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Nel 1922 britannici non divisero la Palestina mandataria in due entità statuali
di
Fausto Gianelli
Il risultato di questa situazione di scontro aperto in via di radicalizzazione fu l’istituzione, da parte britannica, di una commissione incaricata di venire a capo del crescente conflitto e verificare quali potessero essere le opzioni per un incarico quale potenza mandataria che, con ogni evidenza, era ormai difficile portare avanti soddisfacendo le richieste dei due nazionalismi contrapposti. La Commissione, presieduta da Lord William Peel, lavorò dal maggio al luglio 1937, dopo avere svolto diversi sopralluoghi in Palestina per rendersi conto della situazione e avere ascoltato le parti coinvolte.
Durante le audizioni di fronte alla Commissione il muftì di Gerusalemme sostenne che gli Arabi avevano diritto a un loro Stato nazionale di Palestina nel quale non potevano trovare posto i quasi 400mila ebrei emigrati dalla fine della Prima guerra mondiale. Si trattava di un cambiamento significativo rispetto a una sua dichiarazione del 1935 circa l’eventualità di una permanenza degli Ebrei all’interno di uno Stato arabo di Palestina. Dal canto loro i sionisti, con Weizmann, sottolinearono che per gli Ebrei, soprattutto visto il peggioramento della situazione in Europa e le limitazioni all’emigrazione verso le Americhe, restava come possibile destinazione solo la Palestina, ribadendo quindi non solo la moralità dell’emigrazione, ma anche la sua necessità.
La Commissione Peel si comportò come il giudice del Talmud citato da Jabotinsky e propose la divisione del mandato in Palestina in due entità separate: una più piccola, occupata dall’elemento ebraico, doveva comprendere il territorio dal confine settentrionale con il Libano e la città di Metullà, il lago di Tiberiade e Nazareth per poi restringersi verso la costa in una striscia di dieci chilometri che giungeva fino a Tel Aviv e a Rishon LeZion; l’altra più grande, di pertinenza araba, comprendeva tutto il resto, compreso il deserto del Negev fino alla punta inferiore della Palestina, ma con esclusione di Gerusalemme, che avrebbe dovuto rimanere internazionalizzata sotto controllo mandatario britannico, comprendendo una striscia di terra che arrivava fino alla costa e a Jaffa.
Le conclusioni della Commissione erano, appunto, “salomoniche”: «Mezza fetta è meglio che niente pane» è un tradizionale proverbio britannico; e, considerando l’atteggiamento che i rappresentanti arabi ed ebrei hanno adottato portando le loro argomentazioni davanti a noi, pensiamo sia improbabile che entrambe le parti siano soddisfatte di primo acchito con le proposte che sottoponiamo per la sistemazione delle loro divergenti richieste. Infatti, la divisione significa che nessuno otterrà ciò che vuole. Gli Arabi devono adattarsi all’esclusione di un pezzo di territorio dalla loro sovranità, pur avendolo occupato e governato per lungo tempo. Gli Ebrei devono accontentarsi di meno terra di Israele rispetto a quella che un tempo governarono e che hanno sperato di governare di nuovo. Ma è possibile che, riflettendoci, entrambi i contendenti realizzeranno che gli svantaggi della divisione sono superati dai vantaggi. Poiché, sebbene la divisione non offra a nessun contendente ciò che desidera, essa offre a entrambe le parti ciò che vogliono maggiormente, e cioè libertà e sicurezza».
Questa sistemazione suscitò perplessità e opposizioni da entrambe le parti, ma rappresentò l’affermazione da parte inglese della possibilità di creare in futuro uno Stato ebraico con una partizione di fatto del territorio. Non era la piena realizzazione del sogno sionista (uno Stato ebraico in una Palestina completamente ebrea), ma Ben Gurion era cosciente che, per il momento, rappresentava una solida base per un negoziato con la potenza mandataria. Inoltre, il piano della Commissione Peel, pur con i suoi limiti evidenti, confermava nel campo sionista la percezione che un accordo con gli Arabi non fosse così impellente quanto invece il mantenere il contatto con Londra quale interlocutore privilegiato. Non mancarono peraltro resistenze in campo sionista rispetto all’accettazione della partizione: per molti sionisti non si poteva accettare di dividere la Terra Promessa, Eretz Israel come descritto dalla Bibbia, e si dovevano onorare gli impegni presi con la dichiarazione Balfour.
Le diverse aspettative nel campo sionista si confrontarono durante il 20º Congresso sionista a Zurigo nel 1937, con un voto finale che accettò il piano con 299 voti contro 160 voti contrari e sei astenuti e non pochi sforzi, sia da parte di Weizmann sia di Ben Gurion, per far accettare intanto una prospettiva di partizione che, per i leader sionisti (Ben Gurion in particolare) avrebbe dovuto evolvere verso un aumento della quota di territorio assegnata agli Ebrei.
