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30 settembre 2011
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Cassazione : affidamento in prova negato a chi rifiuti assunzione responsabilità
di Annalisa Gasparre*

NEGATO L’AFFIDAMENTO IN PROVA AI SERVIZI SOCIALI A MADRE EGOCENTRICA CHE VIVE LA MATERNITA’ COME COMPLETAMENTO DELLA PERSONALE SCALA DI SUCCESSO

Cass. pen. sez. I, sent. n. 33770 del 07/06/2011 dep. 12/09/2011 Pres. P. Bardovagni Rel. M. Rombolà

I presupposti e la natura della misura dell’affidamento in prova

L’affidamento in prova ai servizi sociali è misura alternativa alla detenzione, introdotta dalla legge di riforma dell’ordinamento penitenziario (Legge 26 luglio 1975 n. 354), misura che non sostituisce una condanna, anzi la presuppone, ma determina un modo alternativo di scontarla, enfatizzando il fine rieducativo ex art. 27 c. 3 Cost. al di fuori dalle mura carcerarie. L’art. 47 ord. pen. prevede la possibilità per il condannato a pena detentiva non superiore a tre anni di espiare la pena fuori dall’istituto penitenziario.

Il provvedimento che concede la misura è adottato dal Tribunale di Sorveglianza sulla base dei risultati dell’osservazione della personalità, condotta collegialmente per almeno un mese in istituto, nei casi in cui si possa ritenere che il provvedimento contribuisca alla rieducazione del reo e assicuri la prevenzione del pericolo che commetta altri reati. La norma prevede anche la possibilità che l’affidamento sia disposto, anche senza l’osservazione in istituto, quando il condannato, dopo la commissione del reato, abbia serbato un comportamento tale da consentire un giudizio analogo a quello scaturente dall’osservazione in istituto.

Si prevede che il servizio sociale controlli la condotta del soggetto e lo aiuti a superare le difficoltà di adattamento alla vita sociale, anche tenuto conto delle eventuali prescrizioni dettate con il provvedimento di affidamento in prova.

Il caso

M.S. proponeva ricorso avverso l’ordinanza n. 3092/2010 del Tribunale di Sorveglianza di Milano che rigettava l’istanza di affidamento in prova al servizio sociale per la pena residua da scontare per la condanna per maltrattamenti e lesioni gravissime in danno della figlia di tre mesi.

Il Tribunale di Sorveglianza aveva considerato come le gravissime condotte sanzionate fossero “addebitabili all’estremo egocentrismo della donna, che dopo la maternità vissuta come completamento della sua personale scala di successi (omissis) aveva volto in rabbia e aggressività la frustrazione patita alle prime difficoltà nella cura della neonata”.

Dalla relazione del Uepe (Ufficio Esecuzione Penale Esterna) era emerso un atteggiamento che il Tribunale definiva “sconcertante”, con “minimizzazione delle proprie responsabilità”, distacco rispetto ai fatti, tale da condurre ad escludere una prognosi favorevole di rieducazione, e dunque un possibile esito fausto della misura alternativa richiesta, la quale non è tanto un beneficio, quanto una possibilità – più concreta – di realizzare la “rieducazione”, nella sua accezione costituzionale.

Secondo il Tribunale di Sorveglianza la concessione della misura dell’affidamento in prova, alla luce dell’atteggiamento della condannata, poteva essere vissuto dalla stessa in chiave ulteriormente deresponsabilizzante. Per questi motivi, considerato anche che, nonostante il benessere economico della donna, questa nulla aveva versato della provvisionale a cui era stata condannata, il Tribunale non concedeva la misura alternativa. Risulta evidente infatti che la misura necessiti dell’adesione – non pretestuosa – del condannato a un “programma rieducativo”, che sconta – necessariamente e preliminarmente – un’assunzione di responsabilità e il desiderio di reinserirsi nella società, nel contesto violato e accettando intimamente il confronto con i servizi sociali.

La Corte di legittimità nulla aggiunge rispetto alle motivazioni del Tribunale di Sorveglianza, atteso che suo compito istituzionale è verificare non tanto il merito, quanto violazioni di legge o difetti di motivazione del provvedimento impugnato. Nel rigettare il ricorso nella parte relativa all’affidamento in prova[1], la Corte evidenzia che il ricorso non individuava aspetti del provvedimento da sottoporre a censura, bensì tendeva a proporre una nuova disamina di circostanze di merito, che non è consentita in sede di legittimità. Sotto questo profilo, la Corte giudica corretta e congrua la valutazione effettuata dal Tribunale di Sorveglianza.

E’ il provvedimento di merito invero che merita nota, perché porta a riflettere su un caso in cui – nonostante l’estraneità delle condotte maltrattanti da situazioni di emarginazione sociale o di disoccupazione – anche dopo la condanna, permaneva un atteggiamento distaccato rispetto ai fatti, senza assunzione di responsabilità, mancando una matura consapevolezza di quanto occorso.

[1] Il ricorso riguardava anche la mancata concessione di altra misura alternativa, la semilibertà, sulla quale anche il Procuratore Generale chiedeva annullamento dell’ordinanza impugnata, in quanto vi era omessa motivazione, richiesta che la Cassazione accoglie, rinviando per nuovo esame sul punto.

* esperta di diritto penale e procedura penale, membro del Comitato tecnico-giuridico dell'Osservatorio


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