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Iraq
: Halabja , eccidio di Curdi sotto il regime di Saddam Hussein "Era il 16 marzo 1988, una mattina di primavera, uscii di casa per andare al lavoro, quando improvvisamente vidi numerosi caccia bombardieri iracheni invadere il cielo di Halabja". Parla il Sig. Haval - in curdo significa Amico - padre di un bimbo di soli 15 mesi e di due bimbe rispettivamente di 3 anni e di 5 anni. Dopo quella mattina non li ha più visti. Haval continua il suo racconto drammatico: "La mia città contava 70.000 abitanti, fa parte della provincia di Suleymania nel Kurdistan iracheno, a pochi chilometri dalla frontiera iraniana. Halabjia come tutte le cittadine curde era piena di verde, ai piedi delle alte montagne, ora non cresce neanche un filo di erba". Aggiunge Haval: "quando Saddam aveva le armi di distruzione di massa, quando le ha usate contro il nostro popolo, nessuno alzò un dito. L'unica cosa che mi dà la speranza è di vedere processati gli autori di questo crimine proprio ad Halabjia". Il giorno precedente, la città era caduta nelle mani dei partigiani dell'Unione patriottica del Kurdistan (Upk) di Jalal Talabani. Abituata alle alterne offensive e controffensive nel conflitto Iraq-Iran che devastavano la regione dal settembre del 1980, la popolazione crede sulle prime che si tratti di una classica operazione di rappresaglia. Chi fa in tempo si mette al riparo in rifugi di fortuna. Gli altri sono sorpresi da bombe chimiche che, a ondate successive, Mirage e Mig iracheni gli rovesceranno addosso. Un odore nauseante di mele imputridite riempie Halabja, al calar della notte, le incursioni aeree cessano e comincia a piovere. Poiché le truppe irachene hanno distrutto la centrale elettrica, gli abitanti partono alla ricerca dei loro morti nel fango, alla luce delle torce. L'indomani, si trovano di fronte a uno spettacolo spaventoso: strade lastricate di cadaveri, persone sorprese dalla morte chimica nei loro gesti quotidiani: bambini tenuti per mano dal padre, neonati ancora attaccati al seno materno. In poche ore si sono avuti 5.000 morti di cui 3.200 verranno tumulati in una fossa comune perché nessuno ha potuto reclamarli: erano tutti morti. Le immagini di questo massacro fanno il giro del mondo grazie a corrispondenti di guerra iraniani e la stampa internazionale che si reca sul posto e dà un certo spazio a questo avvenimento senza precedenti. Il fatto è che l'uso di armi chimiche è formalmente proibito dalla convenzione di Ginevra dal 1925 soltanto l'Italia di Mussolini nella guerra d'Abissinia e gli USA con il napalm in Vietnam hanno infranto questo divieto. Ma stavolta è contro il suo stesso popolo che uno Stato usa i gas chimici. A dire il vero, l'Iraq aveva fatto uso di armi chimiche contro i Kurdi fin dal 15 aprile 1987, due settimane dopo la nomina di un cugino di Saddam Hussein, Hassan Ali Al Majid, chiamato Ali il chimico, alla testa dell'ufficio per gli affari del nord, cioè del Kurdistan. Il decreto n. 160 del 29 marzo 1987 del Consiglio e il vertice della rivoluzione irachena presieduta da Saddam stesso gli davano i pieni poteri per l'avvio della soluzione finale del problema kurdo, mai risolto nonostante la politica di arabizzazione intensiva, gli spostamenti forzati di popolazioni, le esecuzioni dei capi, e persino di una guerra che si protraeva, a intervalli, dal 1961 con la leadership del generale Mustafà Barzani morto in esilio nel 1979. Investito del potere di vita e di morte, Al Majid decide di far evacuare e di distruggere tutti i villaggi, di raggrupparne gli abitanti in campi allestiti lungo i grandi assi stradali e di eliminare fisicamente le popolazioni ritenute ostili. Nell'ambito di questa strategia, l'uso di armi chimiche è caldeggiato per "ripulire" le sacche di partigiani e i villaggi di montagna, difficilmente raggiungibili. Condotti a partire dal 15 aprile contro una trentina di villaggi nelle province di Suleymania e di Erbil, i primi esperimenti chimici di Hassan Al Majid fanno centinaia di morti e si dimostrano terribilmente efficaci. Il 17 aprile, dopo un attacco con armi chimiche che fa 400 morti nella valle di Balisan, 286 sopravvissuti, feriti, tentano di raggiungere Erbil per farsi medicare. Vengono fermati dall'esercito e abbattuti. Deciso a convincere i suoi colleghi, e soprattutto il presidente Saddam Hussein, dell'efficacia del suo metodo, Majid incarica il capo dell'ufficio per gli affari del nord di filmare i massacri, le deportazioni, creando così un archivio che cadrà nelle mani della resistenza kurda durante l'insurrezione del marzo 1991, e attraverso questa raggiungerà l'organizzazione umanitaria Human Rights Watch negli Stati Uniti. Grazie a questi documenti si potrà scrivere la storia della campagna di genocidio operata dal regime del dittatore sanguinario Saddam Hussein contro i Kurdi. * giornalista Kurdo Iracheno
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Saddam e l'operazione Al-Anfal contro la popolazione kurda Iraq: fuoco amico e altre vittime non occidentali Studiosi del mondo chiedono inchiesta su morti civili in Iraq |
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