NEW del 24 settembre 2005

 
     

Meticciato . Liberali , cannibali e cristiani
di Marcello Pera*

<vedi l'articolo di Giulia Alliani su questo discorso

Il "telos" sconosciuto
In questa relazione, parlerò della crisi dell'Europa, non dal punto di vista politico, economico o sociale, bensì da quello morale e spirituale. Benché molto di ciò che ho da dire riguardi tutto l'Occidente, mi occuperò soprattutto del vecchio Continente. Lascio impregiudicata la questione se, nel Nuovo, le cose stiano diversamente, come spero, o pressappoco alla stessa maniera, come sono incline a pensare quando sono preso da attacchi di pessimismo. Naturalmente sarei felice se alla fine del mio intervento voi poteste rincuorarmi in proposito.

Non conosco modo migliore per esaminare questa crisi se non cominciando con un riferimento al Trattato costituzionale europeo, e in particolare al Preambolo. In una costituzione, il preambolo è cosa fondamentale, perché ha una funzione specifica. Mentre i singoli articoli contengono, oltre alle norme sulle istituzioni, i princìpi e i valori, cioè l'ethos che unisce i cittadini in un singolo popolo, il preambolo vi aggiunge lo spirito comune, cioè il telos che dà al popolo immagine di sé, autocoscienza, missione. Specificando il telos, si include un popolo in una cultura e in una civiltà. E indicando una civiltà si indica anche il segno distintivo, il sigillo, di un popolo.

Da questo punto di vista, la Costituzione europea non fa eccezione. Non a caso, comincia dicendo che «l'Europa intende avanzare sulla via della civiltà ». Le eccezioni sono altrove. E sono due. La prima è che - credo unico caso al mondo - la Costituzione europea ha, anziché uno, due preamboli, che non sono completamente sovrapponibili. Uno è quello generale, l'altro è quello premesso alla seconda parte della Costituzione, quella che potremmo chiamare il Bill of rights europeo. La seconda, e più indicativa, eccezione è che, in entrambi i preamboli, la definizione del telos europeo è, a dire il minimo, lacunosa, e, a dire la verità, ambigua e poco rispettosa della storia dei popoli dell'Europa. Il preambolo alla parte seconda dice che «i popoli d'Europa [sono] consapevoli del suo patrimonio spirituale e morale».

È evidente che questa espressione è di una povertà sconcertante. Quale patrimonio precisamente? Inoltre, l'espressione è banalmente tautologica. Dire che noi europei siamo figli della nostra eredità spirituale e morale è tanto illuminante quanto dire che ciascuno di noi è figlio dei propri genitori. Il preambolo generale, approvato dopo lunghe discussioni e parecchie divergenze, fa qualche passo avanti. Esso parla di «eredità culturali, religiose e umanistiche». Ma, come si vede, neanche questa formula è particolarmente illuminante o impegnativa. Certo, «eredità religiosa » è un po' più preciso di «patrimonio spirituale ». Ma, di nuovo, quale religione o quali religioni? Anche qui non c'è indicazione particolare.

Il cardinale Ratzinger, ora Papa Benedetto XVI, ha scritto: «l'Europa, proprio nell'ora del suo massimo successo, sembra svuotata dall'interno, come paralizzata da una crisi circolatoria, che mette a rischio la sua vita affidandola a trapianti che ne cancellano l'identità». E ancora: «si diffonde l'impressione che il sistema di valori dell'Europa, la sua cultura e la sua fede, ciò su cui si basa la sua identità, sia giunto alla fine e sia anzi già uscito di scena». Il Papa ha ragione e il caso dei preamboli al Trattato costituzionale lo dimostra. Non solo l'Europa sembra non credere più nella validità del suo ethos, essa mostra anche segni allarmanti di non trovare più un accordo sul suo telos. Mentre cresce dal punto di vista politico e economico, espande il suo benessere, si allarga ai paesi che fino a ieri erano separati dalla "cortina di ferro", l'Europa si indebolisce dal punto di vista morale. Perché? Da dove viene questa crisi?

