21 maggio 2009

 
     

Stalking : aspetti sociali e criminologici
di Antonio Antonuccio *

Secondo quanto contemplato nella Dichiarazione dell’ ONU n. 54/134 del 17/12/1999, per “Violenza contro le donne” si deve intendere: “… ogni atto di violenza che porti come risultato, o che possa potenzialmente avere come risultato, un danno o una sofferenza fisica, sessuale o psicologica per le donne, incluse le minacce di tali atti, la coercizione o la privazione arbitraria della libertà, che avvenga nella vita pubblica o privata”.

La violenza alle donne nelle sue varie manifestazioni, è ormai ben noto, si sviluppa soprattutto nell’ambito familiare ed è socialmente trasversale, poiché non riguarda in maniera esclusiva i ceti economicamente e culturalmente svantaggiati. La letteratura sul fenomeno evidenzia chiaramente che essa produce nella vittima, in particolare sulla donna, effetti negativi sul piano fisico come disturbi del sonno, astenia, dolori gastrointestinali, mal di testa e sul piano psicologico come la perdita di autostima, autocolpevolizzazione, depressione, disturbi alimentari, paura per sè e per i figli e, nei casi più gravi, tendenze suicide. Nel caso di violenza domestica i figli che assistono ob torto collo alle violenze risentono di effetti che possono manifestarsi con problemi di salute e di comportamento, disturbi del peso, dell’alimentazione e del sonno e possono creare serie difficoltà a scuola ovvero, nei casi più gravi, sviluppare tendenze suicide.

Lo “stalking”, nel generale panorama della violenza, ne rappresenta una particolare forma che si inscrive, come rappresentazione di dinamica sociale, all'interno della complessiva questione della violenza sulle donne. Questa specifica forma di violenza è, anch’essa, ben lontano dal riguardare solo attori dei paesi sottosviluppati o degli ambienti sociali più svantaggiati; in verità, è largamente presente anche nei paesi cosiddetti sviluppati.

Tanto è dimostrato da ricerche e studi condotti negli anni recenti e la letteratura prodotta ha, appunto, evidenziato la trasversalità del fenomeno per quanto riguarda i profili socio-biografici delle vittime e degli autori della violenza, sottolineando, al contempo, che la maggior parte delle prevaricazioni fino alle violenze vengono esercitate in ambito familiare o in contesti relazionali caratterizzati da intimità e affettività.

Carmine Ventimiglia insigne studioso del fenomeno ha sostenuto che: “…. L’universo non è indifferenziato e che la differenza sessuale è una variabile centrale e non accidentale nei fenomeni sociali in generale e tanto più nello specifico della violenza. …” . La letteratura evidenzia che non esiste una categoria speciale di maschi violenti, “… tuttavia il problema della violenza contro le donne deve essere assunto come problema centrale del genere maschile e delle sue modalità di porsi, di rappresentarsi e di legittimarsi nel rapporto con l’altro genere. E’, insomma, nello scenario del pensare e dell’essere “normale” che si ritrovano le condizioni potenziali che possono produrre esiti relazionali violenti”.

Di contro, non è opportuno “naturalizzare” la violenza maschile, ovvero attribuirla ad un qualche carattere ancestrale - biologico, etologico o psicologico - degli uomini in quanto tale, che induce a una connessione univoca tra genere maschile e violenza. E’ questa, nell’ipotesi, un’affermazione facilmente confutabile; infatti non tutti gli uomini sono violenti, altresì la violenza fisica - pur riguardando percentualmente più maschi che femmine - è riscontrabile anche nel genere femminile.

