NEW del 23 giugno 2005

 
 
       
 

Italiani visti da un britannico : poca coscienza dei propri diritti
di Giulia Alliani

"Addio alla Dolce Vita" e' il titolo di un lungo, lunghissimo articolo che "The Independent" ha dedicato ieri all'Italia e agli Italiani.

Non un elenco dei soliti stereotipi, non un altezzoso ritratto del Sud dell'Europa visto dal viaggiatore del Nord. Al contrario: il dispiacere nel constatare il declino di un paese spesso criticato, ma anche molto amato e, in qualche caso, scelto come luogo dove vivere, perche' pieno di bellezza, di intelligenza, di umanita', nonostante i suoi difetti.

Non sono le critiche degli stranieri: questa volta e' la disperazione degli italiani che il corrispondente da Roma, Peter Popham, racconta e mette a confronto con le recenti dichiarazioni del presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi, per il quale questo e' un paese ricco e felice, il piu' bello e ricco del mondo, pieno di automobili (NDR: forse perche' i treni e gli autobus funzionano poco), di case di proprieta' (NDR: forse perche' non se ne trovano in affitto a un prezzo decente), di telefonini e di playboy.

Non abbiamo un aspetto male in arnese: facciamo la nostra buona "figura", alla quale teniamo ossessivamente, siamo eleganti, ma ormai, dice Popham, la nostra "e' una storia di frustrazione. Frustrazione in un paese fra i piu' dolci e i piu' ricchi del mondo: la frustrazione dei giovani e dei vecchi, dei privilegiati e di quelli che non lo sono, in un paese che per decenni ha goduto di una rapida crescita suscitando l'invidia del mondo - il paese con il clima perfetto, il cibo e il vino perfetti, e un approccio rilassato al successo che rendeva tutto ancora piu' dolce". Ma quella dolcezza non c'e' piu': anche per i presunti playboy la vita in Italia e' un incubo, da cui e' possibile risvegliarsi solo lasciando il proprio paese.

Il primo italiano intervistato da Popham e' un genovese: intelligente, colto, non laureato, con una passione, e una notevole preparazione, nel campo della comunicazione. Da anni sbatte la testa contro il muro delle istituzioni pubbliche genovesi, chiedendo un lavoro in base alle sue competenze.

Non ha ottenuto nulla ed e' giunto alla conclusione che, in Italia, capacita' e passione non contano niente: "La prima cosa che guardano - dice - e' se appartieni a qualche gruppo: un partito politico, un'organizzazione civile di qualche tipo, qualsiasi cosa, ma uno deve far parte di un gruppo. Se non appartieni a un gruppo non hai possibilita', non ti prendono neanche in considerazione. Se comunque chiedi un lavoro, ti fanno provare, ti fanno credere di avere qualche possibilita'. Pero' alla fine la telefonata non arriva, la lettera neanche, e ti rendi conto che, in realta', la possibilita' non c'e' mai stata. Ti fanno perdere tempo, sperando che tu lasci perdere, che tu capisca. Se continui, a un certo momento pensano che devi essere proprio scemo. Se non c'e' qualcuno che dice: "Dategli un posto", "E' uno dei nostri", da solo non ce la fai".

Secondo il sociologo Carlo Geneletti, l'Italia non e' sempre stata cosi': negli anni '60, nel momento del boom, era possibile trovare facilmente un lavoro, anche un lavoro gratificante, ma quei tempi sono finiti da un pezzo. Geneletti ha lavorato all'estero, sa che in Gran Bretagna e negli Stati Uniti trovare un impiego qualsiasi e' una faccenda non troppo complessa: con una telefonata e' possibile scovare qualcosa, almeno se non ci si presenta con i capelli fino alle spalle e con la barba di dieci giorni.

"Ma in Italia il lavoro e' una cosa terribilmente complicata e difficile. Non c'e' mobilita' sociale: le persone hanno il terrore di venire licenziate perche' sanno che poi non troveranno un altro impiego, e sanno che cosa hanno dovuto passare per trovarne uno. Non si tratta di fare una semplice telefonata. Bisogna andare in un posto, e poi in un altro, e poi in un altro ancora, mettersi in fila, chiedere dei favori, e quando hai fatto tutto questo c'e'sempre qualcuno prima di te, perche' le persone non sono tutte uguali. Cosi' non ti puoi permettere di venire licenziato, perche' se ti licenziano, resti disoccupato, e non c'e' modo di uscirne. Tutto questo blocca la societa'".

