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28 febbraio 2024
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I colpi di coda del '53
di Rinaldo Battaglia *

Il 28 febbraio 1953 il Generaloberst Alfred Jodl, durante il Terzo Reich ‘Wehrmachtführungsstabes' (Capo di stato maggiore) con la carica di capo dell'ufficio Comando e Operazioni dell'Oberkommando der Wehrmacht (OKW), condannato a morte a Norimberga ed impiccato il 16 ottobre 1946, venne ‘riabilitato’ (postumo) da una corte tedesca, che lo riconobbe ‘non colpevole di crimini contro le leggi internazionali imputatigli al processo di Norimberga’.

Caso più unico che raro. Un tribunale locale della Baviera che ritenne di superare una sentenza universale quale era stata quella di Norimberga, come se i crimini del nazismo fossero stati un ‘fatto domestico’, privato, circoscritto solo al suolo tedesco.

La vedova e i familiari di Jodl con quella sentenza poterono così ‘recuperare’ e re-impossessarsi delle immense proprietà, anche immobiliari, che durante il Terzo Reich il gen. Jodl - come gli altri gerarchi - si era costituito a danno di ebrei e altri ‘nemici’ del nazismo.

Non mancarono inevitabili conseguenze politiche e giuridiche. Quel sussulto del nazismo – come avvenne per il fascismo in Italia, che per i fascisti non era mai morto, sconfitto e fallito – venne comunque sanato da una nuova sentenza già 7 mesi dopo. A farlo fu il 3 settembre 1953 il ministro della Liberazione Politica della Baviera, legittimato in tal senso in base al nuovo diritto tedesco.

Il sussulto del nazismo – il colpo di coda di chi è disperato nella sua sconfitta - venne quindi bloccato e fermato e, in Germania, ne venne volutamente dato ampio risulto sui media, quale esempio della lunga strada da percorrere, lì e nel mondo, contro i crimini - e i criminali - del nazismo e del fascismo.

Fu qui che probabilmente presero vigore e forza le attività dei giudici tedeschi, impegnati a far conoscere al mondo le atrocità prima commesse dal pensiero nazi-fascista e razzista. Primo fra tutti il grande Fritz Bauer coi suoi processi di Francoforte sul Meno, che cambiarono la Germania anche insegnando una nuova parola – Auschwitz – prima lì impronunciabile e sconosciuta nel vocabolario.

Ma chi era stato Alfred Jodl? Nato da famiglia di militari, già nella Grande Guerra venne promosso a capitano per meriti acquisiti nelle battaglie delle Fiandre. Fu qui che conobbe un altro grande futuro generale di Hitler, Wilhelm Keitel.

Come tutti gli ufficiali tedeschi non accettò mai la sconfitta del 1918 e non appena un caporale austriaco, fallito nella vita, si mise in politica, tra violenze di ogni tipo e soprusi col sangue, anche Jodl - come Keitel - non perse un secondo per sposare la causa nazista.

E in vista della guerra, già nell’agosto 1939, allora maggiore generale e comandante di divisione, fu chiamato da Keitel - per ordine di Hitler - a ricoprire la carica di capo dell'ufficio Comando e Operazioni dell'Oberkommando der Wehrmacht (OKW). In altre parole ‘consigliere strategico’ del Fuhrer con compiti di studio e programmazione delle campagne militari naziste.

Ma fu qui però che Jodl si diversificò da Keitel e dagli altri grandi generali nazisti. In alcune scelte strategiche ebbe più volte il coraggio di esprimere obiezioni militari sulle idee del Fuhrer, senza mai mancargli di rispetto, totale fiducia, assoluta fedeltà. Come nel caso della campagna di Russia. Jodl pagò in parte questa ‘divergenza fedele’ con incarichi talvolta minori ma pur restando sempre nel palmo degli uomini di cui il Fuhrer poteva, sempre e solo, fidarsi.

E sarà così che il 7 maggio 1945, suicidatosi Hitler e nominato suo erede l’ammiraglio Karl Dönitz, questi scelse proprio Alfred Jodl - il generale nazista più ‘presentabile’ al mondo - per la firma, alla presenza di ufficiali francesi e sovietici, della dichiarazione di resa incondizionata della Germania alle potenze alleate e sovietiche.