2. Multiculturalismo, tolleranza, terrorismo
Prima di cercare di dare la mia risposta a questa domanda, vorrei citare due altri casi, che io considero emblematici, della crisi dell'Europa: come essa affronta il problema della immigrazione e come ha reagito al terrorismo islamico. Sull'immigrazione, l'Europa ha dato due risposte. La prima è quella del multiculturalismo. Prima di essere una politica, il multiculturalismo è una dottrina di filosofia pubblica e una scuola di pensiero, con molti illustri ricercatori. Secondo il multiculturalismo, sono le comunità che plasmano gli individui e forniscono ad essi la propria identità. Se un individuo fosse sottratto alla comunità cui appartiene, esso sarebbe privo di riferimenti, diventerebbe anonimo, senza radici. Le singole comunità perciò devono essere protette, e non devono essere integrate nella più ampia società, perché questo significherebbe esercitare violenza nei confronti dei loro membri.

I multiculturalisti hanno in mente delle "società arcobaleno", in cui ciascuna comunità convive con ciascun'altra, senza intereferenze. Dal punto di vista della dottrina, il multiculturalismo è, secondo la mia opinione, sbagliato, perché non considera che le comunità non sono entità statiche e immutabili. Esse cambiano, alcune si rafforzano, altre si indeboliscono, altre ancora scompaiono. Supponiamo che gli individui di una comunità A decidano, dopo una valutazione oggettiva dei rispettivi vantaggi, di adottare lo stile di vita della comunità B. Se esistesse un diritto alla sopravvivenza e alla tutela delle comunità, dovremmo impedirglielo e perciò dovremmo costringerli ad una vita peggiore. Se non vogliamo ciò, allora il diritto all'esistenza delle comunità non può essere considerato prevalente sul diritto all'autonomia degli individui, e perciò il multiculturalismo cade.

Ma anche dal punto di vista delle politiche di integrazione il multiculturalismo è sbagliato. È sbagliato e pericoloso. Come mostra proprio il caso dell'Europa, la politica multiculturalista produce, nel migliore dei casi, comunità che si ignorano, e, nel peggiore, comunità che si osteggiano. Il risultato inintenzionale del multiculturalismo europeo è quello dei ghetti nelle nostre capitali e delle tensioni etniche fra le comunità. Dopo gli assassinii di Pim Fortuyn e Theo van Gogh, e dopo gli attentati di Londra, anche l'Olanda e l'Inghilterra stanno facendo marcia indietro rispetto al modello multiculturalista, e dopo gli incendi scoppiati in alcuni quartieri degradati di Parigi, la stessa Francia non si trova in condizioni migliori.

La seconda risposta europea al problema dell'immigrazione è quella basata sulla tolleranza. Per integrare coloro che provengono da altre culture o civiltà - si dice - occorre tollerarli e ammetterli al massimo godimento dei nostri benefici democratici. Questa risposta è certamente migliore della precedente, perché si basa sul concetto di uguaglianza di tutti, indipendentemente dalla comunità di appartenenza di ciascuno, e sul concetto di priorità dell'individuo sulla comunità di cui fa parte. Ma non è ancora una risposta del tutto adeguata. La tolleranza è una grande conquista europea che l'Europa ha imparato a proprie spese dopo lunghe e sanguinose lotte di religione. E, naturalmente, la tolleranza è una virtù. Ma, così come oggi è praticata, la tolleranza è una virtù passiva, che si confonde con l'indifferenza. "Tollerare" è spesso inteso come "pazientare", "far buon viso", "sopportare", e la sopportazione non porta necessariamente all'uguaglianza.

Si sopporta chi non si ama, si sopporta chi si considera diverso, si sopporta anche chi si considera inferiore. Una politica basata sulla sopportazione può produrre individui che non comunicano fra loro, che non si sentono parte della stessa società. Abbiamo bisogno di altro ancora. Ciò che occorre in più è il rispetto, il quale, a differenza della tolleranza, è una virtù attiva. Chi rispetta l'altro considera l'altro al suo stesso livello. È disponibile a riconoscerlo. È disponibile ad imparare da lui. Inoltre, il rispetto è una virtù simmetrica, importa la reciprocità. Se io rispetto l'altro, chiedo a lui lo stesso rispetto per me. Infine, il rispetto è una virtù riflessiva: se io rispetto l'altro, devo rispettare me stesso. Non possiamo chiedere rispetto, e nessuno ci rispetterà, se non cominciamo a rispettare noi stessi.