Anche Geneletti, dopo una vita trascorsa lavorando per l'ONU, all'estero, in una quarantina di paesi diversi, si sarebbe aspettato di poter offrire il suo contributo e la sua esperienza lavorando per il volontariato. Non e' andata cosi': "Ho fatto un paio di cose interessanti, ma proprio delle cosette. Altre cose non hanno funzionato". Gli spalancavano le porte, ma appena rivolgeva "in modo assolutamente rispettoso" qualche critica, le porte si richiudevano.

L'Italia era ormai un paese straniero, un paese al quale non aveva nessuna voglia di adattarsi: "E' tutto molto gerarchizzato. Se tu sei il capo, anche di una piccolissima organizzazione, sei il Capo con la "C" maiuscola: ottieni il rispetto delle persone che lavorano per te, e soprattutto la loro fedelta'. E questo significa zero critiche al tuo modo di gestire il lavoro e alle tue azioni. Non puoi muovere critiche, e' pacifico che tu non lo faccia. Ho partecipato a riunioni di associazioni di volontariato che assomigliavano al Presidium del Soviet Supremo. Se il capo assume una posizione, e' naturale che tutti facciano altrettanto. E se io assumevo una posizione diversa da quella del capo, le porte si chiudevano immediatamente".

"C'erano poi delle porte che non si aprivano mai. Perche' non si aprivano? Di solito gli italiani non si presentano mai come singoli individui. Sei sempre membro di un qualche cosa. Se vado da qualcuno e gli dico: senti, vorrei dare una mano a fare questa cosa qui, immediatamente quello comincia a chiedersi: e questo chi e'? E non vuol mica dire che cosa ha fatto o che cosa ha studiato, ma "da dove esce?" Appartiene ad un partito? O alla Chiesa? Tutti appartengono a un gruppo, a una sezione, a un qualcosa. E' grazie a quelli che fai carriera o ti affermi nel mondo. Se non sei nessuno, potresti anche essere un Premio Nobel, ma non vai in nessun posto..."

L'Italia, sotto il governo di Berlusconi, si e' fermata. La crisi economica incombe, e non sembra esserci via d'uscita. Raffaella e' una grafica: arrivata, dopo 20 anni di lavoro a Roma, al massimo della carriera, ha lasciato il posto che, in cambio della sicurezza, le offriva uno stipendio di 1500 Euro, troppo basso per poterci vivere.

"Le osservazioni di Berlusconi sono assurde. Sappiamo benissimo di non essere felici. L'Italia, in questo momento, e' un paese screditato, perche' e' rimasta indietro rispetto agli altri paesi europei. Quando si va all'estero, ci si rende conto di quanto siamo indietro: nei servizi, nella qualita' della vita, nel costo della vita, nelle case, e soprattutto nella speranza per il futuro. Non sappiamo verso quale modello di societa' ci stiamo avviando, e allora che cosa cerchiamo di ottenere? Niente funziona come dovrebbe. In questo paese la Chiesa sta cercando di trascinarci all'indietro, verso il Medio Evo. E le pressioni della Chiesa si sentono: per esempio durante il recente referendum. Vent'anni fa credevamo di lavorare per una societa' piu' equa, piu' giusta. Oggi prevale la logica del pesce grosso che si mangia il pesce piccolo. E quello che a questo paese manca e' il senso della collettivita'. Ognuno pensa ai suoi piccoli problemi".

"Si tratta di una questione di valori: che cosa si puo' dire ai propri bambini quando gli uomini al potere sono cosi' corrotti? Il paese sta soffocando. Come si fa a ricominciare? Che modello ci offrono quelli che comandano oltre a far capire che l'unica cosa che conta e' diventare personalmente molto ricchi? Che razza di esempio stiamo dando alle generazioni piu' giovani? Dov'e' lo sforzo di ricerca, lo sforzo per creare una nuova economia? L'unica speranza e' andare all'estero perche' qui non ci sono possibilita'. L'unico vantaggio dell'Italia e' quello di essere in Europa, di appartenere ad una comunita' dove la legge funziona, non come accade nel nostro paese. Credo che la prima crisi del nostro paese sia etica e morale, il resto viene dopo. Io sono troppo vecchia per partire, ma, per i giovani, credo che sia l'unica speranza".

Geneletti e', se possibile, anche piu' pessimista: "Se fossi giovane - dice - sarei talmente arrabbiato con questo tipo di societa'. Loro invece non si arrabbiano. Perche' gli italiani credono di non avere dei diritti. Pensano di dover essere sottomessi e di dover accettare umilmente le briciole che cadono dalla tavola".

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Il potere in Italia visto dall'estero

Come gli Italiani hanno perso i loro diritti