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05 ottobre 2025
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La tempesta perfetta
di Francesco Dall'Aglio *

Nelle ultime settimane, nel dibattito mediatico la situazione al fronte (che vede sempre la solita, lenta avanzata russa in più settori) è stata messa in ombra, per non dire del tutto silenziata, per concentrarsi invece sugli attacchi ucraini alle raffinerie e ai depositi di carburante russi anche a grande distanza dalla frontiera.

Proprio questi attacchi sono stati la carta giocata da Zelensky nel suo ultimo incontro con Trump, che ha portato al ‟voltafaccia” (del quale abbiamo già discusso parecchio) del presidente statunitense: grazie a questi attacchi, è la tesi, si raggiunge il duplice scopo di colpire la principale voce dell’export russo, il carburante, riducendo le entrate e quindi le cifre che possono essere destinate alle spese militari, e si innervosisce la popolazione russa che potrebbe, alla lunga, decidere di ritirare il consenso di cui finora gode Putin.

Per rendere ancora più efficace questa strategia, Zelensky ha chiesto, e pareva avere ottenuto, nuovi sistemi d’arma con i quali a suo dire, avrebbe obbligato la Russia a sedersi al tavolo delle trattative, ovviamente con l’Ucraina in posizione di forza, lasciandosi andare anche ad affermazioni un po’ forti sul provocare blackout a Mosca, o consigliare alla leadership russa di informarsi sulla posizione dei rifugi antiaerei perché presto ne avrebbero avuto bisogno.

L’arma in questione, si è poi scoperto, sono i missili Tomahawk che però, nonostante il clamore mediatico, non sono arrivati ed è piuttosto improbabile arrivino, per una serie di questioni tecniche e per l’ostilità della Russia che a più riprese ha fatto sapere che non è per niente d’accordo (ultimo Putin, che ieri ha detto che l’invio dei Tomahawk porterebbe al danneggiamento irrimediabile di quel po’ di relazioni che Russia e USA hanno ricostruito negli ultimi mesi).

L’importanza dei Tomahawk, al di là dell’essere l’ultima wunderwaffe occidentale che terrorizzerà le orde asiatiche, sta nella gittata, superiore a quella delle armi al momento disponibili nell’arsenale ucraino, nella precisione e nella capacità distruttiva, anch’essa di gran lunga più grande dei droni. Il loro utilizzo si rende necessario perché, al di là del valore propagandistico dei colpi messi a segno e al di là degli oggettivi danni che vengono inflitti alle infrastrutture russe, i risultati sono ben lontani da quelli sperati.

Per fare solo un esempio, la raffineria di Afipskij è grande 450 ettari: i droni possono colpire e danneggiare, come accaduto più volte, singoli elementi della raffineria e portare a sospensioni dell’attività, ma non può distruggerla o arrestare del tutto la produzione. Kommersant si è preso la briga di pubblicare una serie di pezzi sulla questione. Non è certamente un giornale d’opposizione, tutt’altro, ma il suo parlare di una cosa parecchio importante – i soldi – gli dà a volte licenza di superare i limiti imposti alle altre testate.

E così il 24 settembre ha sintetizzato i problemi dell’approvvigionamento di benzina al dettaglio (le code chilometriche descritte dai nostri media, e da Zelensky a Trump): tra luglio e settembre il 2.6% delle stazioni di servizio russe, ovvero 360, ha dovuto chiudere per l’impossibilità di approvvigionarsi. C’è una certa differenza tra le stazioni di servizio indipendenti, tra le quali questa percentuale sale al 4.1%, e quelle delle grandi compagnie dove invece scende allo 0.8%. C’è soprattutto, una grande differenza geografica, con la situazione peggiore a sud: in Crimea ha chiuso il 50% delle stazioni e nella regione di Rostov il 12%, mentre nel Distretto del Volga si scende al 2% e nel Distretto Centrale all’1.5%.

