03 maggio 2007

 
     

Infedelta' patrimoniale : il concetto di conflitto d'interessi
dell'avv. Giovanni G. Ladisi

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2. Il concetto di conflitto di interessi nel previgente art. 2631 del codice civile. Anteriormente alla riforma realizzata con il d.lgs. n.61 del 2002, l'art.2631 c.c. rappresentava la sola disposizione diretta a predisporre una tutela di carattere generale al dovere di fedeltà degli amministratori. La norma elevava a delitto, sanzionandolo peraltro con una semplice pena pecuniaria quale la multa da lire quattrocentomila a quattro milioni, la condotta di chi tra gli stessi amministratori, "avendo in una determinata operazione per conto proprio o di terzi un interesse in conflitto con quello della società", non si asteneva dal "partecipare alla deliberazione del consiglio o del comitato esecutivo relativa all'operazione stessa"; era prevista inoltre nel capoverso successivo, l'applicazione, oltre alla multa, della pena detentiva fino a tre anni nell'ipotesi in cui "dalla deliberazione o dalla operazione fosse derivato pregiudizio alla società".

Tale fattispecie a sua volta era da porsi in relazione con la corrispondente norma civilistica dell'art. 2391 c.c. nella quale veniva previsto sia l'obbligo dell'astensione, sia l'obbligo della comunicazione del conflitto agli altri amministratori nonché ai componenti del collegio sindacale. Ed è proprio quest'obbligo di comunicazione in capo agli amministratori che rilevava nella norma civilistica dell'art. 2391 c.c. differenziandola al tempo stesso da quella penalistica (art. 2631 c.c.) in cui non era previsto l'obbligo per gli amministratori, aventi un conflitto di interessi con la società, di darne notizia sia ai colleghi componenti il consiglio di amministrazione sia ai sindaci22.

A tutt'oggi però, dopo l'emanazione del recentissimo d. lgs. del 17 gennaio 2003 n. 6 che ha riformato il diritto societario, la modifica dell' art. 2391 c.c. in tema di conflitto di interessi fissa un regime di responsabilità più rigoroso rispetto al passato imponendo specifici obblighi e responsabilità a carico degli amministratori. Nella nuova norma non è più richiesto che l'interesse dell'amministratore sia in conflitto con quello della società ed infatti, lo stesso nomen juris della disposizione è cambiato da "conflitto di interessi" a "interessi degli amministratori", imponendo così l'obbligo per gli amministratori di comunicare agli altri colleghi e all'organo di controllo qualsiasi interesse, anche non in conflitto con quello della società, che per conto proprio o di terzi abbiano in determinate operazioni, precisandone la natura, i termini, l'origine e la portata, e imponendosi in caso di amministratore delegato di astenersi dal compimento dell'operazione e investendone l'organo collegiale.

In sostanza, nella nuova disciplina dell'art. 2391 c.c. è 26 sufficiente che l'amministratore sia portatore di un interesse proprio o di terzi, anche se tale interesse coincide con quello della società, e che il suo voto sia stato determinante per l'assunzione della delibera, per far scattare il meccanismo dell'impugnazione della stessa previsto dalla norma. Quindi, ai fini della individuazione della responsabilità civile era, ed è tuttora necessario, anche a seguito della riforma societaria, che il voto dell'amministratore in conflitto sia stato determinante per l'assunzione della delibera. Ma a tal proposito la dottrina si è sempre chiesta se lo stesso elemento fosse indispensabile anche per la punibilità ex art 2631 c.c.. La dottrina unanime ha da sempre sostenuto la tesi negativa e sostanzialmente per due motivi: in primis perché l'art. 2631 c.c. nulla diceva in proposito e non è nemmeno possibile in campo penalistico, con riferimento alle norme incriminatici, un'estensione analogica della norma; in secundiis, perché l'approvazione di una delibera da parte del consiglio non fa parte degli elementi costitutivi del reato, visto che il momento di consumazione dello stesso è anteriore, in quanto coincide con la semplice prestazione del voto nella riunione consiliare o del comitato esecutivo23. Infatti, secondo l'opinione prevalente, nel caso in esame si era in presenza di un'ipotesi di reato di pericolo presunto che identifica il conflitto di interessi come delitto di infedeltà senza offesa per la cui sussistenza è estranea la nozione di danno e di conseguenza la punibilità sussiste anche nel caso in cui dalla delibera la società tragga vantaggio; mentre il verificarsi del danno ai sensi del comma 2° dell'art. 2631 c.c., si configurava come circostanza aggravante.

