NEW del 31 agosto 2005

 
     

Meticciato : intervento del ministro dell'interno
di Giuseppe Pisanu *

< leggi il commento di Rita Guma a questo discorso

Cari amici, gli interventi così autorevoli e problematici svolti da Franco Frattini e dal Prof. Weiler mi obbligano, purtroppo, a mettere da parte quasi tutto il testo che avevo predisposto e, comunque, a svolgere, se così posso dire, un intervento di risulta: ci perderà sicuramente il rigore cartesiano, ma forse ci guadagnerà la sincerità del discorso.

Voglio partire da una considerazione fondamentale, senza avere tuttavia la pretesa di trarre le conclusioni dai due interventi che abbiamo sentito. Voglio partire da questa affermazione: il fondamentalismo islamico è una questione interna all’islam, che ha certo riflessi esterni, ma è interno al mondo islamico. Il terrorismo di cui esso si serve non è un fenomeno religioso, ma un fenomeno politico. Obiettivo essenziale del fondamentalismo è la conquista del potere attraverso l’uso del terrorismo come strumento ordinario di lotta politica. Gli obiettivi che questo fondamentalismo persegue stanno tutti dentro il mondo islamico; e sono esattamente i governi di tutti i Paesi che si affacciano sull’area mediterranea, (non solo di quelli, naturalmente), dalla jamahiriya libica, alla monarchia marocchina, alla democrazia turca.

Tutti questi governi li possiamo valutare come vogliamo se mettiamo gli occhiali della nostra cultura democratica, ma senza dubbio hanno tutti una concezione laica del potere e laicamente lo utilizzano, tra l’altro, contrastando con estrema durezza il fondamentalismo e l’estremismo terroristico. Dunque, proprio per questa ragione quei Paesi sono, ma ritornerò sull’argomento, nostri naturali alleati. Tutti i governi dei Paesi islamici sono tuttavia molto attenti alla questione religiosa: non a caso le loro costituzioni o, comunque, i loro ordinamenti politici, adottano l’islam come fonte principale del diritto. Ma i fondamentalisti li contrastano egualmente perché l’obiettivo che perseguono, appunto, non è religioso, ma politico.

Questi Paesi dunque sono nostri alleati, caro Prof. Weiler, e quando dico nostri, dico dell’Europa e degli Stati Uniti, perché almeno noi, almeno il governo che rappresento, non riusciamo ad avere una opzione di politica estera che non sia fondata sulla scelta storica dell’euro-atlantismo. Questa è una scelta fatta dai cattolici italiani nell’immediato dopoguerra, ha segnato positivamente tutta la nostra storia moderna e, a mio parere, deve continuare a segnarla. I terroristi sono una minoranza, (ecco un altro assunto che dobbiamo tener presente), e la loro posizione ideologica principale è senz’altro il rifiuto politico-religioso, ma religioso strumentalmente, dell’occidente e dello stato di diritto. Questa scelta di fondo fu annunziata nella maniera più esauriente da Khomeini quando affermò che l’obiettivo della sua rivoluzione era quello dell’”annientamento completo dell’occidentalismo”. Sembrano parole, non a caso, mutuate da Adolf Hitler .

Però, nonostante siano minoritari, il fondamentalismo e il terrorismo hanno una larga influenza ed incontrano larga accoglienza presso i popoli islamici. Incontrano accoglienza perché essi offrono il conforto della risposta identitaria al rischio della emarginazione dai processi di globalizzazione; perché sfruttano abilmente la lettura estremista e guerriera del Corano; perché trovano nel Medio-oriente e nelle altre aree di conflitto etnico-religioso, argomenti politici formidabili a loro favore. Dobbiamo prendere realisticamente atto di questo dato di fatto, ma il consenso popolare arabo alla protesta del fondamentalismo non è affatto automatica adesione al fondamentalismo e tanto meno adesione attiva al terrorismo. Questo vale ancora di più per i 18 milioni di immigrati islamici presenti in Europa, caro Franco, il 95% dei quali non frequenta le moschee, è estraneo alla predicazione fondamentalista ed è venuto da noi soltanto per cercare pane e lavoro.

Io ho sempre sostenuto che il fondamentalismo si combatte a due mani: una armata contro i terroristi, l’altra tesa amichevolmente verso i musulmani pacifici. Ho sostenuto questa posizione, come Franco sa bene, anche nelle sedi europee, ma debbo riconoscere che finora l’Europa si è preoccupata più della prima mano e meno della seconda, dominata forse dalla paura, dall’egoismo e in qualche circostanza anche dall’ignoranza o indifferenza di taluni suoi esponenti. Ma se il fondamentalismo e il terrorismo sono fenomeni politici, allora è con gli strumenti della politica che dobbiamo combatterli: gli strumenti della politica estera, della sicurezza interna e, se è necessario, anche lo strumento militare, ma soltanto quando tutte le risorse della politica, proprio tutte, siano state esaurite.