Se è vero che storicamente questo è il periodo di picco per l’acquisto di carburante e che ci sono altri problemi contingenti (un altro articolo di Kommersant, del 20 agosto parla di ‟tempesta perfetta” dovuta al ‟rinvio della manutenzione programmata delle raffinerie dalla primavera all'estate, le esportazioni di carburante in aumento a fronte di prezzi elevati, la crescente domanda stagionale e la manutenzione straordinaria in alcune raffinerie”) è altrettanto vero che buona parte di queste chiusure sono dovute agli attacchi alle raffinerie che, unite agli altri fattori elencati, hanno portato a una riduzione di circa il 10% della produzione totale e ad aumenti anche consistenti del prezzo della benzina sia all’ingrosso che al dettaglio, descritti in un altro articolo di Kommersant di due giorni fa, 3 ottobre.

Per niente una buona cosa o un problema trascurabile, ma siamo un po’ lontani dalla fine della civiltà descritta da certe fonti, ed è chiaro che per fare danni più consistenti e mandare davvero in crisi la produzione e la distribuzione russa serve molto di più – soprattutto se consideriamo che anche i nuovi modelli di missili ucraini, tipo il Flamingo di cui abbiamo abbondantemente discusso, sembrano avere difficoltà di finanziamento (come a malincuore ha dovuto ammettere Alistair MacDonald in un video per il Wall Street Journal) e il loro numero è insufficiente per fare danni davvero seri. Da cui, appunto, la richiesta dei Tomahawk.

La risposta russa è stata, come al solito, pachidermicamente lenta. A fine settembre hanno cominciato a rivestire le raffinerie di reti e gabbie, ma parliamo, come abbiamo già detto, di strutture immense che non puoi pensare di inscatolare e che è molto difficile proteggere con l’antiaerea. Quindi, poiché la miglior difesa è l’attacco da alcuni giorni sono passati a restituire, come si dice, pan per focaccia attaccando le installazioni energetiche ucraine: centrali elettriche (Kramatorsk, Dnipro, Cernihiv), gasdotti e impianti di lavorazione del gas nelle regioni soprattutto di Poltava e Kharkiv (Yablonovske, Shebelinske, Glazunivka), aeroporti e, ma questo già da un po', stazioni ferroviarie e singoli treni.

In più, una misteriosa esplosione con luce blu che ha illuminato a giorno per un istante la città di Dnipro per poi lasciarla al buio (foto 1) e per la quale si sprecano le ipotesi, che vanno da uno Yars (a testata convenzionale, ovviamente) all’Oreshnik a un'arma a impulso elettromagnetico, ma che in tutta probabilità è stata ‟solo” la distruzione del trasformatore 750/330kV della centrale elettrica della città. È un’escalation che, a giudicare dalle reazioni ucraine, sta avendo risultati piuttosto seri.

DTEK e Naftogaz riferiscono di danni critici a parecchie installazioni, il viceministro degli esteri Andrij Sybiha ha chiesto agli alleati europei ‟immediata assistenza energetica aggiuntiva”, Zelensky si è lamentato degli attacchi e ha chiesto ulteriori difese antiaeree e il G7+ ha indetto una riunione d’emergenza per discutere degli attacchi, collegandosi in videoconferenza con il viceministro per l’energia Roman Andarak.

Pare insomma che, nonostante quanto riferiscono i NAFO, la Russia continui ad avere quella che si chiama ‟escalation dominance” nel teatro, Tomahawk o non Tomahawk, e abbia deciso di alzare la soglia: tanto che Zelensky è tornato a parlare, in un suo tweet della necessità di ‟un cessate il fuoco unilaterale nei cieli”, affermazione che stride un po’ con quelle precedenti.

Per concludere, stanotte è stato distrutta un’infrastruttura da poco entrata in funzione, lo ‟Sparrow park” di Lviv (foto 3), che per le autorità ucraine conteneva vestiti cinesi ed elettronica di consumo, ma pare molto più probabile fungesse da punto di stoccaggio per il materiale militare alleato che viene dalla vicina Polonia. La distruzione dello Sparrow, più gli altri attacchi alle infrastrutture della zona, hanno portato alcuni nostri media (uno su tutti) a reagire in maniera un po’ eccessiva, parlando di un treno che trasportava un centinaio di attivisti italiani che sarebbe stato ‟sfiorato” da un missile russo.

Come al solito, andando a leggere l’articolo si scopre che non è stato sfiorato per niente, ma che ‟i passeggeri hanno distintamente sentito e visto i bombardamenti”, che è una cosa un po’ diversa.

* Esperto di Lingue e Culture dell'Europa Orientale, Componente del Comitato Scientifico dell'Osservatorio


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