A questo orientamento formalistico se ne contrappose un altro, c.d. sostanzialistico, di cui era espressione la posizione assunta dalla Corte di Cassazione nella prima ed anche più importante decisione pronunciata in materia la quale aveva affermato che il conflitto si doveva ritenere assente "ogniqualvolta l'amministratore" avesse partecipato "alla delibera sostenendo decisamente la soluzione favorevole alla società e votando per essa"; di conseguenza il delitto veniva così a trasformarsi in reato di pericolo concreto. In più la Corte, sempre nella stessa decisione, specificava che l'espressione "astenersi dal partecipare alla deliberazione consiliare" si riferisce semplicemente all'astensione dall'esercizio del diritto di voto e non all'astensione dalle discussioni o dalla presenza alla delibera". Infatti, il legislatore ha elevato a fattispecie reato considerandola lesiva o pericolosa per l'interesse sociale, solo la condotta dell'amministratore che concorra attraverso il voto effettivamente alla formazione della deliberazione, di conseguenza non può farsi rientrare nello schema dell'art. 2631 c.c. la semplice presenza dell'amministratore al momento della delibera.

Da ciò si desume che "presenza e partecipazione alla delibera" sono concetti autonomi e non sempre coincidenti tra di loro e che solo la partecipazione dell'amministratore alla formazione della delibera assembleare, mediante l'esercizio del suo diritto di voto, può costituire un'infrazione. In questo modo il legislatore del '40 aveva introdotto una fattispecie di pericolo che puniva il semplice divieto di astensione dal voto, indipendentemente dal fatto che la condotta dell'amministratore avesse cagionato nocumento alla società, mentre, se ciò si verificava, si applicava l'aggravante prevista dal secondo comma. Un ulteriore problema che era sorto e concernente sempre la struttura materiale dell'illecito riguardava la configurabilità di un conflitto di interessi nell'ambito di un gruppo di società. Tale problema compariva se, in caso di conflitto di interessi tra società controllante e società controllata, l'amministratore di quest'ultima, in quanto portatore di interessi della società madre, avesse l'obbligo di astenersi dal partecipare alla deliberazione del consiglio.

La Cassazione sempre nella sentenza sopracitata (Cass., sez III, 25 febbraio 1959, ), a questo proposito, ha affermato che, circa il conflitto di interessi nei rapporti tra società collegate, non possa riscontrarsi l'elemento psicologico del reato nel caso in cui l'amministratore membro dei due consigli partecipi ad una "delibera il cui contenuto eventualmente pregiudizievole non sia avvertito come tale, data la rilevanza che viene ad assumere nel quadro dei molteplici interessi in gioco". Tale soluzione ha incontrato il dissenso della prevalente dottrina penalistica, in considerazione del pregiudizio che poteva eventualmente derivarne ai soci di minoranza della società sacrificata e ai creditori della stessa. In sostanza, pur trattandosi di un delitto con cui la norma reprime una forma di infedeltà dell'amministratore nei confronti della società amministrata, il consenso dell'assemblea, visto che influisce sul contenuto e sulla struttura dell'interesse sociale, vieta il sorgere di un conflitto tra gli interessi in questione; di conseguenza, mancando il presupposto in base al quale l'amministratore infedele avrebbe dovuto agire, il fatto illecito non può più esistere.

In sostanza, non esistendo nell'art. 2631 c.c. una disciplina specifica relativa al conflitto di interessi tra gruppi societari, al fine di risolvere tale problema si erano formati tre indirizzi interpretativi: il primo che affermava la prevalenza dell'interesse del gruppo, il secondo che invece la negava ed il terzo intermedio che tentava di conciliare i diversi interessi sia del gruppo sia delle singole società, cercando di bilanciarli e compensarli tra di loro, poiché non si può considerare a priori l'interesse del gruppo come extrasociale e quindi in grado di generare una situazione di conflitto.

Ma se da un lato la nostra soluzione codicistica si dimostrò ben presto incapace di disciplinare situazioni in cui all'interesse della singola società si aggiungesse un interesse estraneo a quello societario, dall'altro in alcuni ordinamenti comunitari le tipiche fattispecie incriminatrici predisposte alla repressione degli abusi del potere da parte degli amministratori ("l'abus de biens, du crédit, des pouvoirs et de voix" in Francia, l' "Untreue" in Germania), anche se sono state create prima dello sviluppo del fenomeno dei gruppi di società, sono state capaci di dare comunque una giusta soluzione normativa al fenomeno in questione24. Così di fronte all'evanescente ed eterea fattispecie di cui all'art. 2631 c.c. il legislatore, a seguito dell'emanazione del d. lgs. n. 61 del 2002, nel delineare la fattispecie di infedeltà patrimoniale (art.2634 c.c.) ha previsto un modello delittuoso contrassegnato non più dalla violazione di norme sul conflitto di interessi, ma dall'aver agito in una situazione di conflitto di interessi.

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22 Renato F. Ellero Carlo Nordio, Reati societari e bancari, Cedam 1998, p. 215.
23 Bartolomeo Quatraro Luca G. Picone, La responsabilità di amministratori, sindaci, direttori generali e liquidatori di società, Giuffrè 1998 p. 1873.
24 Luigi Foffani, Le fattispecie di infedeltà patrimoniale degli organi sociali: conflitto di interessi ed illeciti rapporti patrimoniali, in Giurisprudenza sistematica di diritto penale, N. Mazzacuva UTET 1990, p.222-223.
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