Vorrei a questo proposito chiarire un paio di idee sulle quali né Franco, né il prof. Weiler si sono soffermati abbastanza. Lo farei con una raccomandazione rivolta prima a me stesso e poi a voi, cari amici: non commettiamo l’errore di confondere il fondamentalismo islamico e il terrorismo con la religione, la cultura e la civiltà dell’islam, altrimenti assecondiamo esattamente l’ipotesi dello scontro di civiltà e facciamo esattamente il gioco di Bin Laden. A proposito di scontri di civiltà: ho letto con un anno di ritardo un libro dell’autore di questa formula, Huntington, che è uscito l’anno scorso in Italia presso Garzanti, col titolo “La Nuova America”. Bene, dopo avere sostenuto lo scontro di civiltà, il prof. Huntington in questo nuovo libro denuncia in maniera quasi ossessiva la perdita di identità dell’America a causa della enorme crescita della presenza ispanica negli Stati Uniti. Ma guarda un po’. Sta a vedere che il conflitto, lo “scontro di civiltà” ora si sposta dalla scala intercontinentale all’interno di un solo Paese dell’occidente!

Ecco, vedete cari amici, quando si utilizza il paradigma identitario si sa dove si comincia, ma non si sa dove si finisce. Attenzione a non farci intrappolare nella metafisica delle identità: le identità non sono delle ipostasi, non sono delle entità fisse ed eterne, le identità sono il frutto di costruzioni culturali e politiche in continua evoluzione. Se Pietro e Paolo di Tarso fossero stati gelosi custodi della immutabilità della loro identità e non avessero attraversato il Mediterraneo per contaminarsi nella predicazione ai Gentili, il cristianesimo oggi forse non sarebbe una religione universale, ma una religione locale. L’identità cristiana, specialmente quella europea, invece, nasce da contaminazioni di altre identità, da meticciamenti molteplici e successivi, come dice il Patriarca di Venezia, ma mantiene intatta la sua peculiarità per una semplice, elementare ragione che non può certo sfuggire ai cattolici: per il fatto cioè che solo Cristo è la via, la verità e la vita.

Allora, non facciamoci intrappolare nella metafisica delle identità, e neppure nell’altra metafisica del relativismo, perché anche qui si corre talvolta il rischio di strumentalizzare la denuncia legittima del relativismo per negare il pluralismo. Attenzione amici! Certo quando di fronte alla pluralità delle concezioni religiose, ci viene qualcuno a dire: ma in fondo sono tutte uguali, noi rispondiamo no e no, perché sono tutte diverse e noi rivendichiamo con forza la nostra peculiarità, riconoscendo contemporaneamente quella altrui. Guardate che la storia europea è una storia di diversità. Non è la storia di una idea cristiana che permette una sola tradizione, è la storia di una tradizione cristiana che permette l’esistenza di tutte le idee, anche quando sono cattive.

Allora l’identità cristiana dell’Europa, in quanto rispetta le diversità e ammette la contaminazione virtuosa delle culture, non può non essere forza promotrice di dialogo. E io penso che, fuori dalle trappole che ho detto, il dialogo con l’islam e con l’ebraismo, contro ogni forma di violenza estremista, ha enormi possibilità di crescere e di essere utilizzato come fattore decisivo, non soltanto per favorire l’integrazione (senza assimilazione) degli immigrati islamici nella nostra società, ma per favorire la costruzione della pace nell’area mediterranea. Io immagino che questo dialogo, e mi avvio rapidamente alla conclusione, debba essenzialmente svilupparsi su tre linee convergenti.

La prima è quella di un accresciuto impegno euro-atlantico, ma che coinvolga l’intera comunità internazionale, per il raggiungimento di due obiettivi che toglierebbero nutrimento quotidiano al terrorismo: la pace in Israele che, dopo cinquanta anni di sangue, possiamo ora perseguire dando ulteriore sostegno ai passi dolorosamente coraggiosi che in questi giorni sta compiendo il Presidente Sharon, con la speranza che altrettanto possa fare Abu Mazen, soprattutto nei confronti delle minoranze terroristiche che infestano la Palestina; e poi, la restituzione, al più presto possibile, dell’Iraq agli iracheni. La seconda linea è quella che ha indicato Franco Frattini: un dialogo più intenso e fecondo tra le due sponde del Mediterraneo, quella Nord e quella Sud.

