Cassazione
: affidamento in prova negato a chi rifiuti assunzione responsabilità
di
Annalisa Gasparre*
NEGATO
L’AFFIDAMENTO IN PROVA AI SERVIZI SOCIALI A MADRE EGOCENTRICA
CHE VIVE LA MATERNITA’ COME COMPLETAMENTO DELLA PERSONALE
SCALA DI SUCCESSO
Cass.
pen. sez. I, sent. n. 33770 del 07/06/2011 dep. 12/09/2011
Pres. P. Bardovagni Rel. M. Rombolà
I
presupposti e la natura della misura dell’affidamento in prova
L’affidamento in prova ai servizi sociali è misura alternativa
alla detenzione, introdotta dalla legge di riforma dell’ordinamento
penitenziario (Legge 26 luglio 1975 n. 354), misura che non
sostituisce una condanna, anzi la presuppone, ma determina
un modo alternativo di scontarla, enfatizzando il fine rieducativo
ex art. 27 c. 3 Cost. al di fuori dalle mura carcerarie. L’art.
47 ord. pen. prevede la possibilità per il condannato a pena
detentiva non superiore a tre anni di espiare la pena fuori
dall’istituto penitenziario.
Il provvedimento che concede la misura è adottato dal Tribunale
di Sorveglianza sulla base dei risultati dell’osservazione
della personalità, condotta collegialmente per almeno un mese
in istituto, nei casi in cui si possa ritenere che il provvedimento
contribuisca alla rieducazione del reo e assicuri la prevenzione
del pericolo che commetta altri reati. La norma prevede anche
la possibilità che l’affidamento sia disposto, anche senza
l’osservazione in istituto, quando il condannato, dopo la
commissione del reato, abbia serbato un comportamento tale
da consentire un giudizio analogo a quello scaturente dall’osservazione
in istituto.
Si prevede che il servizio sociale controlli la condotta del
soggetto e lo aiuti a superare le difficoltà di adattamento
alla vita sociale, anche tenuto conto delle eventuali prescrizioni
dettate con il provvedimento di affidamento in prova.
Il caso
M.S.
proponeva ricorso avverso l’ordinanza n. 3092/2010 del Tribunale
di Sorveglianza di Milano che rigettava l’istanza di affidamento
in prova al servizio sociale per la pena residua da scontare
per la condanna per maltrattamenti e lesioni gravissime in
danno della figlia di tre mesi.
Il Tribunale di Sorveglianza aveva considerato come le gravissime
condotte sanzionate fossero “addebitabili all’estremo egocentrismo
della donna, che dopo la maternità vissuta come completamento
della sua personale scala di successi (omissis) aveva volto
in rabbia e aggressività la frustrazione patita alle prime
difficoltà nella cura della neonata”.
Dalla
relazione del Uepe (Ufficio Esecuzione Penale Esterna) era
emerso un atteggiamento che il Tribunale definiva “sconcertante”,
con “minimizzazione delle proprie responsabilità”, distacco
rispetto ai fatti, tale da condurre ad escludere una prognosi
favorevole di rieducazione, e dunque un possibile esito fausto
della misura alternativa richiesta, la quale non è tanto un
beneficio, quanto una possibilità – più concreta – di realizzare
la “rieducazione”, nella sua accezione costituzionale.
Secondo
il Tribunale di Sorveglianza la concessione della misura dell’affidamento
in prova, alla luce dell’atteggiamento della condannata, poteva
essere vissuto dalla stessa in chiave ulteriormente deresponsabilizzante.
Per questi motivi, considerato anche che, nonostante il benessere
economico della donna, questa nulla aveva versato della provvisionale
a cui era stata condannata, il Tribunale non concedeva la
misura alternativa. Risulta evidente infatti che la misura
necessiti dell’adesione – non pretestuosa – del condannato
a un “programma rieducativo”, che sconta – necessariamente
e preliminarmente – un’assunzione di responsabilità e il desiderio
di reinserirsi nella società, nel contesto violato e accettando
intimamente il confronto con i servizi sociali.
La Corte di legittimità nulla aggiunge rispetto alle motivazioni
del Tribunale di Sorveglianza, atteso che suo compito istituzionale
è verificare non tanto il merito, quanto violazioni di legge
o difetti di motivazione del provvedimento impugnato. Nel
rigettare il ricorso nella parte relativa all’affidamento
in prova[1], la Corte evidenzia che il ricorso non individuava
aspetti del provvedimento da sottoporre a censura, bensì tendeva
a proporre una nuova disamina di circostanze di merito, che
non è consentita in sede di legittimità. Sotto questo profilo,
la Corte giudica corretta e congrua la valutazione effettuata
dal Tribunale di Sorveglianza.
E’ il provvedimento di merito invero che merita nota, perché
porta a riflettere su un caso in cui – nonostante l’estraneità
delle condotte maltrattanti da situazioni di emarginazione
sociale o di disoccupazione – anche dopo la condanna, permaneva
un atteggiamento distaccato rispetto ai fatti, senza assunzione
di responsabilità, mancando una matura consapevolezza di quanto
occorso.
[1]
Il ricorso riguardava anche la mancata concessione di altra
misura alternativa, la semilibertà, sulla quale anche il Procuratore
Generale chiedeva annullamento dell’ordinanza impugnata, in
quanto vi era omessa motivazione, richiesta che la Cassazione
accoglie, rinviando per nuovo esame sul punto.
*
esperta di diritto penale e procedura penale,
membro del Comitato tecnico-giuridico dell'Osservatorio
 
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