Al processo di Norimberga, iniziato il 20 novembre 1945, Jodl fu ritenuto inevitabilmente responsabile, insieme con Keitel, della condotta tenuta dalla Wehrmacht nei confronti delle popolazioni dei paesi occupati, dei prigionieri di guerra, degli ebrei della Shoah. Le principali accuse contro il suo operato riguardavano soprattutto la firma per conto dell'Oberkommando der Wehrmacht circa l'uccisione di migliaia e migliaia di prigionieri di guerra giustiziati sommariamente al momento della cattura. Di fronte alle sparatorie di massa del 1941 di prigionieri sovietici, Jodl affermò – in sede processuale - che gli unici prigionieri uccisi erano "non quelli che non potevano, ma quelli che non volevano camminare".

Giudicato colpevole di tutti i capi d'accusa e condannato a morte, fu il decimo e penultimo a salire sul patibolo nella camera delle esecuzioni del carcere di Norimberga, nelle prime ore del mattino del 16 ottobre 1946. Al momento dell'esecuzione gridò, in tedesco: "Ti saluto, Germania mia".

Due giorni prima dell'esecuzione così scrisse alla moglie: «S'è fatto tardi e presto qui si spegneranno le luci. Quando, la sera dopo la mia morte, i nostri amici verranno a trovarti, quello sarà il mio corteo funebre. La mia bara sarà su un affusto di cannone e tutti i soldati tedeschi marceranno assieme a me: davanti quelli caduti in battaglia e dietro, al loro seguito, quelli ancora in vita» . Alla moglie Jodl detterà anche un saggio su Adolf Hitler - il suo 'faro', la sua 'stella polare' - in cui afferma: «Si è comportato come si sono comportati tutti gli eroi della storia. Si è fatto seppellire tra le macerie del suo regno e delle sue speranze. Perciò lo giudichi chi può farlo. Io non posso».

Il cadavere di Jodl venne cremato e le ceneri vennero sparse (insieme a quelle di Wilhelm Keitel) a Monaco di Baviera nel Wenzbach, un piccolo ruscello affluente del fiume Isar.

La riabilitazione postuma del 28 febbraio 1953 non poteva esser quindi accettata in un paese che voleva tagliare i cordoni ombelicali col passato o, almeno, iniziava a farlo con le sue persone migliori. Il nazismo era stato un crimine e nessuno poteva essere riabilitato tra i suoi vertici.

E se tra tutti i condannati a Norimberga si era scelto – non a caso – quello più dubbioso sulle strategie militari di Hitler – senza però assumersi il rischio di opporsi seriamente per non finire male, come fecero invece coraggiosamente gli uomini del colonnello Claus von Stauffenberg il 20 luglio 1944 – la strada della ‘minimizzazione’ delle immense colpe del nazismo era chiara. Assolutamente non si poteva accettarla, perché poi si sarebbe proseguito verso la ‘purificazione’ nazista.

Perciò, per tutti gli uomini di buon senso, la sentenza del 3 settembre 1953 – nella stessa data, peraltro, che nel 1939 era iniziata di fatto la Seconda Guerra Mondiale, con la dichiarazione di guerra della Gran Bretagna e della Francia alla Germania di Hitler per l’invasione della Polonia di 2 giorni prima – era più che mai giusta e doverosa. Nel rispetto almeno di tutti i morti causati dal nazismo. Era il 1953 in Germania.

E da noi In Italia, l’altro socio del nazismo di Hitler e di Jodl, come eravamo messi? Da noi il 22 giugno del 1946, venti giorni esatti dopo il referendum tra Monarchia e Repubblica, il governo di ‘larghe intese tra i vincitori’ presieduto da Alcide De Gasperi aveva licenziato la famosa ‘amnistia Togliatti’. E' stata la ‘ madre di tutte le amnistie’. Ne beneficiarono subito 7.061 persone, già condannate o in corso di condanna: 153 partigiani e 6.908 fascisti. Il 98% contro il 2% in termini matematici.

Ma lì nel 1946 c'era l'alibi della generale impreparazione da parte di tutti, della politica, della magistratura, delle carceri piene e traboccanti di prigionieri, del contesto nazionale di 'ancora guerra civile', del contesto internazionale che solo il 1° ottobre avrebbe partorito il processo di Norimberga. Il tutto, ovviamente, sotto l'occhio vigile del curatore fallimentare con la bandiera “a stelle e strisce'' che dopo averci tirato fuori dal nazi-fascismo non voleva che qualcuno dei suoi 'salvati' cadesse, caso mai, tra le braccia del nuovo nemico di Mosca. Proprio ora che si stava decidendo quanti fondi del Piano Marshall ci sarebbero arrivati in soccorso.