Non si tratta solo di sviluppare i numerosi accordi bilaterali e multilaterali in essere; non si tratta solo di utilizzare l’immigrazione regolare come un grande ponte umano lanciato tra le due sponde; si tratta anche di questo, ma soprattutto di dare finalmente seguito al tentativo che era stato fatto dalla Presidenza italiana nel semestre europeo e che ora, con grande determinazione, ha ripreso la presidenza inglese, di rilanciare con forza, generosità e grande visione politica, il dialogo tra l’Europa e l’Africa. Quel continente è al collasso, eppure è ancora così ricco di energie umane e materiali da poter arricchire tutta l’area del Mediterraneo e il nostro intero continente. Questa Europa neghittosa e povera di vibrazioni spirituali va spinta in questa direzione. Purtroppo l’Europa guarda soprattutto al Nord, caro Franco, e al Nord il circolo polare artico taglia già la Norvegia, taglia già la Svezia, più in là c’è soltanto ghiaccio.

L’Europa deve guardare al Sud, deve guardare al Mediterraneo perché lì c’è un intero continente in crisi, ma in grado di far crescere l’Europa e di darle nuovo ruolo internazionale; perché li si stanno giocando le carte decisive della pace e le dobbiamo giocare bene, non con la superbia di una certa intellettualità europea che pretende di contrapporsi agli Stati Uniti, ma insieme agli Stati Uniti. Solo così l’Europa può trovare peso e non ridursi, come oggi rischia, ad una pallida comparsa sulla scena mondiale. Terza e ultima linea: il dialogo tra le grandi religioni monoteistiche, tra i tre grandi rami della famiglia di Abramo. Ho parlato di questo argomento al meeting precedente e non ci ritorno. Osservo soltanto che oggi le condizioni per quel dialogo sono notevolmente migliorate: in questo sono molto più ottimista di lei, caro professor Weiler.

A Colonia Benedetto XVI, grande Papa europeo ed europeista, ha dimostrato come questo dialogo possa spingersi fino alle più spinose questioni teologiche con il mondo musulmano e con l’ebraismo, e soprattutto come questo dialogo possa fertilizzare, rendere fecondi gli sforzi politici per lo sviluppo e per la costruzione della pace. Non perdiamo l’occasione. Molte cose, anche nel mondo islamico più estremo, si stanno muovendo in questa direzione. Penso, per esempio, all’wahabismo della casa regnante saudita, la quale oggi scopre onestamente di avere, seppure senza volerlo, allevato nel seno del suo rigore dottrinario wahabita, la serpe di Bin Laden e del terrorismo.

Ma oggi l’Arabia Saudita è seriamente impegnata a riconoscere forme di pluralismo all’interno dell’islam, è impegnata a combattere attivamente il terrorismo, sta aprendo spiragli alla elezione diretta, almeno in parte, dei consigli comunali. Penso ai Fratelli Musulmani, agli eredi di Qutb i quali oggi sembrano propensi a dismettere le armi, ad accettare la via della protesta politica e persino ad impegnarsi nelle elezioni presidenziali, benché le considerino largamente compromesse. Penso alla speranza che hanno acceso in noi con le dita macchiate di inchiostro democratico le donne dell’Iraq che sono andate al voto. Penso, guardando all’islam moderato, al re Abdullah di Giordania, il quale il primo maggio è andato a discutere con Tony Blair della necessità di contestare alla radice, teologicamente le ragioni dell’estremismo e del radicalismo.

Ecco ci sono tutte queste cose che si stanno muovendo, queste opportunità che provvidenzialmente si offrono. Non dobbiamo lasciarle cadere. E’ anche per questo che il terrorismo internazionale di matrice islamica sta perdendo la sua partita storica. Non voglio concludere lanciando segnali arbitrari di speranza, voglio semplicemente richiamare qualche positiva verità: il terrorismo ha già perso la sua base statuale che era in Afghanistan; Al Qaeda ha subito colpi durissimi, non ha più una catena di comando, e la sua organizzazione si è ridotta ad una specie di rete a maglie spesso isolate, stesa certo su diversi continenti, ma rassomiglia sempre più all’organizzazione di un cartello della droga piuttosto che a quella di un partito rivoluzionario dell’800-‘900; il terrorismo sta perdendo consenso popolare, a partire dalle comunità immigrate in Europa, come abbiamo visto dopo i fatti di Londra, e come vediamo nell’Iraq dissanguato dalla sua violenza.

Naturalmente so bene che più percepirà la sconfitta, più il terrorismo si farà aggressivo e feroce. Proprio per questo, continuo a sostenere che noi dobbiamo tenere ben ferma la mano armata della prevenzione e della repressione, sia sul piano interno come sul piano internazionale. Ma non dobbiamo credere ciecamente nell’uso della forza, dobbiamo continuare a credere nella forza paziente del dialogo. Io sono convinto che quelle tre linee che ho poc’anzi richiamato, possono convergere in una linea sola e darci il tracciato del sentiero profetico di Isaia, il sentiero della pace.

* intervento del ministro dell'interno al meeting di Rimini di Comunione e liberazione agosto 2005

Speciale immigrazione


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Documento su antisemitismo e razzismo del parlamento UE

Immigrati in calo ma leggi piu' dure nell'UE

Europa e immigrati nel 2004