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24 marzo 2024
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Argentina: "El loco" del Piano Condor
di Rinaldo Battaglia *

“Maria ha appena partorito il suo decimo figlio. È il 15 marzo del 1977 e si trova in ospedale a San Juan, una provincia argentina. Le infermiere entrano nella stanza e le ordinano di andarsene: i militari sono appena arrivati in ospedale. Sono gli anni della feroce dittatura di Videla e Maria non può opporsi, se ne va lasciando lì suo figlio appena nato. Quando torna, i dottori le dicono che è morto, ma non le danno il corpo né un documento che lo certifichi.

Maria protesta, ma non può fare nulla: solo un anno prima suo marito, Florentino Arias, è stato sequestrato e fatto sparire dai militari. Il regime di Videla imprigiona, tortura e uccide chiunque si opponga alla dittatura, non risparmiando nemmeno i bambini: i militari in quegli anni rapiscono 500 figli di desaparecidos nascondendo la loro vera identità e crescendoli come se fossero propri. Fra loro anche il figlio di Maria e Florentino, ancora oggi desaparecido come il padre”.

Sono parole che riprendo testualmente da un grande articolo di Elena Basso, datato 14 agosto 2023, su L’Espresso.

Solo un anno prima di quel crimine, esattamente un anno prima, il 24 marzo del 1976, l’Argentina era caduta nel più cupo periodo della sua storia. Quello che si identifica con la tremenda dittatura fascista di Jorge Rafael Videla ai tempi del ‘Piano Condor’, messo in atto negli anni Settanta e Ottanta da alcune dittature sudamericane fasciste (oltre all’Argentina, il Brasile, Cile, Bolivia, Uruguay) con la collaborazione, controllo e imprimatur degli Stati Uniti. Con un chiaro obiettivo: eliminare ogni forma di opposizione tramite la violenza, la tortura, gli stupri, gli omicidi mirati, per mantenere in vita quelle dittature o – dove non ancora giunte al potere - farle nascere. Oppure, se vogliamo essere meno diplomatici e più diretti, si può sintetizzare dicendo che il “Plan Condor” non era altro che un progetto eversivo partorito dalla CIA per evitare che il Sud America finisse in mano a socialisti, comunisti, marxisti. L’esempio del Cile di Allende nel 1973 credo renda bene l’idea.

Solo in Argentina, dal 24 marzo del 1976 al 18 dicembre 1981, e solo parlando di ‘sparizioni’ si sono perse le tracce di oltre 30.400 persone. Erano tutti oppositori (o presunti tali) del regime fascista dei militari di Videla. Erano giovani militanti di sinistra, studenti, politici ma anche semplici docenti, giornalisti, piccoli imprenditori. Saranno chiamati ‘desaparecidos’.

Dalla fine degli anni ’90 tuttavia anche l’Argentina – tra una crisi economica e l’altra – ha intrapreso la strada della democrazia, sebbene più o meno debole a seconda dei momenti, ed iniziato un viaggio verso ‘il fare giustizia’ sui crimini passati. Non è una casualità che il “Giorno della memoria per la verità e la giustizia” (così testualmente è chiamato) nel paese sudamericano si celebri ogni anno proprio il il 24 marzo, in ricordo delle vittime della violenza politica del regime fascista di Videla, che prese il potere proprio in quel giorno del 1976. E sono stati, in pochi anni, giudicati e condannati per i crimini compiuti durante quel regime ben 1.124 repressori argentini. 1.134, non uno.

Non si è fatto – in altre parole - come da noi il 22 giugno 1946 con la purificazione dell’amnistia Togliatti. Anche se, anche in Argentina, chi ha potuto è scappato per tempo. Facendo all’incontrario il percorso della Rat-line: non più dall’Italia all’Argentina, ma dall’Argentina all’Italia. E l’Italia, con la scusa degli avi emigrati in Sud America, ha permesso in poco tempo a tutti di ottenere la cittadinanza. E noi, in fatto di concedere o non concedere la cittadinanza, siamo sempre stati dei maestri. Importando così ‘personaggi’ dal passato criminale, finanziariamente magari bene dotati – si sa che il crimine rende – e portati a facili relazioni con chi sarebbe meglio mai averne.

Tra questi ‘personaggi’ emerge la figura imperiosa di Carlos Luis Malatto, in Argentina considerato e ricercato quale colpevole anche per i sequestri sia di Florentino Arias che del figlio senza nome, perché alla madre non è stato lasciato il tempo di darglielo. Ma non solo questo crimine, ovviamente, perchè Carlos Luis Malatto è stato ben oltre. E’ stato molto di più.

Durante la dittatura di Videla, era - col grado di tenente - fra i massimi dirigenti del Reggimento di Fanteria di Montagna 22 (chiamato nel gergo interno RIM22), vale a dire la divisione dell’esercito che era attiva nella provincia di San Juan e a cui il ‘comando centrale’ del regime aveva dato l’ordine di occuparsi delle persone che identificava come “sovversive”. Il Reggimento RIM22 - secondo i giudici argentini - fu responsabile della ‘sparizione’ di oltre 100 persone, specializzandosi prevalentemente in sequestri, torture, stupri sistematici, omicidi. Durante i processi alcuni (rari) sopravvissuti hanno testimoniato, come quegli uomini di Malatto si divertissero “per la crudeltà delle sevizie inflitte ai prigionieri e per la minuziosità con cui sono stati fatti sparire i cadaveri: fino ad oggi non è stato possibile ritrovare il corpo di nessuno degli oltre 100 prigionieri sequestrati, nemmeno quello di Florentino Arias” (prendo a prestito le parole di Elena Basso).

