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30 aprile 2025
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Il carabiniere di Rodi
di Rinaldo Battaglia *

Torna alla prima parte Un mattina d’inizio inverno fu chiamato a rapporto nell’ufficio dal suo comandante, il Capitano - nonché Questore - Carlo Pellegrino. Era la prima volta che succedeva. Spaventato, Enrico si presentò e dopo un formale saluto, il capitano lo guardò bene negli occhi, lo squadrò e gli disse solo due parole: “Carabiniere Ricciardi, so cosa sta facendo, io non so nulla ma Dio vede!”. Altre parole non servirono perché tra uomini, quando si è uomini, le parole contano meno dei fatti.

Ritornato nel suo ufficio, Enrico riprese ancora con più vigore la sua attività di falsario. Ed in breve, quella divenne una ‘catena di montaggio’, perché anche altri stavano dando una mano, ognuno all’insaputa dell’altro, in silenzio, senza che nessuno chiedesse nulla. Avevano bisogno solo di sapere da che parte stesse chi era in alto – il capitano/questore Pellegrino – perché questi poteva o meno frenare, rallentare, sviare le azioni del gen. Ulrich Kleemann, di cui godeva ampia fiducia.

Enrico Ricciardi falsificava documenti agli ebrei che si rivolgevano ai Carabinieri – altri ‘complici’ - o direttamente anche al Cap. Pellegrino, Fratel Angelino Guiot e i suoi delle ‘Scuole Cristiane’ davano riparo in attesa della loro fuga, come facevano anche famiglie contadine del luogo. E di notte piccole barche di pescatori trasportavano i fuggitivi verso le coste della terraferma turca o delle sue isole. Durante la guerra, la Turchia era rimasta neutrale, malgrado che Churchill da una parte e Hitler dall’altra cercassero giorno su giorno di tirarla per la giacca e coinvolgerla nel conflitto a proprio favore. Era rimasta neutrale e divenuta una piccola Svizzera per gli ebrei dell’intera Grecia, in particolare quelli di Rodi e del vicino Dodecaneso.

Ogni notte partivano più barche, ciascuna con 7/8 persone in fuga, anche meno, ‘con un fagotto di poche cose e soprattutto con la carta di identità rifatta’. Poche persone, non molte per non destare sospetto e al mattino i pescatori ritornavano carichi di pesce fresco ma senza di loro. Nessuno, né Enrico, né altri riuscì mai a quantificare il numero dei ‘salvati’, perché quei viaggi erano continui, costanti, da più porticcioli vicino alla capitale, in autonomia. Di certo un centinaio, forse molti di più. Non si tenevano dati, tracce o liste, talvolta Enrico non riusciva nemmeno a memorizzare quei volti, carichi di paura ma anche grati per la speranza a loro offerta in cambio di nulla.

Fu un lavoro di squadra iniziato e partito, per istinto o forse per il cuore, dal giovane carabiniere dell’ufficio passaporti della Questura di Rodi. Un lavoro tacito, segreto, senza tante parole. Ognuno sapeva cosa fare e lo faceva. Sapendo quale fosse il rischio ed il prezzo eventualmente da pagare. I nazisti erano pur sempre ‘nazisti’.

Le cose peggiorarono fortemente a settembre del ’44 quando al posto del gen. Ulrich Kleemann arrivò il gen. Otto Wagener, un sanguinario, antisemita fanatico e criminale già affermato. E vi sono due date che sintetizzano quella atroce realtà: il 23 luglio e il 3 settembre 1944. Wagener ordinò due retate sugli ebrei dell’intera isola di Rodi. Nella prima tra i catturati vi fu anche la famiglia dell’allora ragazzo Sami Modiano. Sarà l’unico a tornare da Auschwitz-Birkenau e ancora oggi a testimoniare.

Nella seconda i nazisti arrivarono anche alle Scuole Cristiane di Fratel Angelino Guiot e catturarono tutti i bambini ebrei lì presenti, in parte nascosti, in parte non ancora. Fratel Angelino arrivò persino, parlando un fluente tedesco, ad offrirsi in cambio di quei ragazzi terrorizzati. Personalmente anche al generale Wagener, ma senza esito. Anzi lo stesso generale nazista gli puntò più volte la pistola contro.

