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La sentenza della Corte dei Conti
che condanna sindaco Rutelli e assessori

CORTE DEI CONTI,Sezione Giurisdizionale per la Regione Lazio - Sent. n. 1545/2000/R RP, 19/11/01 - BISOGNO Presidente, DI FORTUNATO Consigliere, e LIBRANDI Consigliere relatore /c. Rutelli Francesco e altri.

<precedente

Risulta quindi chiaro che il compimento del fatto dannoso, per rendere possibile l'esercizio dell'azione pubblica risarcitoria, deve essere indissolubilmente legato al verificarsi del danno erariale, cioè al depauperamento dell'ente. Solo a questo punto insorgerebbe l'ulteriore problema, per il caso di specie, della individuazione del momento iniziale del periodo prescrizionale dell'azione pubblica, la quale andrebbe individuata dall'insorgenza certa e definitiva dell'obbligazione di pagamento o dal pagamento effettivo del corrispettivo per l'incarico conferito. Orbene, nella fattispecie all'esame, in qualsiasi maniera si intende collocare il "dies a quo", nessuno dei termini è maturato per cui l'eccezione di prescrizione va respinta perché giuridicamente infondata. D'altra parte il Collego reputa, per i motivi esposti, non pertinenti le argomentazioni svolte al riguardo dai convenuti. 4.- E' infondata anche l'eccezione concernente la "nullità e comunque la inammissibilità dell'atto rettificativo di errore materiale della citazione n. 1999/01313". Al riguardo, va evidenziato che le argomentazioni svolte a sostegno delle tesi difensive sono prive di qualsiasi fondamento e comunque, non tengono conto della normativa vigente che è estremamente chiara ed inequivocabile con particolare riferimento dell'art. 52 del R.D. 12 luglio 1934 n. 1214. Infatti, nella citazione della Procura Regionale è chiaramente indicato sia il petitum - risarcimento del danno quantificato arrecato al Comune di Roma - sia la causa petendi, e cioè il comportamento contrario ai doveri d'ufficio addebitati ai convenuti. Invero, l'atto rettificativo di errore materiale non ha modificato l'atto di citazione perché ha lasciato immutato il nucleo del c.d. accadimento storico fatto valere nel quale si ravvisa la causa petendi che implica anche il petitum per cui lasciando immutato il nucleo di tali accadimenti collegati con il petitum mediato, non si ha "mutatio libelli".

Va, altresì puntualizzato che nell'atto di citazione del Procuratore Regionale, l'indicazione dell'addebito a carico dei convenuti non è altro che la prefissione di un limite rispetto al potere del giudice, prefissione che può essere revocata senza che ciò comporti mutamento del petitum. Sotto questo profilo va comunque affermato che anche in ipotesi di responsabilità parziale, come nella fattispecie, spetta al giudice, nell'ambito della domanda, determinare le singole responsabilità in applicazione dell'art. 52 del testo unico delle leggi sulla Corte dei Conti, con la conseguenza che la mancanza di specifiche richieste sulla ripartizione del danno tra i vari convenuti oppure la modificazione della ripartizione dell'addebito, non comporta né la nullità, né la improcedibilità o l'inammissibilità dell'azione, non comminata, peraltro, da alcuna disposizione di legge. Da ciò consegue che in applicazione del citato art. 52 del R.D. 12 luglio 1934, n. 1214, la Corte, valutate le singole responsabilità, può porre a carico dei responsabili tutto o parte del danno accertato o del valore perduto. Questo potere, derivante dalla natura del giudizio di responsabilità amministrativo - contabile è stato ritenuto applicabile, con giurisprudenza ormai pacifica, nei confronti di responsabili amministratori, di contabili, nella fattispecie di responsabilità degli amministratori degli enti locali nonché nei confronti di dipendenti ed amministratori degli enti pubblici, trattandosi di potere connesso al carattere generale della stessa giurisdizione amministrativo contabile. Tale potere si sostanzia, infatti, nello stabilire in quale misura il danno erariale debba essere riferito al comportamento gravemente colposo oppure doloso dei soggetti interessati, potere che spetta solo al giudice e che si concretizza nel porre a carico dei responsabili tutto oppure parte del danno arrecato all'erario. Le eccezioni sollevate al riguardo sono, pertanto, infondate. 5.- Anche l'eccezione concernente l'invocata declaratoria di estinzione del giudizio per cessata materia del contendere è infondata e va, pertanto, respinta. Infatti, il Collegio reputa di non poter condividere le argomentazioni svolte al riguardo che sinteticamente possono così riassumersi: "l'amministrazione, per regolamentare la propria attività, in materia di consulenze esterne, ha adottato la delibera di carattere generale n. 1 del 4 gennaio 1994 che richiama l'art. 51, settimo comma, della legge n. 142/90".