La violenza maschile sulle donne è fenomeno antico e di ampie dimensioni che per lungo tempo, in parte ancora oggi, è socialmente accettata e ritenuta normale. Un fenomeno talmente radicato da permeare gran parte delle nostre istituzioni e delle nostre produzioni sociali, culturali economiche e politiche. Volendo descriverla in maniera sintetica si potrebbe affermare che la violenza è una modalità che gli uomini usano:

  • come abitudine, perchè è qualcosa a cui sono stati socializzati, che è stato appreso ed è diventato parte della loro modalità di reazione e comportamento. Spesso la violenza degli uomini è qualcosa di sperimentato dagli uomini fin da piccoli;
  • come espressione identitaria, in quanto modalità espressiva culturale della propria mascolinità o virilità, espressione di un immaginario culturale specifico, quello della famiglia patriarcale;
  • come strumento di controllo e dominio sugli altri, in particolare sulle persone importanti. Fin da piccoli gli uomini imparano che la propria identità sessuale non è scontata, non è certa, deve essere costruita, affermata, testimoniata continuamente. Fin da piccolo al giovane maschio sono chieste prove di forza, di coraggio, di affermazione di sè nel confronto con gli altri.

La violenza sessuale, dunque possiamo affermare, lega un piacere sessuale ad un piacere dettato dal senso di potenza e di superiorità del maschio e contemporaneamente ad una sottomissione e degradazione imposta alla donna. In altri casi la violenza serve come strumento di controllo e di potere, per imporre un certo ordine nel rapporto e alla donna.

E’ utile notare, in tale gioco dei ruoli, che la violenza sulle donne ordina le relazioni non solo nel privato ma anche nella sfera pubblica; essa non colpisce solo le vittime reali ma anche quelle potenziali. Attraverso la paura, il terrore, il trauma contribuisce a modificare le possibilità e le forme di relazione tra uomini e donne per tutta la società. La possibilità della violenza infatti impedisce o condiziona molte possibilità o esperienze delle donne: uscire di notte, accettare un passaggio in macchina, andare a casa di amici... tutto questo viene vissuto come esperienza pericolosa. In tal senso, nell’immaginario collettivo si è sedimentato il paradosso che se una donna viene violentata di notte per strada il giudizio sociale colpisce anche lei poiché: “una donna che esce di notte da sola se la va a cercare”.

La violenza contro le donne ha come autori gli uomini ma nessuna ricerca finora ha rilevato specifici fattori come indicatori di rischio per quanto riguarda la tipologia del violento e del maltrattatore: nè l'etnia, nè l'età, nè lo status sociale e le condizioni economiche e culturali; in tal senso non è possibile giungere ad un identikit.

Ciò significa, e questo è l'aspetto più inquietante della violenza contro le donne, che essa non presenta quei chiari confini che altri tipi di violenza hanno; essa infatti non è come altre violenze - quella criminale ad esempio - individuabile e circoscrivibile in ben precisi luoghi e contesti sociali o addebitabile a ben precisi processi socio-economici. La violenza in generale su attori in situazione di evidente debolezza e, in particolare, sulle donne e sui minori e lo stalking, come rappresentazione più peculiare di essa, è un fenomeno di collocazione mondiale che, ancora purtroppo, non trova un generale adeguato riconoscimento.

Oggi, in Italia, grazie al D. L. Alfano – Carfagna del febbraio u. s. , le minacce, le molestie, la persecuzione effettuata con qualsiasi mezzo, gli insulti reiterati e tutte quelle situazioni di “terrorismo psicologico” che finora hanno fatto vivere in un limbo di paura e frustrazione soprattutto, ma non solo, migliaia di donne sono punite severamente. La novella norma è stato un atto decisamente importante, certamente perché politicamente trasversale, ma, ancor di più, perché si va a definire per la prima volta una nuova fattispecie di reato, come già avvenuto in Paesi con una lunga tradizione di difesa dei diritti della persona.

Tuttavia, l’adeguato atteggiamento che induce alla saggezza deve essere frutto di una riflessione lungi dal trionfalismo, ciò non è la risoluzione del fenomeno, poiché è necessaria la consapevolezza che una questione di tale complessità non può essere risolta solo riconoscendo, appunto, allo stalking uno status penalmente rilevante, ma resta l’impegno a lavorare tanto anche sul piano culturale e della prevenzione. Questo fenomeno ha una vasta estensione e dietro ad ogni storia ci sono disagi comportamentali e relazionali dolorosi, i quali incidono in profondità sul vissuto della vittima.