In pochi giorni nell’isola vennero deportati oltre 1.800 ebrei, in particolare sterminando del tutto la comunità e la storia dei Safarditi di Rodi. Erano arrivati in fuga dalla Spagna a seguito del Decreto dell'Alhambra già nel XVI secolo, e avevano qui poi creato il quartiere ebraico, chiamato La Djuderia, dove si toccarono col tempo anche 5.000 residenti. Dopo Wagener La Djuderia non esisterà più. Era sopravvissuta agli arabi, ai greci, agli ottomani, ai turchi di Kemal Atatürk, ma non ai demoni di Hitler. Si salveranno solo alcune decine di uomini scampati dai lager della Shoah e qualche altra decina fuggita prima della catastrofe, probabilmente grazie ai servigi occulti della Questura di Rodi o di altri, ma sull’esempio ed esperienza sempre dei “connotati” lì rifatti.

L’attività della Questura di Rodi proseguì sia dopo il 23 luglio che il 3 settembre: i rischi aumentavano ma non ci si poteva fermare. Altre vite da salvare e altri documenti da falsificare lo imponevano. Anche se non si poteva più contare sulla protezione del capitano Pellegrino, da allora costretto a scappare “braccato dai tedeschi perché soprattutto in lui vedevano colui che aveva aiutato gli Ebrei e i soldati italiani”. Ma ugualmente si proseguì fino a che serviva, fino alla tarda primavera del ’45: dopo per i nazisti l’oroscopo cambiò. Già dall’8 maggio si arresero agli Alleati e se ne andarono di corsa.

Enrico ritornò così ad un servizio più ‘abituale’ per un carabiniere, ma dopo il 10 febbraio 1947 - quando nella Conferenza di Pace di Parigi anche Rodi e tutto il Dodecaneso furono assegnati alla Grecia, quale rimborso dei danni della guerra fascista - preferì venire nella sua Italia. La fame e le macerie, fisiche e morali, erano uguali sia da una parte che dall’altra ma, se bisognava ricostruire, tanto valeva farlo qui.

Arrivò così nel milanese e a seguire dalle parti di Cugliate Fabiasco. Mise su famiglia. Filippo più volte lo definirà quale ‘marito devoto e padre premuroso’. Ma non solo: coniugò la forte passione per la musica - divenne compositore e direttore di diversi gruppi coristi – ad una grande laboriosità. In breve, divenne un ‘apprezzato dirigente di una piccola società di marketing e pubblicità nella Milano degli anni ’60-’80’ (sue le idee per alcune campagne pubblicitarie delle quali ancor oggi si sentono gli slogan, a detta del figlio).

Parlò spesso e volentieri coi figli, ma tutta la sua vita di Rodi partiva da quanto era venuto al mondo fino al giorno in cui era diventato, per opportunità, carabiniere. Poi stop, silenzio completo fino alla mattina che se ne andò dall’isola, per poi riprendere e proseguire il racconto. Black-out totale: un buco di quasi due anni nella narrazione della sua vita.

Eppure parlava con gioia della sua infanzia a Rodi, della scuola dai Fratelli Lassaliani delle Scuole Cristiane, del clima sereno di famiglia dove tra fratelli e sorelle erano in cinque, della felicità fino al 1938 che modificò strutturalmente quel piccolo paradiso di terra che era l’isola di Rodi e dove fino allora gli uomini erano uomini e non divisi ‘da razze’ o etichette scadenti.

Parlava volentieri di dov’era nato (a Mersin, in Turchia) e di suo padre di origine italiana e nativo di Rodi. E parlava ancora più volentieri della madre Madeleine ( Madeleine Sultan), originaria di una famiglia libanese di religione cristiana. Forse per quello non riusciva a capire il senso delle razze diverse, delle diverse origini, delle guerre di conquista su territori o spazi vitali di altri. L’educazione dei Fratelli delle Scuole Cristiane aveva poi contribuito al resto e cementificato la miscela.

Raccontava di tutto e ogni tanto, quando incontrava qualche bambino, lo salutava con quel ‘ Jassas pediamu!‘ (Salute figli miei!) che era diventato oramai, col tempo, un suo distintivo. Parlava e raccontava tutto ma mai, mai a nessuno del periodo ‘ottobre ‘43 – maggio 1945’. Era il suo segreto.