Fiorentino Arias aveva 42 anni quando Malatto lo fece sequestrare: era tipografo all’università pubblica di San Juan, era un militante peronista, padre di 9 figlio ed uno in arrivo, quello rapito e mai più ritrovato. Dirà in sede processuale una delle figlie (Viviana che aveva 9 anni quando vide per l’ultima volta il padre): «Non abbiamo mai trovato il corpo di mio padre, sono passati più di 40 anni e io non so nemmeno cosa gli sia accaduto. Ho bisogno che venga fatta giustizia, ma anche che i militari come Malatto mi dicano dove sia il corpo di mio padre, come sia morto e cosa sia successo a mio fratello. Per questo è necessario che venga estradato o che sia imputato in un processo in Italia. Non è importante solo la condanna: devono dirci dove sono i nostri cari».

Nei processi contro il Reggimento RIM 22 si documentò che molte vittime furono sottoposte alle prime sessioni d’interrogatorio, sotto tortura, a scariche elettriche nella «griglia», ossia un letto senza materasso, dove venivano legati mani e piedi e dove il grado d’intensità delle torture aumentava gradualmente. Altre vittime poi passavano a sessioni «di ammorbidimento» dove venivano interrogate sempre sugli stessi aspetti (per ottenere nomi dei compagni di militanza, luoghi delle riunioni, esistenza di armi, ecc., vincolati a gruppi ritenuti «sovversivi») con maggiore potenza e violenza. Dopo le torture e gli interrogatori, alcune persone passavano un periodo in carcere e venivano rilasciate, ma molte altre sparivano per sempre nel nulla.

Il 5 luglio 2012 l’Argentina comunque arrivò a giudicare persino il dittatore Jorge Rafael Videla che fu condannato dal tribunale federale di Buenos Aires a 50 anni di carcere, il massimo della pena prevista. Ritenuto colpevole, anche “per la pratica di dare in adozione i figli dei desaparecidos a militari e funzionari del regime”. Durante il processo, peraltro, Videla confessò di sentirsi direttamente responsabile della morte di oltre 8.000 persone (morirà a 87 anni l’anno dopo, il 17 maggio 2013). 8.000, non una.

Poi si proseguì. Nel 2013 toccò ai dirigenti del Reggimento di Fanteria di Montagna 22 - RIM22 e precisamente il colonnello Juan Bautista Menvielle e il tenente colonnello Adolfo Diaz Quiroga (che però erano già deceduti) e soprattutto i 5 primi ufficiali che componevano lo stato maggiore e che risultavano allora vivi. E, primo fra tutti, il tenente Carlos Luis Malatto (gli altri per la cronaca erano il ten. Jorge Antonio Olivera condannato all’ergastolo, il maggiore Arturo Ruben Ortega, il capitano Claudio Antonio Saenz e il sergente Alejandro V. Manuel Lazo condannati invece a 10 anni di carcere).

E Malatto? Non poté esser giudicato e condannato (venne inizialmente, tra l’altro, accusato di aver ucciso personalmente ben 26 vittime) perché per la legge argentina non è possibile processare un imputato se questi non è presente, se resta in contumacia. E fu per lui una fortuna perché negli atti del processo su ben “1.190 pagine della sentenza il suo nome veniva citato 296 volte”. Malatto, infatti, avendo percepito il cambio del vento, era da tempo totalmente scomparso e poi, alla prima occasione utile già nel 2011, fuggito di corsa, arrivando da noi.

Ed in Italia ha vissuto - secondo la ricerca di Elena Basso - in vari luoghi e in più “regioni italiane in cui ha sempre ricevuto aiuto, soprattutto da enti religiosi: prima ospitato nella parrocchia di Cornigliano (in provincia di Genova) e poi a L’Aquila presso l’istituto delle Serve di Maria Riparatrici”. Come si faceva nel dopoguerra coi fascisti e nazisti ai tempi del vescovo Alois Hudal e della sua scandalosa vaticana Ratline. E sempre sostenuto e ‘protetto’, malgrado le parole e denunce - di oltre 10 anni prima - anche di Viviana Arias: «Tutti gli italiani devono sapere che da anni una persona che ha violentato, torturato e ucciso decine di persone vive tranquillamente nel loro Paese».

Poi, dal 2018, Carlos Luis Malatto ha migliorato il proprio status: si è fermato in un resort privato, di lusso, a Portorosa, vicino a Furnari una località turistica sul mare in provincia di Messina, “famoso per aver ospitato la latitanza dei capi mafia Nitto Santapaola e Bernardo Provenzano. Qui l’ex tenente colonnello si gode la sua pensione, tra villini e gite in barca. La sua barca” (da Elaborazione grafica by Paolo Bassani - Fonte: Antimafia Duemila).

Eppure va detto che i giudici argentini non si sono, dal 2011, mai arresi e ancora oggi, nel 2024, stanno cercando di arrestarlo e processarlo “per omicidio plurimo aggravato, sparizione forzata, tortura, violenza sessuale”. Più volte sono state avanzate formali richieste di estradizione, ma quasi sempre per cavilli formali i giudici italiani le hanno rigettate o rifiutate (nel 2014 la Corte di Cassazione italiana respinse la richiesta delle autorità argentine perché «la documentazione trasmessa non consente di desumere l’esistenza di seri elementi d’accusa a carico», come si legge nella sentenza).

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