NEW del 27 ottobre 2006

 
     

Afghanistan e problemi di amministrazione della giustizia
di Giulia Alliani

La giustizia afghana e' stata duramente criticata alcuni mesi or sono quando si e' appresa la notizia che Abdul Rehman, l'Afghano convertito al cristianesimo che ha ora ottenuto asilo in Italia, rischiava una condanna a morte per apostasia. Un tribunale afghano ha archiviato il suo caso in forza di, o grazie a, un dettaglio tecnico, e Rehman ha lasciato il Paese in tutta fretta.

All'epoca l'Economist aveva dedicato alla vicenda un suo articolo che cercava di inquadrare l'attuale funzionamento dei tribunali afghani. Spiegava l'Economist che, nel paese asiatico, l'amministrazione della giustizia sta attraversando un periodo di transizione. Proprio l'Italia, con altri Paesi, e' stata incaricata di istruire i magistrati afghani in base alle nuove leggi che il Paese ha adottato, in modo da diventare piu' attento e rispettoso dei diritti umani, e di conseguenza piu' attraente per eventuali uomini d'affari e investitori stranieri.

Il compito non e' facile, anche perche' gli stessi "insegnanti", di varia nazionalita', si rifanno a sistemi giudiziari di impianto diverso. L'Italia ha istituito corsi per 450 tra giudici e pubblici ministeri, e ai regolari corsi universitari di legge e' stato aggiunto un anno, ma i risultati ancora non sono soddisfacenti, e pare che il maggior problema sia costituito dal fatto che i giudici islamici si sono laureati e provengono, per la maggior parte, da facolta' in cui si insegna la sharia.

Scrive l'Economist che i magistrati sono dei religiosi che non possiedono la necessaria conoscenza delle leggi che dovrebbero amministrare, e, talvolta, sanno appena leggere e scrivere. Inoltre non godono nemmeno dell'aiuto di una polizia efficiente. I loro stipendi, poi, si aggirano sui 60 dollari al mese (meno della cifra necessaria per l'affitto di un appartamento a Kabul) e cio' fa si' che la corruzione sia molto diffusa.

Ma fuori dalle grandi citta', nelle altre zone, dove c'e' meno polizia, e funzionano meno tribunali, si amministra ancora la giustizia tradizionale, e i giudici sono i capi delle tribu' o i capi religiosi: capita che ordinino delle esecuzioni, ma piu' spesso le pene irrogate sono risarcimenti alle vittime consistenti in terreni, animali, denaro, o donne.

L'ostacolo a una vera riforma sta in un mix stridente di leggi dello stato, di tipo occidentale, leggi islamiche e usanze tribali. Da una parte esiste una nuova Costituzione, introdotta nel 2004, sotto l'influenza degli stranieri, che promette liberta' di parola e religione, ed eguaglianza tra i sessi. Dall'altra ci sono i giudici-mullah conservatori, i quali citano un articolo secondo il quale "non ci puo' essere una legge contraria alle credenze e ai precetti della sacra religione dell'Islam".

Cio' detto, nell'Islam la punizione prevista per l'apostasia sarebbe la morte. Il che metteva Rehman in una posizione decisamente problematica. E ci sarebbe anche il problema del disincentivo alle testimonianze fornite da persone di sesso femminile che, per una interpretazione della legge islamica, valgono la meta' di quelle degli uomini.

Esistono altri Stati islamici che hanno trovato il modo di aggirare le prescrizioni della sharia. In Malesia i tribunali della sharia interpretano l'apostasia come un fenomeno impossibile: di conseguenza l'accusato viene assoggettato a un processo rieducativo o ad altre pene, ma non viene giustiziato. In Afghanistan pare che i giudici siano invece piu' severi.

Dopo la caduta dei Talebani la Corte Suprema e' controllata da religiosi molto rigidi. Fazul Hadi Shinwari, il loro capo, ha dichiarato di recente che le donne non possono aspirare alla posizione di giudici della Corte Suprema perche' hanno le mestruazioni, e questa condizione le rende inadatte a toccare il libro sacro per parecchi giorni al mese. Come consolazione, l'Economist cita il fatto che sono stati convocati in tribunale, e hanno ottenuto la nomina, un certo numero di avvocati piu' inclini alle riforme.

Il problema delle interpretazioni discordanti della sharia e' utile anche a spiegare i malintesi, a volte drammatici, che si verificano nei paesi occidentali tra musulmani e non musulmani. Com'e' possibile discutere di un argomento se i contendenti non partono dalla stessa interpretazione di un versetto?

In questi casi sarebbe forse meglio lasciare la discussione di tipo teologico a chi di dovere e rifarsi tutti alle leggi fondanti dello stato, tenendo sempre presente che anche la religione si ferma di fronte ad alcuni principi inderogabili come la vita e la liberta' di ogni singolo individuo, che nemmeno la liberta' dell'altro puo' violare.

Speciale immigrazione e razzismo

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