Una sera, pochi mesi prima di morire, forse convinto che stesse arrivando la sua ora, al figlio Filippo confessò quel ‘vuoto’. Era arrivato il momento giusto e non voleva andarsene senza che qualcuno di caro lo sapesse. Voleva passare ad altri il suo testimone. Aveva le lacrime agli occhi e piangeva come un bambino. E raccontò, senza fermarsi, di quel giovane carabiniere, degli ebrei salvati, dei Fratelli Lassaliani di Fratel Angelino, dell’amico capitano Pellegrino, che aveva sempre saputo quel che faceva e sempre – talvolta a sua insaputa – lo aveva protetto dai nazisti, fino ad esser costretto a nascondersi. Per salvare gli altri ‘complici’.

Ma tutte quel bene fatto non lo soddisfaceva. Non era stato sufficiente. Piangeva non per le vite – centinaia e centinaia , forse molte di più – che aveva contribuito a salvare, ma tutte quelle dove non era riuscito a farlo. A tutti quei nomi di ebrei a cui non aveva modificato ‘la razza’ nell’albo anagrafico per tempo, a tutti coloro che non era riuscito a consegnare un documento falso, a tutti coloro che non erano stati appositamente informati e non avevano potuto beneficiare dei ‘servigi’ occulti della Questura.

Non pensava ai bambini salvati, ma ai bambini perduti. Fu lì che Filippo capì l’amore che aveva quando insegnava musica e canto agli scolaretti del paese e perché amava salutarli in greco. In loro vedeva i figli di chi aveva salvato e quel ‘ Jassas pediamu!‘ (Salute figli miei!) ora aveva un suono diverso.

Filippo promise al padre, come richiestogli, che lo avrebbe accontentato: fino al giorno della sua morte non avrebbe reso pubblico quanto saputo e dopo, solo dopo, avrebbe portato avanti il testimone del padre . Lui non era riuscito a farlo totalmente: il dolore per chi non aveva salvato non gli aveva permesso di parlare di chi era invece sopravvissuto. E forse senza volerlo, era il medesimo pensiero che aveva avuto, a suo tempo, il capitano Pellegrino col figlio.

Enrico Ricciardi non voleva medaglie per sé, ma solo urlare al mondo che anche quando, come ora, ‘si nasce morti’ – perché a troppi questo conviene – bisogna assolutamente ‘diventare poco a poco vivi’. Costi quel che costi. Anni prima un altro eroe di quegli anni (Gino Bartali), parlando del suo analogo silenzio aveva semplicemente detto che “Il bene si fa ma non si dice. E certe medaglie si appendono all'anima, non alla giacca”.

Filippo Ricciardi ha preso in mano il testimone e ha iniziato a parlare sul valore di quanto imparato dal padre. Alcuni giornali, anche se soprattutto locali, hanno più volte scritto le sue iniziative. Ha attivato piccole conferenze (come a Locarno il 6 aprile 2013, da cui ho ripreso alcune sue parole), incontrato scolaresche, ha creato memoria.

Il nome di Enrico Ricciardi è stato di recente inserito, a pieno titolo, nel ‘Giardino dei Giusti’ grazie all’Ass.ne Gariwo (Gardens of the Righteous Worldwide), una ONLUS con sede a Milano, che vanta molte collaborazioni internazionali in coerenza con lo Yad Vashem di Gerulasemme, dove come ‘Giusti fra le Nazioni’ si onorano tutti i non-ebrei che durante la Shoah aiutarono gli ebrei a salvarsi. Il massimo riconoscimento per loro. Almeno sulla terra.

Tre anni fa come oggi, il 1° maggio 2022 l'amministrazione comunale della sua Cugliate Fabiasco gli ha intitolato la Sala Civica del paese, con tanto di cerimonia ed onori.

La memoria tra mille difficoltà, quindi, sta proseguendo faticosamente il suo percorso, grazie a Filippo. Perché nella vita servono esempi ed esperienze positive per aprire la strada e gli occhi a chi forse vorrebbe ma si sente solo, isolato, mortificato. O meglio. Riprendendo Roberto Bazlen. Si crede ‘nato morto’ ma sta cercando di ‘diventare a poco a poco vivo’.

In atletica, nella staffetta, il passaggio del testimone è vitale e chi lo riceve dal precedente deve dare il massimo prima di consegnarlo al successivo. Se fallisce o cade perdono tutti, non solo lui, e soprattutto si annullano ed azzerano gli sforzi di chi aveva già corso, magari con ottimo risultato.

A volte, mi chiedo che testimone stiamo noi, passando a chi verrà dopo la nostra corsa.

Liberamente tratto dal mio ‘Il tempo che torna indietro – Seconda Parte” - Amazon – 2024

* Coordinatore Commissione Storia e Memoria dell'Osservatorio


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