NEW del 19 aprile 2006

 
     

Certezza della pena e certezza del reinserimento
di Antonio Antonuccio*

Il cittadino reclama per la certezza della pena.
Lo Stato s'impegni anche per la certezza del recupero.

In un clima di reale incertezza socio-politica, vissuta nella Penisola come non mai, i pensieri degli italiani sono rivolti su due vicende di cronaca. Il feroce assassinio del piccolo Tommy di Casalbaroncolo e la cattura, dopo un tempo quasi siderale, di Bernardo Provenzano. Sono, senz'altro, fatti che inducono a delle riflessioni riconducibili alla necessità di vedere affermato il "diritto di giustizia".

Il tema è stimolante; un passo breve ci conduce presto alla panacea della "certezza della pena", alchimia condivisa in maniera trasversale, sia nella politica, sia nella società; una di quelle formule con cui taluni (molti) risolvono tanti "pruriti", che trova approvazione comunque. Tra coloro che la usano i più non sanno cosa vuol dire, ma questo, in tempi di pressappochismo, tempi in cui ciò è "sport nazionale", è cosa da poco. Esiste, al contempo, un'altra formula che potremmo cominciare a spendere per quel che vale, che però non trova la stessa pletora di seguaci: la "certezza del reinserimento". E' questa un'azione politica che deve portare verso l'inclusione sociale, anziché all'esclusione.

Cosa si deve intendere con "certezza della pena"? L'accezione la si può usare così, come un'espressione logica, che sembra voler dire molto… ma se "certezza della pena" vuol dire inflessibilità della pena, o almeno esempio d'inflessibilità (la pena inflessibile è stata l'impostazione unica, la prospettiva delle normative precedenti alla legge di riforma del 1975) si contrappone in sostanza con quella che è la flessibilità della pena, che è la possibilità che la pena abbia una durata conseguente all'andamento dell'esecuzione della stessa, cioè possa interrompersi prima del termine stabilito, ed essere sostituita da modalità di esecuzione diverse da quelle previste inizialmente; ciò è la "ratio" della vigente normativa, esempio del legiferare, imitata dalle più evolute democrazie odierne.

In effetti, Zanardelli, con il Codice penale del 1889, rivisto da Rocco nel 1930, prevedeva un'unica soluzione per uscire dal carcere prima del fine pena, cioè la sostituzione della pena in istituto con una forma diversa, che è la libertà vigilata, e quindi per mezzo della concessione, da parte dell'allora Ministro di Grazia e Giustizia, della liberazione condizionale. Un'ipotesi di beneficio molto raro, alla stregua di come poteva essere anche il provvedimento di grazia, che non modificava nella sostanza il funzionamento dell'esecuzione della pena, che rimaneva tendenzialmente rigido.

Ma quando si affermava la tendenza alla rigidità della pena, è bene non dimenticare che, ricorrentemente, con tempi che variavano con periodi anche piuttosto brevi, dai tre ai cinque anni, arrivavano formule magiche come i condoni e le amnistie, che "premiavano" chiunque, senza discriminazioni e scelte, ed erano quegli strumenti con i quali si riduceva la popolazione detenuta quando cresceva troppo.

E allora lo status quo impone una riflessione: la pena d'applicare dovrà necessariamente essere flessibile o inflessibile? Un punto di partenza lo offre il lungimirante articolo 27 della Costituzione, e la ricorrente interpretazione che ne ha fornito la Corte costituzionale.

Nel lontano 1974, la Consulta affermava che c'è un diritto del condannato a che sia valutato se la parte di pena che ha scontato è servita a prepararlo ad un processo di recupero sociale all'esterno, in forme che devono essere diverse dall'esecuzione della pena in carcere. La ratio di questa prima sentenza della Corte costituzionale si esplicitava, pertanto, nell'individuazione della flessibilità della pena, ovvero con il modo, l'utilizzo e l'impostazione, con cui l'esecuzione della pena doveva essere attuata.

Nella legge di riforma dell'ordinamento penitenziario (L. 354/75) che ne consegue e nelle successive tante sentenze della Corte costituzionale, che continuano tuttora, si è articolata meglio la novella impostazione. La pena deve essere flessibile, ma questa flessibilità, questo sistema di prova controllata con cui la pena si esegue, deve essere seguita da una struttura che svolge, al tempo stesso, una funzione di controllo, di recupero e di sostegno.