I dati dicono che ogni anno in Italia 1 milione e duecentomila donne sono vittime di violenze. Sono delitti gravi quelli contro le donne, essi sono da considerare preoccupanti come quelli commessi dalla criminalità organizzata. Già in una prima rilevazione dei dati del primo trimestre 2008 si è potuto evidenziare una casistica con cifre da non sottovalutare:

  • 110 omicidi e 292 tentati omicidi;
  • quasi 19.000 lesioni dolose;
  • 35.000 percosse e minacce;
  • oltre 25.000 violenze sessuali.

Nell’ultima rilevazione, in un arco di 12 mesi, il numero delle donne vittime di violenza è risultato pari a 1 milione e 150 mila; ben 937 mila donne sono state vittime di violenza fisica o sessuale da un partner precedente ed hanno subito anche lo stalking.

La violenza alle donne, in qualunque forma si presenti, ma in particolare quando si tratta di violenza nel contesto della famiglia, è uno dei fenomeni sociali più nascosti. Le difficoltà che le donne incontrano a denunciare alla pubblica autorità gli episodi di violenza di cui sono vittime rendono infatti il numero delle denunce del tutto irrisorio rispetto all’effettiva incidenza di tali episodi nella vita quotidiana della popolazione femminile.

Ciò che le statistiche giudiziarie riflettono quindi, non è tanto la dimensione reale di un problema, quanto la propensione alla denuncia delle donne che subiscono violenza e la disponibilità della polizia in prima istanza, dell’autorità giudiziaria successivamente, a considerare seriamente tali atti. Considerato dal punto di vista criminologico, esso rappresenta uno dei fenomeni rispetto ai quali la cosiddetta cifra oscura della criminalità raggiunge il livello più alto. Che cos’è lo “stalking”? Quali sono le sue connotazioni di natura criminologica?

Secondo quanto riportato in letteratura, il termine “Stalking” è un’accezione presa in prestito dal lessico tecnico della caccia. Esso è letteralmente traducibile in lingua italiana con “ fare la posta”. Nella pratica deviante si manifesta con “molestie assillanti” e proprio per questo per la sua classificazione è usata anche la definizione di “sindrome del molestatore assillante”. Tale atto deviante viene definito, tuttavia con una certa genericità, come un insieme di comportamenti ripetuti ed intrusivi di sorveglianza e controllo, di ricerca di contatto e comunicazione nei confronti di una “vittima” che risulta infastidita e/o preoccupata da tali comportamenti non graditi.

E’ un fenomeno che all’inizio degli anni ‘80, in seguito ad episodi che coinvolsero personaggi di fama popolare soprattutto negli Stati Uniti d’America, ha cominciato a destare un certo interesse, non solo nell’opinione pubblica, ma anche da parte di alcuni addetti ai lavori nel campo della psicologia e della sociologia. All’epoca, furono oggetto di tale pratica personaggi di spicco del cosiddetto “Star System” personalità dello spettacolo e dello sport.

Possiamo annoverare i fatti che riguardarono le tenniste Martina Hingis e Serena Williams, le quali furono inseguite in tutti i tornei internazionali dai propri molestatori; fu poi il turno delle attrici Theresa Saldana e Rebecca Shaffer, la prima fu pugnalata dal suo stalker a Los Angeles nel 1982 e la seconda, ancora peggio, nel 1989 fu assassinata nella sua città dal suo persecutore. Questi furono, in verità, i fatti che hanno ispirato la prima legge anti-stalking in California, in vigore dal 1992. Altre vittime sono state Nicole Kidman, Sharon Stone, Jodie Foster e Steven Spielberg per citare una vittima al maschile.

(continua >)

* Master Specialista in 'Criminalità, devianza e sistema penitenziario' - Docente a contratto presso la Facoltà di Scienze Politiche dell'Università degli Studi di Messina / Relazione al Convegno: Violenze sul partner e stalking dell'Osservatorio sulla legalità e sui diritti Onlus - Cosenza, 16 maggio '2009.

Speciale giustizia

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