Per la scelta dei collaboratori esterni il criterio di riferimento è stato individuato nel c.d. "rapporto fiduciario" anziché nei principi stabiliti dalla predetta normativa. "I provvedimenti adottati dal sindaco e dagli assessori costituiscono applicazione della predetta delibera per cui non potrebbero in alcun caso dar luogo a responsabilità". Gli "staff" sono stati costituiti in base a regole che sono diverse da quelle che valgono per i collaboratori di alta professionalità perché nella fattispecie la professionalità occorrente non può essere quella più elevata rispetto alla professionalità rinvenibile nella burocrazia, ma deve essere quella "adeguata" al compito di collaborazione con i responsabili politici dell'amministrazione ed al rapporto di fiducia che deve essere istituito". A sostegno delle argomentazioni svolte è stato richiamato l'art. 6 della legge 15 maggio 1997, n. 127. Con tale norma - secondo quanto prospettato dai convenuti - è caduto ogni riferimento "all'alto contenuto di professionalità" e "l'unico elemento qualificante viene individuato nella costituzione dell'ufficio". Il rapporto istituendo non è di tipo "professionale", secondo quanto di norma avviene per le collaborazioni di alta professionalità, ma è di lavoro subordinato, regolato dal contratto collettivo. Dopo la legge 15 maggio 1997, n. 127 è intervenuta la disposizione della legge 25 marzo 1999, n. 75, che ha determinato la cessazione della materia del contendere considerando che la legge n. 75/1999 ha un indiscutibile carattere retroattivo ed i suoi effetti, secondo quanto espressamente recita detta norma, si dispiegano " a decorrere dalla data delle prime lezioni effettuate ai sensi della legge 25 marzo 1993, n. 81".

L'assunto dei convenuti non può essere condiviso dal Collegio. Infatti, come già ampiamente evidenziato, la chiamata in giudizio dei convenuti riguarda le consulenze esterne conferite nel triennio 1994-1995-1996; l'atto di citazione è stato depositato il 12 marzo 1999 mentre l'emendamento all'art. 2 del decreto legge 29 gennaio 1999 è stato presentato per la prima volta al Senato della Repubblica il 23 febbraio 1999, approvato il 23 marzo 1999 e pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale il 27 marzo 1999. Ora, indipendentemente dalla qualificazione che si voglia dare alla legge 25 marzo 1999 n. 75, l'indagine della Procura Regionale, effettuata sulle consulenze dei soli anni 1994-1995 e 1996, rendono ininfluenti ed ultronee le argomentazioni svolte al riguardo dalla difesa dei convenuti. Infatti, ci troviamo, comunque, in presenza di rapporti giuridici già conclusi ossia esauriti e definiti. In questo contesto, irretroattività significa che la nuova legge non può modificare, ora per allora, i termini di tali rapporti: non escludere tutto questo significherebbe che, su questioni già concluse, l'ordinamento giuridico può essere modificato unilateralmente a cose fatte e ciò in violazione di un principio di civiltà giuridica essenziale. Reputa il Collegio che nella fattispecie non è applicabile la legge sopravvenuta n. 75 del 1999 perché incontra il limite del c.d. "facta praeterita" o "del fatto compiuto"per cui le nuove norme non possono essere applicate a rapporti precedentemente sorti i cui effetti sono già esauriti. Da ciò discende che non risulta venuto meno l'interesse alla prosecuzione dell'attività processuale in questione per cessazione della materia del contendere.

