagli analisti giapponesi come dimostrazione della rigidita' del sistema legislativo nipponico sull'acquisizione delle confessioni. Ma l'ex magistrato ha sottolineato anche che i giudici giapponesi sono molto sensibili alle pressioni sociali e dei media, i quali ultimi avevano dipinto un ritratto diabolico dell'imputato. Inoltre, ha detto, "i Giapponesi tendono a credere che l'ufficio dei procuratori, come braccio del governo, non abbia fatto intenzionalmente nulla di errato".

Kumamoto ha quindi mantenuto per se' i suoi dubbi circa la condanna del pugile, fino a quando ha tenuto a marzo una conferenza stampa a Tokyo. La reazione della stampa e' stata negativa, ed egli e' stato attaccato sulla base di una legge che proibisce ai giudici di rilasciare dichiarazioni.

Tuttavia alcuni hanno accolto favorevolmente l'atto d'accusa del sistema di confessioni, che viene usato nel 99% delle condanne penali grazie al fatto che il Giappone permette che la polizia interroghi i sospetti senza un avvocato per 23 giorni prima dell'emissione delle accuse. Qualora non abbiano confessato la polizia deve liberarli, ma puo' poi riarrestarli per ricominciare daccapo un'altra sessione di 23 giorni. In questo modo le stazioni di polizia si trasformano in sostituti delle prigioni, e i processi in farse.

Di recente la federazione giapponese delle associazioni degli avvocati si e' unita alle organizzazioni per i diritti umani per contestare le confessioni sotto coercizione e le false accuse.

* si ringrazia Claudio Giusti

Speciale diritti

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