Il rispetto comincia da casa nostra. Perciò una politica dell'integrazione fondata sul rispetto non chiede di nascondere i nostri valori. Al contrario, chiede di credere nella loro bontà senza essere dogmatici, di predicarli senza essere protervi, di metterli in pratica senza pretendere di essere esclusivisti. Da questo punto di vista, integrare gli individui di una minoranza significa farli diventare cittadini della nostra società, con i mezzi della nostra educazione, della nostra lingua, della conoscenza della nostra storia, della condivisione dei nostri princìpi e valori. Una politica siffatta non significa esercitare violenza sugli altri, come ritengono molti nostri intellettuali: significa, al contrario, predisporre un terreno comune - un ethos e un telos, appunto - in cui noi e gli altri possiamo convivere e confrontarci.

E qui si ritorna al punto. L'Europa oggi stenta a trovare il suo terreno comune. Oppure lo nasconde. Oppure ne ha paura. Il caso del terrorismo è emblematico. I terroristi islamici hanno dichiarato una "guerra santa" - la jihad - all'America e a tutto l'Occidente. Il loro obiettivo prevede, da un lato, abbattere quei regimi islamici e arabi che intendono avere buone relazioni con l'Occidente, e, dall'altro lato, quando questa operazione fosse completata, puntare direttamente al cuore occidentale, soffocandolo per accerchiamento, cioè combattere «giudei e crociati», come veniamo definiti. Notate la peculiarità di questo linguaggio: dal loro punto di vista, noi siamo colpevoli non per quello che facciamo, ma per quello che siamo.

Sono deliri? L'Europa per prima dovrebbe sapere che la categoria del delirio non paga: anche Hitler, con il suo Mein Kempf, delirava, e nonostante questo l'Europa a Monaco nel 1938 cercò di dargli soddisfazione in nome della pace. Ma poi vennero le occupazioni naziste in Europa e la seconda guerra mondiale. Bin Laden è certamente molto diverso da Hitler, ma non c'è ragione per ritenere che sia meno conseguente di Hitler. Soprattutto dopo i morti di New York, Madrid, Londra e tanti altri posti, i suoi deliri dovrebbero essere presi sul serio. Anche se è materia controversa, considero un errore la concezione di parte dell'Europa di essere un "contrappeso" o un "contropotere" dell'America e di non impegnarsi in Iraq. Considero un errore più grave aver continuato questa politica anche quando, dopo la guerra, la presenza militare in Iraq è stata votata dal Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, che, per l'Europa, è diventato una sorta di giudizio di Dio. Ma considero un errore ancora più grave la reazione prevalente presso le élites intellettuali europee al terrorismo islamico.

Come ho già detto altre volte, buona parte della cultura europea ha sviluppato una reazione giustificazionista. Il terrorismo è stato dipinto come un fenomeno non di aggressione ma di reazione. In particolare, come la risposta violenta provocata da un risentimento storico delle masse islamiche contro le ingiustizie causate dall'Occidente. Insomma - tanta gente ha ragionato -, se c'è l'effetto, c'è la causa. Se esiste il terrorismo deve avere una causa esterna. E la causa esterna del terrorismo islamico non può essere costituita se non dalla nostra civiltà, dal nostro telos, il quale - malgrado a noi suoni maestoso, splendido, prestigioso - è nient'altro che globalizzazione e aggressione, portata avanti in nome di interessi mascherati da valori, e dalla nostra malsana volontà di imporli. Perciò la tolleranza, l'uguaglianza, la democrazia, i diritti umani, la coesistenza, la libertà di mercato, eccetera, sarebbero solo parole insincere, sotto le quali spuntano la Coca Cola, il Big Mac, la musica rock, i film di Hollywood.

Ecco perché talvolta, in Europa, i terroristi islamici sono definiti dei "resistenti": perché resisterebbero all'imperialismo connaturato nella nostra civiltà. Ed ecco perché due eminenti intellettuali europei - J.Habermas e J.Derrida - hanno dichiarato il 15 febbraio 2003, quando le piazze di Europa si riempirono di pacifisti, come giorno della nascita di un'opinione pubblica europea. Strano destino, invero: proprio quella opinione pubblica che avrebbe dovuto festeggiare il suo telos con la Costituzione europea seppelliva invece l'Europa ammainando la bandiera del telos europeo e innalzando quella arcobaleno. Non ci si può quindi sorprendere se, chiamata ad assumere maggiori responsabilità geopolitiche, l'Europa si sia spaccata sulla guerra all'Iraq e abbia mostrato gravi ritardi nel valutare i rischi del fanatismo islamico.