Ne consegue che all'attualità permangono gli effetti dannosi nei confronti del Comune di Roma cagionati dai suoi amministratori. 6.- Infondata è anche l'eccezione sollevata secondo cui la valutazione delle esigenze del ricorso alle consulenze esterne appartiene alla discrezionalità della pubblica amministrazione e come tale insindacabile da parte del giudice della responsabilità, giusto anche il disposto dell'articolo 1, comma 1, della legge n.20 del 1994 nel testo coordinato con il decreto legge 23 ottobre 1996, n. 543 convertito con la legge 20 dicembre 1996, n. 639 che prevede espressamente che "la responsabilità dei soggetti sottoposti alla giurisdizione della Corte dei Conti in materia di contabilità pubblica è personale e limitata agli atti ed alle omissioni commesse con dolo o colpa grave, ferma restando l'insindacabilità nel merito delle scelte discrezionali". Al riguardo va evidenziato che la discrezionalità amministrativa, per quanto ampia possa essere, incontra pur sempre tre limiti fondamentali invalicabili costituiti rispettivamente dall'interesse pubblico, dalla causa del potere e dai comuni precetti di logica ed imparzialità. In particolare, ritiene il Collegio che " l'insindacabilità nel merito delle scelte discrezionali" sancita, da ultimo, dalla normativa citata, non può essere in nessun caso intesa come possibilità di travalicare i suddetti limiti che, com'è intuitivo, segnano il necessario confine fra la più ampia discrezionalità e l'arbitrio. Infatti, le predette disposizioni non possono essere interpretate come affermazione assoluta di irresponsabilità dal momento che il legislatore ha semplicemente inteso recepire l'interpretazione giurisprudenziale secondo la quale i fatti che conseguono a scelte discrezionali sono valutabili da questo giudice secondo i principi di razionalità e giustificabilità della scelta. D'altronde l'espressione normativa "ferma restando l'insindacabilità delle scelte discrezionali" non può che far riferimento ai principi elaborati dalla giurisprudenza, non esistendo anteriormente disposizioni che disciplinassero la materia per cui, sul piano concreto, non ci troviamo di fronte ad un nuovo precetto, quasi che in precedenza fosse consentito al giudice sindacare nel merito le scelte discrezionali. E' noto, infatti, che anche prima, ciò non era possibile perché ostavano i principi generali ed il rispetto dovuto all'autonomia degli enti, trattandosi di autonomia costituzionalmente garantita come quella degli enti locali.

Pertanto, non attenta a questa autonomia e non invade il merito delle scelte discrezionali il giudice che verifica nel caso concreto se una iniziativa rientrante nell'ambito di tali scelte si sia informata ai principi cui esse si debbono attenere. A ciò aggiungasi che, in ogni caso, nella fattispecie si verte in ipotesi al di fuori di quelle previste dalla legge. Da ciò discende che il conferimento di tali incarichi di consulenza, in assenza delle previste condizioni, lungi dal costituire esercizio di una potestà discrezionale, si pone come violazione di quanto statuito dalla legge e configura conseguentemente una ipotesi di violazione di legge. Ritiene, quindi, il Collegio che nella fattispecie non si tratta di sindacare il merito di una scelta della pubblica amministrazione, bensì di fare chiarezza sulla sussistenza o meno delle condizioni cui è subordinato l'esercizio legittimo e lecito del potere di scelta. Vale a dire che occorre accertare per ogni incarico se si sia tenuto conto delle predette condizioni e se sia stato rispettato il principio di ragionevolezza, cui deve costantemente improntarsi l'operato degli amministratori; principio che riassume in sé quelli della economicità e del buon andamento dell'azione amministrativa costituzionalmente garantiti. Infatti, va rilevato che il Collegio è chiamato a pronunciarsi in ordine ai limiti del potere della pubblica amministrazione di avvalersi dell'opera di soggetti estranei alla propria organizzazione nel perseguire le finalità istituzionali a cui, in via di principio, per la natura di queste e secondo l'apparato di cui dispone, dovrebbe provvedere direttamente con le sue strutture - organi ed uffici - per espletare l'attività istituzionale, il cui esercizio è demandato secondo la legge al proprio apparato e che ricomprende sia l'attività decisionale, identificabile con la funzione o con la potestà pubblica e sia quella tecnica o comunque operativa.