Il peggio del peggio da noi avvenne proprio nel 1953, con l'amnistia successiva, quella - che a differenza del decreto di amnistia del '46 (la Togliatti, appunto) - passerà alla Storia solo identificata dalla data: 19 dicembre 1953 (D.P.R. n. 922). Non ci sarà il nome del Ministro di Grazia e Giustizia che lo firmerà o del Governo che lo licenzierà per farla ricordare o, peggio, imputare a qualcuno. Nessuno spese il suo nome ad eterna memoria. Era solo l'amnistia del Natale ‘ 53 e a Natale, da sempre, arrivano i regali. Anche ai bambini cattivi.

Quel governo era presieduto da Giuseppe Pella (DC) con sottosegretario un certo Giulio Andreotti, Ministro degli Interni Amintore Fanfani, alla Difesa Paolo Emilio Taviani, all'Istruzione Antonio Segni – tutti importanti politici anche dei decenni successivi – e alla Giustizia Antonio Azara, il relatore e firmatario dell'amnistia.

Antonio Azara era un magistrato a fine carriera (aveva allora 70 anni), laureatosi in giurisprudenza nel lontano 1907. Capace ed esperto, era entrato in magistratura molto giovane dove ricoprì vari ruoli. Negli anni bui del fascismo, nel 1931, divenne consigliere di Cassazione e per le sue capacità tecniche, già nel 1926 (fino al 1942), fu chiamato a partecipare alle varie commissioni ministeriali che porteranno alla nuova redazione di quello che è ancora oggi il nostro Codice civile. Da fine giurista, negli anni 'clou' della propaganda razzista di Mussolini, fece parte anche del comitato scientifico che pubblicava le riviste "La nobiltà della stirpe" e "Diritto Razzista". Proseguendo la carriera nell'Italia del regime, nel 1936 – da fascista e razzista - venne promosso quale Presidente di sezione della Corte di Cassazione.

La svolta avvenne però dopo l'8 settembre 1943 quando, convintamente, fu tra quei pochi magistrati della Cassazione che rifiutarono di aderire alla R.S.I. e giurare ancora fedeltà al Duce. Questo lo porterà ad esser messo sotto accusa per apologia fascista da parte dell'Alto Commissariato per le Sanzioni contro il Fascismo (nel settembre 1944 a Salò), ma riuscì ad esser sempre prosciolto.

Saranno queste vicende che gli permetteranno di nascondere e far dimenticare, anni dopo, la 'sua legittimazione concessa al razzismo mussoliniano' come più volte dirà Mimmo Franzinelli (nel suo 'L'Amnistia Togliatti – Mondadori – 2006) quando ne parla in maniera approfondita, confermando anche le sue notevoli capacità oratorie. Nel dopoguerra sarà procuratore generale (dal 15 febbraio 1951 all'11 novembre 1952) e poi primo presidente (dal 12 novembre 1952 al 17 gennaio 1953) della Corte di Cassazione e si dedicherà alla politica, risultando eletto già nel 1948 quale senatore per la Democrazia Cristiana. Lo sarà fino al 1967, quando a 84 anni morì.

Ma sarà, per la Storia, soprattutto il ministro, in quel 1953, chiamato a partorire la seconda grande amnistia, il secondo grande colpo di spugna per purificare le precedenti responsabilità degli uomini che avevano commesso reati (non lievi) al tempo del fascio. Perché così è stato, visto il risultato finale di questa seconda amnistia: 7.833 beneficiari, quasi tutti - se non tutti - fascisti. Se nella 'Togliatti' (peraltro con 'soli' 7.061 amnistiati) i fascisti erano il 98%, con quella di Azara raggiungiamo probabilmente il 99,99%. Perchè dire 100% non è mai educato.

Serviva un nuovo passaggio di 'lavatrice' anche senza necessitare dell'apporto di chi ora era passato all'opposizione. Togliatti e il suo PCI erano superflui, non era più necessario l'ok di chi quel partito rappresentava o di quella grande massa di partigiani che, col fazzoletto rosso al collo, aveva lottato alla morte contro i fascisti di Salò o i nazisti del Terzo Reich.

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* Coordinatore della Commissione Storia e Memoria dell'Osservatorio


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