Vorrei osservare che qui non si tratta di dire che la guerra in Iraq era l'unica cosa giusta da fare. Né che l'Europa preferisce giocare la parte di Venere mentre l'America recita da Marte. Né che l'Europa deve essere sempre dalla parte dell'America o che la posizione dell'America è sempre giusta o che gli interessi dell'Europa coincidono sempre con quelli dell'America. Questo, chiaramente, non è vero, anche se ritengo che sia un errore considerare l'Europa e l'America come due entità appartenenti a culture diverse.

La questione che sollevo è più profonda di una delle tante divergenze sulla politica internazionale o sull'uso della forza o sul ruolo delle Nazioni Unite. La questione riguarda la nostra identità e riguarda la nostra volontà di difenderla, con tutti i mezzi pacifici, finché la pace è possibile, con la forza, quando è necessaria, ma prima di tutto con la coscienza che quella europea è una grande civiltà e che il suo progresso - malgrado i tanti errori e le numerose mancanze - è fondato su basi intellettuali, culturali, politiche e morali, e non su massacri, violenze, aggressioni o soprusi, come affermano coloro che cadono nel tranello propagandistico dei fondamentalisti islamici. Siamo di nuovo tornati alla domanda di partenza: da dove deriva questo indebolimento della identità europea?

3. Relativismo
Secondo la mia opinione, questa ragione ha un nome: relativismo culturale. Che cos'è? È l'idea - che ha tanti predecessori ma che si afferma in filosofia soprattutto a partire dalla metà del secolo scorso - che le tradizioni, le culture, le civiltà, sono sistemi autonomi e chiusi, ciascuna con propri criteri di valore e con proprie procedure di validazione. È l'idea correlata che questi sistemi chiusi possono essere incompatibili e non sono confrontabili, cioè non può esistere una scala comune lungo la quale collocarli tutti e giudicarli in termini di maggiore o minore bontà, giustezza, desiderabilità, eccetera. Alla fine, è l'idea che questi sistemi hanno tutti la stessa dignità etica, e perciò sono tutti uguali. Tutti: i fondamentalisti come i democratici, i fanatici come i liberali, i violenti come gli umanitari, gli intolleranti come i dialoganti.

Guardate al nostro "linguaggio politicamente corretto". Di primo acchito sembra educato e rispettoso, ma in realtà è il linguaggio del relativismo, un sintomo della malattia. Ed è un linguaggio paradossale. Noi, in Europa e in Occidente, possiamo esprimere molti giudizi e fissare molte gerarchie. Ad esempio, possiamo dire che il Chianti è migliore della Coca Cola, che un ossobuco è migliore dell'hamburger, che il tight è migliore della T-shirt. Ma quando da questi giudizi di gusto si passa ai giudizi di valore su culture, istituzioni, stili di vita, le cose cambiano. I giudizi di gusto sono benvenuti, mentre i giudizi di valore fanno nascere dubbi, sono visti con sospetto, e in definitiva sono vietati.

Si può dire, oggi, in Europa, poniamo, che la democrazia liberale è "migliore" della teocrazia islamica, che l'autonomia della società civile è "migliore" della sharia, che la sentenza di un tribunale indipendente è "migliore" di una fatwa? Non si può dire, non è educato, non ha fondamento concettuale, né validità interculturale. E così tutte quelle belle nostre parole - scritte nelle nostre costituzioni e nelle Carte internazionali - sui diritti universali di libertà, uguaglianza, democrazia, eccetera, diventano timide e impacciate, quando non ci restano del tutto in gola. Profferirle pubblicamente è considerato etnocentrismo culturale e imperialismo politico. Questo pensano molti intellettuali europei, e non solo europei (Richard Rorty, in America, ad esempio, pensa allo stesso modo). Se questo è il pensiero che si diffonde in Europa, allora non c'è da meravigliarsi se il telos del popolo europeo non riesca a vedere la luce, nonostante il parto cesareo che ha prodotto il Trattato costituzionale europeo, ora in terapia sotto incubatrice.