La vicenda in questione concerne, quindi, i limiti entro i quali può riconoscersi alla pubblica amministrazione la potestà di affidare a terzi lo svolgimento di attività connesse alla realizzazione delle proprie finalità tenendo presente che la legge 8 giugno 1990, n. 142, ha effettivamente assunto portata innovativa, chiaramente puntualizzata nei principi fissati nell'articolo 51 per i quali, tra l'altro, "i poteri di indirizzo e di controllo spettano agli organi elettivi mentre la gestione amministrativa è attribuita ai dirigenti". Seguendo il tracciato già segnato in sede di diversificazione tra attribuzioni degli organi politici e competenze della dirigenza statale di cui al D.P.R. 30 giugno 1972, n.748, successivamente rimodellato dal decreto legislativo 3 febbraio 1993, n. 29 a norma dell'articolo 2 della legge 23 ottobre 1992, n. 421, il legislatore si è ispirato ad un rigido criterio di ripartizione di competenze riconoscendo agli organi politici poteri di formulazione delle linee guida (indirizzo) e di verifica (controllo) dell'attuazione delle stesse ed assegnando agli organi amministrativi c.d. burocratici la concreta gestione degli affari. Tutto ciò coinvolge inevitabilmente anche la problematica della liceità del ricorso alle prestazioni di terzi da parte di un ente pubblico in presenza di uffici con competenze specifiche nella organizzazione dell'ente medesimo, tenendo presente che, per ciò che concerne le pubbliche amministrazioni, è principio generale, unitariamente e pacificamente riconosciuto dalla giurisprudenza, che l'attività delle amministrazioni stesse deve essere svolta dai propri organi o uffici consentendosi il ricorso a soggetti esterni soltanto nei casi previsti dalla legge o in relazione ad eventi e situazioni straordinarie non fronteggiabili con le disponibilità tecnico - burocratiche esistenti. Correlata ai principi suddetti è la previsione dell'articolo 58 della legge n. 142 del 1990, la quale, in materia di responsabilità, ha unificato la posizione degli amministratori e del personale degli enti locali sottoponendoli alla giurisdizione di questo unico giudice, innanzi al quale ciascuno di essi è tenuto a rispondere per la violazione delle attribuzioni rientranti nella rispettiva sfera di competenza.

Quindi, in presenza di apparati istituzionalmente preordinati al soddisfacimento di determinate esigenze, deve, pertanto, ritenersi che l'amministrazione possa affidare la realizzazione di queste solo in circostanze particolari, la cui sussistenza deve essere comprovata con elementi certi e puntuali, tali da giustificare, nel caso concreto, la deroga alla regola generale prima indicata. In particolare, i conferimenti di incarichi di consulenza a soggetti esterni, possono essere attribuiti ove i problemi di pertinenza dell'amministrazione richiedano conoscenze ed esperienze eccedenti le normali competenze del personale dipendente e conseguentemente implichino conoscenze specifiche che non si possono nella maniera più assoluta riscontrare nell'apparato amministrativo. Sotto tale profilo l'incarico stesso non deve implicare uno svolgimento di attività continuativa ma la soluzione di specifiche problematiche; deve caratterizzarsi cioè per la specificità e temporaneità; deve dimostrarsi, altresì, l'impossibilità di adeguato assolvimento dell'incarico da parte delle strutture dell'ente per mancanza di personale idoneo; non deve rappresentare uno strumento per ampliare surrettiziamente compiti istituzionali e ruoli organici dell'ente al di fuori di quanto consentito dalla legge; il compenso connesso all'incarico deve essere proporzionato all'attività svolta e non corrisposto in maniera forfettaria; la delibera di conferimento deve essere adeguatamente motivata al fine di consentire l'accertamento della sussistenza dei requisiti previsti; l'organizzazione dell'amministrazione deve, comunque, caratterizzarsi secondo i principi di razionalizzazione, non duplicazione di funzioni e non sovrapposizione con funzioni di attività e gestione amministrativa; deve caratterizzarsi, altresì, per la migliore utilizzazione e flessibilità delle risorse umane nonché per la economicità, trasparenza ed efficacia dell'azione amministrativa.

Si tratta di principi e criteri enunciati in una serie ripetuta di disposizioni normative ed in particolare nell'art. 1, comma 1; nell'articolo 6, comma 1 e nell'articolo 31 del decreto legislativo n. 29 del 1993, peraltro in coerenza con i principi costituzionali di cui agli articoli 97 ed 81 della Costituzione. Di qui la conseguenza che ogni amministrazione pubblica deve caratterizzarsi per una struttura snella che impieghi anzitutto le risorse umane già esistenti all'interno dell'apparato e che, solo nella documentata e motivata assenza delle stesse, possa far ricorso a professionalità esterne, peraltro, da individuare in base a criteri predeterminati, certi e trasparenti. A proposito degli incarichi ad estranei è necessario anche che il conferimento debba contenere i criteri di scelta; che non sia generico o indeterminato al fine di evitare un evidente accrescimento delle competenze e degli organici dell'ente, il che presuppone la ricognizione e la certificazione dell'assenza effettiva nei ruoli organici delle specifiche professionalità richieste e tutto questo sia per quanto riguarda l'indicazione dei requisiti che per ciò che concerne i criteri di conferimento. Anzi, a tal riguardo, la giurisprudenza ha sempre precisato che tali criteri non debbano essere generici anche perché la genericità non consente un controllo della legittimità sull'esercizio della attività amministrativa di attribuzione degli incarichi.