Il mondo arabo invece si dichiarò immediatamente contrario a qualsiasi ipotesi di partizione, peraltro sottolineando come lo schema lasciasse le ricche terre della Galilea e della costa settentrionale della Palestina in mani ebraiche. L’Alto Comitato arabo, organo di discussione e confronto del nazionalismo arabo-palestinese, entrò però in crisi quando al-Husayni, ricercato dagli inglesi per le violenze, fu costretto a scappare prima in Libano e poi in Europa; una fuga che, insieme a numerosi altri arresti, di fatto decapitò l’organizzazione nazionalista palestinese, provocando un salto di qualità nelle azioni arabe e una continuazione della rivolta con modalità ancora più violente.
Per tutto il periodo 1937-39, non furono più solo gli insediamenti ebraici a essere obiettivo degli attacchi arabi, bensì anche gli ufficiali e i funzionari britannici; dal canto loro, gli Ebrei reagivano con forme terroristiche indiscriminate agli attacchi arabi agli insediamenti, come testimoniano gli ordigni piazzati nei mercati che, nel giro di tre settimane, provocarono 77 vittime arabe nel 1937.
Il conto delle vittime, alto da entrambe le parti, salì costantemente per tutto il 1938. In quell’anno, quasi 1.700 Arabi persero la vita negli scontri con Ebrei e britannici; di questi 486 erano civili senza colpa alcuna. Anche 292 Ebrei rimasero uccisi negli scontri con gli Arabi, e più di 600 furono feriti, mentre da parte britannica si ebbero 70 soldati uccisi e più di 230 feriti. Una escalation che provocò un aumento della presenza militare britannica nella regione, con l’arrivo di altre 20mila unità alla fine del 1938. Rinforzi resi possibili dall’impressione che la situazione europea si fosse stabilizzata per il momento, dopo che l’accordo di Monaco del settembre 1938 aveva consegnato il territorio cecoslovacco dei Sudeti a Hitler, illudendo il primo ministro britannico Neville Chamberlain di avere ottenuto quella che lui stesso definì, scendendo dalla scaletta dell’aereo che l’aveva riportato in patria, la «pace per il nostro tempo». Questo momento di «pace» (più propriamente una tregua) in Europa, permetteva a Londra di impegnare truppe in una regione che rimaneva cruciale per gli interessi britannici e il collegamento con il resto dell’Impero East of Suez.
Non si trattava più solo dell’impossibile tentativo di accontentare il nazionalismo arabo e il sionismo; si trattava di mantenere la stabilità di una regione dove si trovava il Canale di Suez e gran parte delle riserve petrolifere sempre più utilizzate da un’Europa industriale che stava uscendo dall’era del carbone per entrare decisamente in quella del petrolio. Per Londra, inoltre, di fronte alla minaccia congiunta rappresentata da fascismo e nazismo, diventava fondamentale mantenere buoni rapporti con le nazioni arabe che guardavano al problema della Palestina come a un banco di prova della sincerità – fino a quel momento dubbia – di Londra nei confronti delle richieste del nazionalismo arabo.
Del resto, anche gli statunitensi, da un ventennio coinvolti in misura crescente nello sfruttamento e nella ricerca di fonti petrolifere in Medio Oriente, percepivano il legame concreto tra problema palestinese e atteggiamento di Paesi come l’Arabia Saudita. Scrivendo nel luglio del 1937 un memorandum sulla situazione palestinese e sulla posizione del governo saudita, il capo della divisione Medio Oriente del Dipartimento di Stato, Wallace Murray, avvertiva che alcune compagnie petrolifere statunitensi, come la Standard Oil, presenti nell’area del Golfo Persico e della penisola arabica con importanti concessioni, «temevano che ogni disposizione da parte di questo governo per appoggiare le pretese ebraiche nella disputa circa il nuovo pronunciamento britannico che propone una spartizione della Palestina tra gli Arabi e gli Ebrei, potrebbe avere serie ripercussioni sugli interessi petroliferi in Arabia Saudita e portare alla loro espulsione dalla regione».
Tutto, in un certo senso, portava a rivedere drasticamente le intenzioni espresse con il progetto della Commissione Peel di partizione del territorio della Palestina, per evitare di perdere il controllo di un’area che restava strategica per gli interessi britannici, soprattutto coi venti di guerra che spiravano in Europa.
Evitare una reazione araba in Iraq, Arabia Saudita e Transgiordania, significava per Londra salvare il ruolo della Palestina come elemento chiave per il controllo del Mediterraneo orientale.
* Professore ordinario di storia delle relazioni internazionali - Università di Milano
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