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21 dicembre 2023
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Il fratello del duce
di Rinaldo Battaglia *

Il 21 dicembre 1931, causa infarto, a Milano moriva improvvisamente Arnaldo Mussolini, il fratello del Duce. Fu un colpo mortale perché quel fratello minore (2 anni in meno) gli era sempre stato fedelmente al fianco, lo aveva sostenuto in momenti difficili ed efficacemente ‘propagandato’ tramite ‘Il Popolo d’Italia’, giornale in cui lo sostituì come direttore quando il Duce divenne, con la Marcia su Roma, capo del governo.

Arnaldo era un uomo di cultura, portato alla mediazione, di certo non punti di forza del fratello maggiore. E più volte furono proprio le sue capacità oratorie e mediatrici a salvare il Duce, da problemi relazionali che questi si era cercato o creato. Come ad esempio, subito dopo le leggi fascistissime e il Concordato col Vaticano dell’11 febbraio 1929, quando il Papa Pio XI non volle accettare che l’educazione dei ragazzi in Italia fosse ‘patrimonio’ esclusivo del partito fascista. Intervenne Arnaldo e in pochi mesi (16 settembre 1931) arrivò sulla carta ad un compromesso: i giovani cattolici potevano organizzarsi solamente all'interno dell'Azione Cattolica, senza svolgere alcuna attività politica. Sulla carta perché poi nei fatti l’accordo con la Santa Sede fu molto ridimensionato se non bloccato, ma le apparenze erano state salvate.

Ma Arnaldo Mussolini fu anche l’uomo degli affari ‘ombra’, l’uomo delle tangenti più o meno presunte, dello Scandalo Sinclair Oil, degli strani ‘business’ del podestà di Milano Ernesto Belloni, di fatto la mano operativa di Arnaldo. Fu l’uomo del regime, tramite cui il Duce faceva gli affari sporchi e a cui nessuno si sarebbe permesso di fare nulla contro, perché sarebbe stato come colpire il Duce direttamente. Roberto Farinacci, inizialmente antagonista di Benito Mussolini nel fascismo dei primi anni, lo capì strada facendo e per non rischiare troppo si dovette fermare, sempre un attimo prima. Altri come Giacomo Matteotti non lo fecero e, nel caso specifico il 10 giugno 1924, ne pagarono il prezzo.

E’ fu proprio lo scandalo Sinclair che costò la vita a quello che allora risultava come il capo unico dell’opposizione parlamentare. Tutto era partito il 29 aprile 1924, quando il governo Mussolini concesse quasi di nascosto alla società petrolifera statunitense Sinclair Oil (importante colosso con alle spalle gente come la famiglia Rockefeller, affiliata alla Anglo Persian Oil, la futura British Petroleum) un’esclusiva per 50 anni per la ricerca e lo sfruttamento di tutti i giacimenti petroliferi presenti in Emilia e in Sicilia (poi ufficializzato col RDL n.677 del 4 maggio 1924), esclusiva che strada facendo sarà poi annullata. Non solo: vi erano anche ulteriori agevolazioni su altre concessioni, anche nel Nord-Africa italiano (alcune per 90 anni) e soprattutto una totale, assurda esenzione fiscale. Troppo quanto concesso e troppo a favore solo di una parte: l’altra. A danno dell’Italia.

Difficile pensare che fosse tutto alla luce del sole. Il primo a non credere questo ‘affare’ fu proprio Giacomo Matteotti, che subito si dedicò con impegno alla vicenda. Qualche giornale, apparentemente ancora non ‘fascista’, come ‘Il Nuovo Paese’ di Carlo Bazzi subito evidenziò delle anomalie nell’iter che aveva portato alla convenzione con la Sinclair, mettendone in dubbio persino la legittimità, definendola – come nell’articolo del 15 maggio 1924 dal titolo significativo: ‘Un edificante episodio sulla Convenzione "Sinclair" - un «tentativo compiuto incoscientemente di vendere il sottosuolo petrolifero d'Italia allo straniero».

E quando, a neanche 6 anni dalla Grande Guerra, si usava il termine ‘vendere il territorio allo straniero’ si toccavano argomenti forti e nervi ancora troppo scoperti.

Intervenne direttamente così, già il 16 maggio, la “Presidenza del consiglio” in ‘difesa pubblica’ con tanto di nota pubblicata dal medesimo giornale e, fino al rapimento di Matteotti, più nessun altro giornale ne parlerà. ‘Il Nuovo Paese’ ritornerà in argomento solo il 13 giugno, tre giorni dopo che, in quel 10 giugno, Giacomo Matteotti aveva programmato un suo discorso in Parlamento con tanto di documentazione ed atti compromettenti. Documentazione ed atti che, a sentire i suoi più stretti collaboratori, erano contenuti nella borsa che il leader socialista aveva in mano quando un gruppo dei fascisti (Albino Volpi, Giuseppe Viola, Augusto Malacria e Amleto Poveromo al comando di Amerigo Dumini) lo sequestrò prima che arrivasse in Parlamento.

Renzo De Felice, il grande storico di Mussolini, ha sempre sostenuto che quella borsa fu presa da Dumini stesso e prima del suo arresto (12 giugno) questi l’abbia consegnata personalmente al capo della Polizia, Emilio De Bono, che la conservò per vent'anni. De Bono era un uomo di fiducia ‘totale’ del Duce, almeno fino al 25 luglio 1943. Anzi, sia De Felice che altri storici o politici (come Guglielmo Salotti, Marcello Staglieno, Fabio Andriola e Matteo Matteotti) confermerebbero che De Bono - dopo esser stato condannato a morte con Galeazzo Ciano a Verona con l'accusa di alto tradimento- avesse consegnato quei documenti proprio al Duce contro la promessa (vera o presunta non si sa) di avere in cambio salva la vita.

Due cose sono certe però: De Bono venne ugualmente fucilato e quei documenti vennero trovati dai partigiani a Dongo al momento della cattura del Duce, il 27 aprile 1945, mentre scappava in Svizzera. Sarebbero stati lì sequestrati ed inventariati. Ma come parte dell’oro di Dongo, non furono mai più trovati. Altro mistero su un mistero.

Ma quei documenti non erano gli ‘unici’ elementi depositari di quella verità o presunta tale....

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* Coordinatore Commissione Storia e memoria dell'Osservatorio


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