Applicando i principi evidenziati emerge chiaramente che l'eccezione così come prospettata deve essere rigettata dal momento che nella fattispecie viene valutato il comportamento degli amministratori in relazione all'esercizio del potere di scelta che è regolato da precise norme nonché tenendo conto dei caratteri e dei compiti che deve svolgere l'amministrazione comunale di Roma. Non si tratta, quindi, di valutare l'eventuale cattivo uso della discrezionalità ma l'illiceità della condotta dei responsabili ed il loro comportamento contrario alla normativa vigente. 7.- Il Collegio ritiene infondata anche l'eccezione di indeterminatezza della domanda in quanto la prospettazione di parte attrice in ordine sia al petitum sia alla causa petendi appare sufficientemente definita, in considerazione dei richiami effettuati nell'atto di citazione, della minuziosa esposizione dei fatti, sulla base della consistente documentazione reperita, delle indagini svolte dalla Guardia di finanza e delle circostanze tutte rilevanti per la ricostruzione dei fatti stessi riferibili agli attuali convenuti. In particolare, per quanto attiene alla sussistenza del danno, tali fatti risultano o emergono in maniera sufficiente dai numerosissimi atti depositati dalla Procura Regionale con l'atto di citazione, atti a cui si ritiene di far riferimento e che si devono intendere integralmente riportati. 8.- Alla luce di quanto prospettato non vi è dubbio, quindi, sulla sussistenza anche del dolo oltre che della colpa grave e del danno nella specie all'esame. Infatti, dagli atti risulta inequivocabilmente che è stato violato il fondamentale dovere di fedeltà; le regole per il corretto conferimento di incarichi di consulenze a persone estranee all'amministrazione comunale da parte dei convenuti i quali per ragioni di ufficio erano sicuramente a conoscenza dei fatti dannosi che davano luogo a responsabilità:in altri termini vi è il c.d. dolo contrattuale. A conforto di quanto sostenuto si evidenzia anche che i convenuti hanno giustificato il conferimento delle consulenze sostenendo che sul piano concreto hanno anticipato ciò che, poi, avrebbe previsto una legge futura. In tal modo hanno teorizzato un complesso di poteri e facoltà in capo agli organi elettivi che, invece, non ha mai avuto riscontro nella realtà giuridica. In proposito va affermata la diversità tra dolo penale (al quale è assimilabile il dolo c.d. extra-contrattuale, produttivo di responsabilità aquiliana) ed il dolo c.d. contrattuale o in adimplendo, che attiene all'inadempimento di uno specifico obbligo preesistente quale ne sia la sua fonte. Il primo viene in rilievo come diretta e cosciente intenzione di nuocere, ossia di agire ingiustamente a danno di altri da parte di persona imputabile; il secondo consiste nel proposito sciente di non adempiere all'obbligo stesso.

E' evidente che nel giudizio di responsabilità amministrativo-contabile, il quale si caratterizza per l'inadempimento di preesistenti doveri di comportamento nascenti dal rapporto di servizio, viene in rilievo il secondo tipo di dolo e nella specie la prova è data dalla circostanza che scientemente sono stati violati doveri di ufficio. Il Collegio, in tale situazione, ritiene che in ogni caso la situazione prospettata deve essere sanzionata perché configura l'inadempimento da parte degli amministratori e dei funzionari del Comune di Roma di precostituiti obblighi di servizio e perciò i doveri di "comportamento" nascenti dal rapporto che lega tali soggetti alla pubblica amministrazione. Reputa il Collegio che la vicenda descritta, che ha avuto grande eco sulla stampa e che è stata seguita con una certa preoccupazione dall'opinione pubblica per il modo disinvolto di amministrare la finanza pubblica, integri una fattispecie di responsabilità. Infatti, i convenuti si sono resi responsabili di comportamenti illegittimi e illeciti nonché della violazione delle regole di efficienza, economicità ed efficacia in cui si compendiano i principi del c.d. "buon andamento" e della "sana gestione" ai quali deve essere improntata l'azione di qualsiasi amministrazione pubblica e privata. In ogni caso, nella fattispecie difettano le condizioni surrichiamate per il conferimento delle consulenze esterne, per cui tali incarichi debbono considerarsi illeciti ed i compensi ad essi conseguenti costituiscono ingiusto depauperamento delle finanze del Comune di Roma.

