 |
Nel 1922 britannici non divisero la Palestina mandataria in due entità statuali
di
Piero Graglia *
Mi viene chiesto un commento su una affermazione di un articolo presente su «L'Informale» ma non posso commentarlo essendo escluso dai commenti. Lo faccio qui: nel 1922 la Palestina mandataria non venne divisa dai britannici in due entità statuali. In altre parole si tratta di una balla bella e buona. Tale divisione venne ipotizzata per la prima volta col progetto messo a punto dalla «Commissione Peel» nel 1937, non prima.
Del resto, le dimensioni dell’immigrazione ebraica durante gli anni ’20 non erano ancora tali da giustificare pretese territoriali consistenti: le statistiche sono abbastanza precise e sono documentate in una quantità di studi che, terminato il periodo ottomano, possono fondarsi su numeri attendibili. Al tempo della dichiarazione Balfour (1917) gli ebrei in Palestina erano circa 56mila, su una popolazione complessiva di 600mila; nel 1922 gli Ebrei erano saliti a circa 84mila su una popolazione di 752mila abitanti; nel 1929 erano 157mila su 993mila abitanti complessivi. Una minoranza sempre intorno al 10-15 per cento rispetto alla popolazione nativa; tuttavia, sicuramente una minoranza molto ben organizzata.
Accanto all’Organizzazione sionista mondiale – dominata dalla abile figura politica e diplomatica di Weizmann – i britannici permisero agli Ebrei di costituire l’Agenzia ebraica per la Palestina (1929), evoluzione del Palestine Office (Palaestinaamt in yiddish, creato nel 1908 dall’Organizzazione sionista mondiale) che di fatto rappresentò il punto di riferimento della minoranza ebrea in Palestina. L’Agenzia regolava e controllava le acquisizioni di terra, gestiva i permessi di immigrazione durante il mandato britannico, funzionava di fatto come un organo di autogoverno per la minoranza ebraica in Palestina. Accanto all’Agenzia si poneva poi il preesistente Jewish National Fund, fondato nel 1901 con l’espresso incarico di reperire fondi presso le comunità ebraiche europee per gli acquisti di terra in Palestina.
Dopo l’ascesa al potere di Hitler nel gennaio 1933 in Germania, l’emigrazione ebraica verso la Palestina aveva avuto un significativo aumento, passando dai 4.000 immigrati del 1931, ai 37mila del 1933, per poi toccare le 45mila e le 64mila unità, rispettivamente nel 1934 e nel 1935. Tale aumento portò a una reazione araba di opposizione all’immigrazione che rapidamente si trasformò in proteste nelle città, in una lunga serie di attacchi diretti agli insediamenti ebraici e, nel 1936, in uno sciopero generale.
La pratica del contrabbando e dell’acquisto di armi da parte araba ed ebraica erano ormai la norma di una pratica di autodifesa adottata da entrambi le parti, sin da quando erano cominciati i primi attriti; non si trattava di una pratica senza conseguenze organizzative: l’intelligence britannica valutava la dotazione di armi leggere in possesso dell’Agenzia ebraica nel 1936, tale da permettere di armare almeno 10mila combattenti. Meno attivi gli Arabi, che però potevano godere della solidarietà fattiva dei movimenti nazionalisti arabi nei Paesi confinanti con il territorio del mandato. Se l’azione militare si organizzava, quella politica, almeno da parte araba, non incontrava molto successo: un grande sciopero generale arabo del 1936, ampiamente propagandato, si rivelò un insuccesso.
Ebbe un limitato seguito solo nel porto di Jaffa – peraltro portando vantaggi a Tel Aviv, città e porto interamente ebraici – e si rivelò praticamente fallimentare nelle città della costa e dell’interno. I lavoratori arabi che scioperavano venivano facilmente rimpiazzati da Ebrei, in questo agevolando di fatto la pratica del avoda ivrit (lavoro ebraico) contrapposto al avoda aravit (lavoro arabo), che era stata la tendenza presente all’interno delle comunità ebraiche sin dalla seconda ’Aliya nel 1904. In pratica il danno ai datori di lavoro ebrei era minimo e anzi si favoriva la sostituzione degli scioperanti con lavoratori ebrei, più cari come salario ma anche più fidati politicamente; lo sciopero arabo non faceva altro che accelerare tale processo di sostituzione.
Allo stesso modo lo sciopero degli impiegati arabi all’interno dell’amministrazione mandataria toglieva al nazionalismo arabo importanti strumenti di controllo e di influenza, e per questo incontrava pochissime adesioni. D’altro canto, le numerose manifestazioni di solidarietà nei confronti dello sciopero e del nazionalismo palestinese da parte delle comunità cristiane palestinesi , pur essendo degne di nota, rappresentarono un fenomeno marginale, poco influente per il successo della protesta.
Ciò che invece segnò profondamente, e definitivamente, le relazioni tra comunità araba palestinese e immigrazione ebraica furono gli scontri, numerosi e violenti, che caratterizzarono tutta la seconda parte del 1936. Nel giro di tre mesi, da aprile a luglio, gli scontri armati provocarono la morte violenta di più di un centinaio di Arabi, circa 80 Ebrei e più di 30 soldati britannici impegnati contro i gruppi di Arabi che attaccavano gli insediamenti ebraici.