4. Liberali, cannibali, cristiani
Poiché sto concludendo, è arrivato finalmente il tempo che spieghi lo strano titolo che ho dato a questo mio intervento. Lo scomparso sociologo Martin Hollis inventò un giorno l'aforisma «il liberalismo è per i liberali, il cannibalismo per i cannibali », da cui Steven Lukes ha tratto il titolo di un suo libro fortunato (Liberals and Cannibals, Verso 2003). Quell'aforisma è il riassunto più spiritoso del relativismo che io conosca. Ed esprime bene ciò a cui mi oppongo. Non credo affatto, come ha scritto il filosofo europeo J.Gray che «i regimi liberali siano solo un tipo di politica legittime, e la pratica liberale non abbia alcuna autorità speciale o universale».

Né credo, come ha sostenuto Samuel Huntington, che «la fede occidentale nella validità universale della propria cultura ha tre difetti: è falsa; è immorale; è pericolosa». Al contrario, credo che le nostre libertà possano essere promosse anche fuori di casa nostra, e - per continuare con la metafora di Hollis - che sarebbe opportuno convertire ai nostri princìpi anche i cannibali, se ancora ve ne fossero. Ma che c'entrano i cristiani? Personalmente, non sono un credente, almeno nel senso tecnico - non so se autentico - di "credente".

Anche se ammiro i grandi pensatori liberali come Locke, Hume, Kant, Mill, Popper, e molti altri, apprezzo in egual misura la tradizione di Aristotele e San Tommaso, che assegnavano alla politica il compito di costruire non soltanto la società libera ma anche la società buona. Riconosco, ad esempio, che la classica separazione liberale della religione dalla politica è una conquista irrinunciabile della nostra civiltà. Ma credo di aver studiato abbastanza e di aver vissuto abbastanza per sapere che la linea di demarcazione fra le due non è data una volta per tutte, ma deve essere ridefinita continuamente. Allo stesso modo, ritengo che la tradizionale, e preziosa, distinzione tra "sfera pubblica" e "sfera privata" non possa e non debba essere considerata una barriera impenetrabile.

Consideriamo proprio i valori religiosi. Se essi fossero confinati soltanto nella sfera privata, in quella che il cardinale Ratzinger aveva chiamato il «ghetto della soggettività», sarebbe una perdita anche per la politica. Come potrebbe agire un legislatore democratico, ad esempio su questioni delicate come quelle di bioetica, se non introducendo nella sua "sfera pubblica" quelle convinzioni, opinoni, credenze, anche religiose, coltivate dalla maggior parte dei cittadini nella loro "sfera privata"? Insomma, come potrebbe prendere misure condivise se non riferendosi all'ethos e al telos del suo popolo? Quando si tratti dell'Europa, quali sono questo ethos e questo telos a me sembra chiaro. È qui che entra in gioco il cristianesimo. Noi, sia credenti che non, apparteniamo alla tradizione giudaico-cristiana. I nostri atti battesimali ci sono stati impressi su tre colline, il Sinai, il Golgota, l'Acropoli. La nostra civiltà si è formata su tre capitali, Atene, Gerusalemme, Roma. Lì abbiamo imparato i valori della dignità della persona, la fratellanza, l'uguaglianza, la compassione, il rispetto, e tanti altri ancora.

È vero che oggi, come ieri e ancor più domani, siamo una mescolanza, un intreccio di tante culture. La storia muove i popoli, non li congela in frigorifero. Ma quando vogliamo conoscere la nostra identità, comprendere il nostro ethos e telos, capire perché noi siamo noi, dobbiamo tornare sempre su quelle colline e in quelle capitali. L'Europa oggi questa strada fa fatica a percorrerla. Noi invece dobbiamo imboccarla, se non vogliamo dividerci nelle tribù dei liberali e dei cristiani, mentre i cannibali si mangiano gli uni e gli altri.

* intervento del presidente del Senato presso la Georgetown University (USA), 22 settembre 2005

Speciale immigrazione


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Documento su antisemitismo e razzismo del parlamento UE

Documento del fascismo sul problema della razza

L'intervento del ministro Pisanu sul meticciato