9.- In tale situazione, ritiene il Collegio che il danno concretamente subito dal Comune di Roma, che si ripercuote in definitiva sulla collettività, è grave ed è in re ipsa. In ogni caso, è stata sufficientemente provata la sussistenza di un nocumento patrimoniale del Comune di Roma, prendendo in considerazione tutti gli elementi acquisiti, valutandoli autonomamente ai fini propri del presente giudizio, nonché tenendo conto del danno del quale sono stati ampiamente evidenziati i profili, del nesso di causalità, degli elementi oggettivi e soggettivi dell'obbligazione risarcitoria per cui è domanda nonché del collocamento funzionale tra i fatti dannosi e l'illecito conferimento degli incarichi di consulenze a persone estranee all'amministrazione comunale da parte dei convenuti con un comportamento di questi ultimi contrario ai doveri di fedeltà e lealtà verso lo Stato, alla cui osservanza, peraltro, i sindaci e gli assessori sono particolarmente tenuti. 10.- Per ciò che concerne, poi, la determinazione del danno il Collegio condivide la quantificazione e la ripartizione effettuata dalla Procura Regionale, secondo la quale la pretesa risarcitoria ammonta complessivamente a lire 2.238.664.265 e deve essere posta a carico dei convenuti in quote uguali, in relazione ai rispettivi apporti causali e tenendo conto del diverso grado di responsabilità di cui ciascun convenuto è chiamato a rispondere. Si tratta di un criterio di ragionevolezza che tiene conto della distinta posizione dei convenuti. Pertanto, va affermata la responsabilità del Sindaco del Comune di Roma, degli Assessori, del Segretario Generale, dei dirigenti interessati nonché degli amministratori comunali che parteciparono con espresso voto favorevole alle delibere di nomina dei suindicati consulenti, in quanto i medesimi hanno contribuito a formare la volontà dell'organo deliberativo e quindi l'atto che di quella volontà è emanazione, conferendo, dunque pari apporto causale nella genesi dell'evento lesivo.

(omissis)

I pareri sono inseriti nella deliberazione". Il secondo comma stabilisce che, "nel caso in cui l'ente non abbia funzionari responsabili dei servizi, il parere è espresso dal segretario dell'ente, in relazione alle sue competenze", il terzo che "i soggetti di cui al comma 1 rispondono in via amministrativa e contabile dei pareri espressi" e il quarto che "i segretari comunali e provinciali sono responsabili degli atti e delle procedure attuative delle deliberazioni di cui al comma 1, unitamente al funzionario preposto". Con tale norma, sostanzialmente, il legislatore ha voluto introdurre il principio secondo il quale, in presenza di un pregiudizio arrecato all'ente, il carattere consultivo dell'attività svolta non esclude la responsabilità del soggetto che ha formulato il parere. Inoltre, va precisato che la giurisdizione della Corte dei Conti nei confronti dei segretari comunali era stata riconosciuta sussistente anche prima dell'entrata in vigore della legge n. 142 del 1990, atteso che, tali funzionari, pur essendo in rapporto organico con l'ente locale sono tuttavia in rapporto di servizio con l'amministrazione statale. Riguardo all'esercizio della funzione consultiva la stessa giurisprudenza della Corte dei Conti ha riconosciuto la responsabilità del segretario comunale, in quanto il parere stesso - obbligatorio anche se non vincolante - ha una obiettiva ed autonoma valenza procedimentale, assumendo un ruolo causale ed efficiente nel venire in essere dell'atto illegittimo e dei suoi effetti pregiudizievoli.