Gruppi di Arabi sradicavano gli alberi degli insediamenti ebraici, attaccavano le case dei coloni ebrei, molto spesso sparavano alle persone; ovviamente la reazione ebraica era altrettanto violenta e si affiancava all’azione repressiva delle truppe britanniche, che gli arabi prendevano ugualmente di mira per determinare un allentamento del loro sostegno all’emigrazione.
Uno degli animatori della protesta araba fu in particolare Hajj Amin al-Husayni, Gran muftì di Gerusalemme, che copriva sia il ruolo di animatore politico della protesta per la presenza ebraica in Palestina, sia quello di autorità religiosa custode dei luoghi sacri dell’Islam in Gerusalemme.
La posizione di al-Husayni forse andrebbe depurata dalle aspre polemiche che la marchiarono come quella di un fiancheggiatore del regime nazista, per le sue frequentazioni in Germania e Italia dopo che nel 1938 fu costretto a fuggire per evitare la cattura da parte delle autorità britanniche. Sicuramente il muftì fece degli errori, e numerosi; ma non bisogna neppure dimenticare che anche una parte del movimento sionista prese contatto con i politici tedeschi durante gli anni ’30 in funzione antibritannica e sebbene la figura del muftì di Gerusalemme sia la seconda per estensione in The Encyclopedia of the Holocaust – progetto sionista di memoria storica – dopo quella di Hitler i due personaggi non sono assolutamente comparabili.
Per tutto il periodo 1936-1938 al-Husayni cercò in qualche modo di limitare il ricorso arabo alla violenza, proprio come fece anche Ben Gurion a capo dell’Agenzia ebraica in Palestina. Di fatto, il ricorso alla violenza, per le caratteristiche intrinseche che esso comporta, non conveniva né agli arabi né agli ebrei e di questo sia i sionisti, Ben Gurion e Weizmann in testa, sia gli Arabi, erano ben coscienti. Il problema, da parte araba, era che la protesta aveva troppi obiettivi che spesso la rendevano incontrollabile. Non si trattava solo di uno sfogo contro la presenza ebraica, ma anche di protesta contadina contro i proprietari assenteisti arabi, una sorta di jacquerie, e di lotta nazionalista contro la dominazione britannica.
Non fu un caso che una delle prime barriere di filo spinato e reticolati in terra di Palestina venne eretta nel 1937 dalla Gran Bretagna al confine tra Palestina, Libano e Siria, per impedire il passaggio degli Arabi verso la Palestina allo scopo di partecipare alla rivolta contro la Gran Bretagna e i sionisti. Il muftì di Gerusalemme per questi motivi cercò di limitare l’influenza di personaggi fanatici come lo sceicco Izz al-Din al-Qassam, ucciso dagli inglesi nel 1935; ciononostante non ebbe mai il completo controllo della situazione sul campo, e quindi neppure gli si può imputare la piena responsabilità delle violenze che attraversarono il Paese, da una parte all’altra. Tuttavia, la sua collaborazione con il regime nazista ne marchiò inevitabilmente, negli anni successivi al conflitto, la reputazione. Il campo arabo, in altre parole, aveva molti più problemi sul piano della leadership e della coerenza politica di quanti non ne avessero i sionisti.
Anche questi ultimi, peraltro, avevano elementi poco controllabili al loro interno. La Histadrut, il principale sindacato dei lavoratori ebraici, sin dal 1920 aveva dato vita a una organizzazione di autodifesa paramilitare, la Haganah che, come già accennato, nel 1936 veniva accreditata dai britannici come capace di mettere in campo una milizia di 10mila unità efficienti. In un dispaccio del console generale statunitense Leland B. Morris al Dipartimento di Stato, dell’aprile 1936, dopo una lunga relazione sui fatti di sangue intercorsi tra rivoltosi Arabi ed Ebrei, si poteva leggere: «In questo senso il fatto più significativo, finora non menzionato in questa comunicazione, è che l’organizzazione di difesa ebraica Haganah, finora considerata segreta, è adesso presentata come una sorta di esercito sionista, addestrato, disciplinato e armato».
La Haganah collaborò attivamente con i britannici nella difesa degli insediamenti ebraici durante la protesta del 1936, ma la sua relativa moderazione e quindi il rifiuto, sostenuto da Weizmann e anche da Ben Gurion, di alzare il livello dello scontro con gli Arabi, portò alla nascita nel 1937 dell’Irgun Zvai Leumi (Organizzazione Nazionale Militare, chiamata più brevemente Irgun) nella quale trovò posto anche Ze’ev Jabotinsky.
Le radici del conflitto erano ormai affondate profondamente nella terra di Palestina.
Seconda parte
* Professore ordinario di storia delle relazioni internazionali - Università di Milano
VAI A TUTTE LE NOTIZIE SU GAZA
 
Dossier
diritti
|
|