Maltrattamenti
in famiglia anche se la convivenza e' more uxorio
di
Annalisa Gasparre*
CONSOLIDATO
L’ORIENTAMENTO CHE INTERPRETA IL CONCETTO DI FAMIGLIA IN SENSO
AMPIO NELL’APPLICAZIONE DELL’ART. 572 C.P.
Trib. Bologna Sent. 20/06/2011 imp. Ca. Ma.
“Famiglia”
in che senso?
Il bene giuridico protetto dalla norma dell’art. 572 c.p.
denominato letteralmente “Maltrattamenti in famiglia o verso
fanciulli” è quello della famiglia intesa in senso ampio,
non strettamente civilistico, ma socio-culturale, includendo
perciò anche la famiglia di fatto, basata anche su una convivenza
more uxorio. E ciò a prescindere dal tenore della norma che
alcun cenno fa a tali ipotesi.
Secondo
il consolidato orientamento della Suprema Corte, il richiamo
alla “famiglia” deve intendersi riferito ad ogni consorzio
di persone tra le quali, per strette relazioni e consuetudini
di vita, siano sorti rapporti di assistenza e solidarietà
per un apprezzabile periodo di tempo (Cass. pen. nn. 40727/09
– 20647/08 – 39338/08). La Costituzione, da parte sua, dice
che la famiglia è una società naturale fondata sul matrimonio
(art. 29 Cost.), ma a ben vedere non esclude, con tale definizione,
l’ipotesi che la famiglia sia comunque una formazione sociale,
da tutelare e proteggere quale proiezione dei diritti inviolabili
dell’uomo riconosciuti dall’art. 2 della Cost. nella parte
denominata “Principi fondamentali”.
In via applicativa, quello che rileva nell’interpretazione
dell’art. 572 c.p., secondo dottrina e giurisprudenza, è la
convivenza, la comunanza di vita “nei fatti”, anziché i rapporti
che scaturiscono da negozi giuridici (qual è il matrimonio).
Insomma:
quello che è da proteggere sono le “persone” nella loro integrità
psico-fisica rispetto ad altre persone con cui hanno rapporti
costanti, quotidiani, confidenziali, di fiducia e rispetto
reciproco, di collaborazione e di solidarietà, piuttosto che
un concetto giuridico di famiglia, quale poteva essere quello
che avevano in mente nel Codice del 1930.
A
conferma dello sviluppo teorico e pratico del concetto, ampliando
in modo analogo il concetto di “famiglia” ai mutamenti socio-culturali
e alle connesse esigenze di tutela di tali “formazioni”, la
Legge 5 aprile 2001 n. 154 denominata “Misure contro la violenza
nelle relazioni familiari”, ha introdotto, in ambito penale,
la misura cautelare personale dell’allontanamento dalla casa
familiare (art. 282 bis c.p.p.) e, in ambito civile (anticipando
la soglia di protezione nei casi in cui non si configuri ancora
reato), i c.d. ordini di protezione, per i casi di violenza
domestica, esplicitando la ricorribilità in favore del convivente,
laddove vi sia grave pregiudizio per l’integrità fisica o
morale o per la libertà di questo (artt. 342 bis e 342 ter
c.c.).
Giustamente
il legislatore ha posto l’accento – finalmente – sulle “relazioni
familiari”, anziché sul negozio giuridico eventualmente sottostante
la relazione, da cui scaturiscono diritti e doveri di tipo
privatistico, ritenendo parimenti degna di protezione la famiglia
“di fatto”, o meglio, i soggetti deboli della stessa.
I fatti e la sentenza del Tribunale di Bologna del 20/06/2011
La condotta richiesta è genericamente quella di maltrattamento,
con aumenti di pena se deriva una lesione grave, che porta
il trattamento sanzionatorio “base” da uno a cinque anni a
quello “aggravato” da sette a quindici anni, aumentando ancora
in caso di morte che sia derivata dal maltrattamento.
Il
delitto è perseguibile d’ufficio, anche se è piuttosto evidente
che generalmente sarà la vittima a portare a conoscenza delle
Autorità lo stato di maltrattamento in cui versa. In questo
senso può affermarsi che la vittima svolge un fondamentale
ruolo di “filtro selettivo”. Tuttavia, la perseguibilità d’ufficio
consente di procedere anche nel caso in cui la vittima dei
maltrattamenti rimetta la querela (il che avviene spesso,
soprattutto in quelle situazioni patologiche in cui la convivenza
permane – al pari della sopraffazione del carnefice), come
– lo anticipiamo – è successo nel caso in commento.
Perciò, il bene giuridico tutelato riteniamo rimanga di rilevanza
pubblicistica, atteso il regime di perseguibilità che prescinde
dalla volontà delle vittime dirette interessate, arrivando
persino a manifestarsi in senso contrario a questa. Nel caso
sottoposto al Tribunale di Bologna, le condotte poste in essere
dall’imputato nel periodo tra marzo e agosto del 2008 si erano
connotate in particolare per un concorso di ingiurie, minacce,
percosse e lesioni procurate alla convivente, tutte documentate.
La
convivenza tra i due proseguiva fino al 2010 e quindi anche
nelle more del procedimento penale, durante il quale la donna
rimetteva tutte le (numerose) querele sporte verso il convivente
nell’immediatezza dei singoli eventi, arrivando addirittura
ad affermare di aver dichiarato falsamente ai Carabinieri
di essere stata minacciata con un coltello (tale “ritrattazione”
ha prodotto l’invio degli atti alla Procura per eventuale
apertura di un fascicolo penale nei confronti della donna).
In ossequio alla perseguibilità d’ufficio delle condotte poste
in essere dall’imputato, il Tribunale giungeva a giudicare
i fatti – unitamente ad altri reati – affermando l’integrarsi
della fattispecie dell’art. 572 c.p. poiché “l’imputato
ha posto in essere per un considerevole arco di tempo tutta
una serie di atti (di disprezzo, di minaccia e di violenza)
certamente lesivi dell’integrità psico-fisica della convivente
Ga.Si., nei confronti della quale è stata posta in essere
una condotta di sopraffazione abituale e sistematica, tale
da rendere la convivenza intollerabile”. .
*
esperta di diritto penale e procedura penale,
membro del Comitato tecnico-giuridico dell'Osservatorio
La
sentenza del Tribunale di Bologna
Obblighi
di assistenza tra coniugi: realta' al confine tra illecito
civile e penale
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