Nella fattispecie si tratta di riprovevole assistenza agli organi dell'amministrazione comunale, di un comportamento trasgressivo di qualsiasi norma di ragionevolezza, infatti il comportamento dei responsabili, in ordine al parere che hanno adottato, è gravemente lesivo degli interessi dell'amministrazione perché tale attività è stata resa senza alcuna valutazione delle possibili conseguenze dannose per cui è connotato anche da grave imprudenza, se si considera che i medesimi, a cui l'ordinamento aveva attribuito il compito di verificare i profili di legittimità degli atti del comune, espressero parere favorevole in merito a delibere sulla legittimità della quale dovevano nutrire notevoli dubbi. Né, peraltro, sarebbe consentito invocare la mancanza di nesso di causalità tra il comportamento di quest' ultimi convenuti ed il danno erariale considerato che il parere negativo di legittimità reso da tali organi non preclude il proseguo del procedimento di deliberazione del consiglio e della giunta comunale, atteso che il motivato dissenso dei responsabili avrebbe potuto dissuadere il sindaco e gli assessori dal procedere alla adozione di delibere produttive di danno.

12.- Da quanto precede emerge chiaramente che l'attività commessa coincide con quella che in virtù di norme di legge rientra nei compiti dell'amministrazione disciplinati nella loro articolazione amministrativa e che per la nomina dei consulenti esterni in questione, i responsabili hanno violato le norme ed i principi vigenti in materia e precisamente quelli che stabiliscono: a) che i conferimenti di incarichi di consulenza a soggetti esterni, possono essere attribuiti ove i problemi di pertinenza dell'amministrazione richiedano conoscenze ed esperienze eccedenti le normali competenze del personale dipendente e conseguentemente implichino conoscenze specifiche che non si possono nella maniera più assoluta riscontrare nell'apparato amministrativo; b) che l'incarico stesso non deve implicare uno svolgimento di attività continuativa ma la soluzione di specifiche problematiche; c) che deve caratterizzarsi cioè per la specificità e temporaneità e che deve dimostrarsi, altresì, l'impossibilità di adeguato assolvimento dell'incarico da parte delle strutture dell'ente per mancanza di personale idoneo; d) che non deve rappresentare uno strumento per ampliare surrettiziamente compiti istituzionali e ruoli organici dell'ente al di fuori di quanto consentito dalla legge; e) che il compenso connesso all'incarico deve essere proporzionato all'attività svolta e non liquidato in maniera forfettaria; g) che la delibera di conferimento deve essere adeguatamente motivata al fine di consentire l'accertamento della sussistenza dei requisiti previsti; h) che l'organizzazione dell'amministrazione deve, comunque, caratterizzarsi secondo i principi di razionalizzazione, non duplicazione di funzioni e non sovrapposizione con funzioni di attività e gestione amministrativa; i) che deve caratterizzarsi per la migliore utilizzazione e flessibilità delle risorse umane nonché per la economicità, trasparenza ed efficacia dell'azione amministrativa; l) che l'amministrazione deve impiegare anzitutto le risorse umane già esistenti all'interno dell'apparato e che, solo nella documentata e motivata assenza delle stesse, possa far ricorso a professionalità esterne, peraltro, da individuare in base a criteri predeterminati. certi e trasparenti; m) che per gli incarichi ad estranei è necessario anche che il conferimento debba contenere i criteri di scelta; n) che non sia generico o indeterminato al fine di evitare un evidente accrescimento delle competenze e degli organici dell'ente, il che presuppone la ricognizione e la certificazione dell'assenza effettiva nei ruoli organici delle specifiche professionalità richieste e tutto questo sia per quanto riguarda l'indicazione dei requisiti che per ciò che concerne i criteri di conferimento; o) che tali criteri non debbano essere generici anche perché la genericità non consente un controllo della legittimità sull'esercizio della attività amministrativa di attribuzione degli incarichi.

Ai fini della scelta non è emersa, poi, l'esperienza e competenza effettivamente acquisite dagli interessati; non si è tenuto conto della idoneità delle strutture organizzative interne dell'Amministrazione per le esigenze da soddisfare; non è risultato l'eccezionalità e straordinarietà di tali esigenze dal momento che si è trattato di assolvimento di normali mansioni amministrative per le quali ugualmente avrebbero potuto e dovuto far fronte le strutture interne dell'amministrazione comunale. A ciò aggiungasi che per le loro caratteristiche - conferimento per mesi sei e reiterata proroga delle consulenze - gli incarichi vanno qualificati a tempo indeterminato per cui ritiene il collegio che la situazione prospettata dissimula un rapporto di lavoro subordinato, stante l'inserimento dell'incaricato nella struttura amministrativa dell'ente. In tale contesto è in "re ipsa" la consapevolezza dell'illecito da parte degli amministratori e quindi vi è nel loro comportamento, oltre al carattere di grave colpevolezza, un vero e proprio dolo contrattuale perché gli incarichi affidati sono generici, indeterminati nonché volontariamente conferiti in violazione dei doveri di servizio e della normativa vigente; hanno, poi, comportato arbitrari e rilevanti impegni di spesa a carico del bilancio dell'amministrazione, mentre una corretta gestione avrebbe dovuto presupporre una esatta ricognizione delle risorse e delle professionalità disponibili all'interno dell'ente. I compensi da corrispondersi ai soggetti cui è stato conferito l'incarico dovevano essere determinati, in ogni caso, sulla base della elencazione analitica dell'attività e delle operazioni svolte e non in maniera sproporzionata e forfetaria.

E' evidente che gli illeciti esborsi relativi a tali reiterati incarichi abbiano arrecato un pregiudizio patrimoniale all'ente comunale e ciò emerge indiscutibilmente dalla non conformità del comportamento dei responsabili a schemi normativi disciplinanti l'attività da essi posta in essere. E' comprovato, quindi, l'elemento psicologico della colpa grave e del dolo contrattuale come già rilevato precedentemente. E' chiaro, infatti, che gli incarichi in parola furono affidati senza i necessari presupposti, affiancando alla struttura comunale soggetti estranei per l'espletamento di compiti strettamente istituzionali oppure che rappresentano duplicazione di funzioni istituzionali, sovrapposizione con funzioni di attività e gestione amministrativa; in altri termini gli incarichi conferiti come puntualizzato in parte motiva, si fondano su compiti di pertinenza dell'apparato comunale le cui strutture erano adeguate e funzionali rispetto alle esigenze poste a base delle assentite consulenze, consistenti in attività meramente marginali, senza alcuna utilità per l'ente comunale. A ciò va aggiunto che la colpa grave, nella fattispecie, si sostanzia anche in un comportamento contrario a regole deontologiche elementari, caratterizzato dalla volontarietà degli atti posti in essere; dalla illiceità della condotta, dalla mancanza di cautele, cure o conoscenze costituenti lo standard minimo di diligenza nonché dalla particolare negligenza ed ingiustificata imperizia che rivela il disprezzo dei doveri di comportamento più elementari ed il massimo di slealtà se si tiene conto della elevata qualificazione culturale e professionale dei convenuti.

Appare evidente, poi, il nesso di causalità tra danno e colpa grave, giacché proprio le reiterate delibere di conferimento degli incarichi hanno prodotto l'illecito esborso. In tale contesto l'assunto dei convenuti, in ordine alle consulenze in questione, è palesemente infondato e le tesi sostenute al riguardo dagli stessi non valgono affatto a conferire, come erroneamente suppongono, il crisma della liceità e della legalità a comportamenti che, in concreto, tali non erano e non sono, ovvero ad elidere ogni responsabilità conseguente ad un non corretto modus operandi, ritenendo di poter ravvisare un effetto sanante delle commesse illiceità nella normativa sopravvenuta ed indicata in narrativa. Ritiene il Collegio che nei casi di specie non si trattava di costituire le cosiddette "segreterie particolari" oppure uffici similari con persone di fiducia e legate agli organi politici sotto vari profili, ma di conferire incarichi a professionisti in grado di assicurare un sostegno agli organi elettivi nell'esercizio dei poteri di indirizzo e di controllo e quindi provvisti di alta professionalità, idoneità e competenza tale da poter essere utili nell'apparato nel quale venivano inseriti ed impegnati.

In questa situazione sono emersi, invece, vari aspetti di illiceità come ampiamente illustrato in precedenza perché gli amministratori locali vollero assumere a carico del bilancio comunale persone di fiducia utilizzando le norme disponibili ma disattendendo contemporaneamente il contenuto delle norme stesse ed i principi vigenti in materia. E tutto ciò senza valorizzare il personale in servizio nell'amministrazione comunale nei confronti del quale, invece, si è dimostrato un totale ed ingiustificato atteggiamento di sfiducia.

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