Nasce, quindi, un nuovo sistema che convive col sistema carcerario, perché il carcere c'è, c'è anche una fase dell'esecuzione della pena, che in linea di massima va fatta all'interno dell'istituto penitenziario; pertanto, accanto alla pena intra-moenia ci dev'essere un'altra struttura (il Centro di Servizio Sociale per Adulti, oggi l'Ufficio per l'Esecuzione Penale Esterna) che governa quelle che vengono dette misure alternative al carcere, cioè il sistema individuato come "area dell'esecuzione penale esterna", il quale si organizza con personale che ha la specifica funzione di controllare e sostenere la persona condannata.

Nel suo agire circostanziato la Consulta giunge ad affermare che, quando si ricostruirà la validità del percorso che la persona ha fatto all'esterno, eventuali insuccessi saranno valutati se legati alla mancanza di efficacia del sistema esterno. Sarà valutato, per esempio se questa persona ha perso il lavoro, se la perdita del lavoro ha coinciso con la perdita della correttezza dell'inserimento sociale, e così via. Si dovrà tenere conto di tutti quei fatti negativi che si frapporranno tra il soggetto e la meta positiva da raggiungere, per valutare se veramente tutti gli sbagli o violazioni, ovvero tutta la responsabilità deve essere attribuita a lui, se tutta la pena deve essere nuovamente espiata, a partire dal momento in cui si era interrotta (ex tunc) per la concessione della misura alternativa.

Appare ovvio che sono due modalità di esecuzione diverse: pena fissa, pena inflessibile, pena che accompagna la persona, fino alla fine, nelle condizioni in cui si trova in carcere; pena flessibile, che porta a valutare il percorso interno (trattamento intramurario) del soggetto, per il quale si decide ad un certo momento se questo percorso debba cambiare e, al posto del carcere, del trattamento penitenziario interno, debba esserci un trattamento penitenziario esterno che dà alla persona la possibilità veramente di misurarsi, fuori dal carcere, con le difficoltà della sua situazione, e di superarle.

In tale nuovo ambito di esecuzione penale ci dobbiamo chiedere se deve essere certa soltanto la pena o deve essere certa anche il recupero quindi il reinserimento sociale. In una valutazione spontanea, o forse semplicistica, che una persona può fare, si dice: "è bene che stia in galera, perché solo così impara e solo così, quando uscirà, sarà un'altra cosa, sarà un'altra situazione".

E' evidente che questo è un discorso valido per chi osserva le cose da fuori. Tuttavia, è, altresì, chiaro che una persona che ha subito tutta la sua pena in carcere, che è stato recluso per un lungo tempo, all'atto della dimissione non è che trovi le cose molto diverse da quelle che erano prima del suo ingresso nell'istituto di pena. Pensare, per il reo, che il reinserimento si leghi soltanto all'uso dell'afflittività del carcere è lontano dalla realtà. Il discorso, molto più verosimile, è che la sua inclusione, quindi il reinserimento, si realizza attraverso quel periodo di prova controllata e sostenuta da specialisti del settore (assistenti sociali), quello di cui la Corte costituzionale afferma.

In sostanza se "pena certa" vuol dire "pena inflessibile", non può che essere flessibile nella pretesa, nel senso che si dovrà mettere il reo nella condizione di farsi carico delle proprie responsabilità anche di fronte all'azione per il reinserimento, che di contro dev'essere garantito dallo Stato. La pena, pertanto, potrà essere flessibile e servirà alla inclusione delle persone. In tale contesto, pertanto, l'interrogativo, sarà: includere o escludere le persone? Il sistema della mera carcerazione altro non è che un processo di esclusione delle persone.

Le persone già recluse, per la ben nota "Teoria dell'etichettamento", ricevevano e ricevono soltanto una stigmatizzazione, dalla quale non riescono a liberarsi, che l'accompagna poi nel resto dell'esistenza. Erano e sono detenuti, o ex detenuti, in procinto di tornare detenuti… questa la loro vicenda esistenziale, in tanti casi, cioè nei casi sicuramente prevalenti.

Il concetto di inclusione ha avuto nel tempo un rapporto sempre più stridente con un'accezione che produce molto più effetto: la parola "sicurezza", ancor più ridondante se accompagnata con "sociale". Appare opportuno ricordare che per sicurezza sociale si deve intendere il tentativo di costruire le condizioni per una migliore vivibilità dell'ambiente in cui viviamo, in cui ci muoviamo; individuare gli aspetti critici che possono essere di nocumento per l'intera popolazione, in particolare per le fasce deboli (bambini, anziani, diversamente abili, ecc.) per rimuoverli. La sicurezza sociale deve agire, in particolare, sulle situazioni di disagio, di emarginazione, proprio per eliminarle, proprio per includere quello che era nella situazione reale escluso.

L'interrogativo che può fare chiarezza sulla certezza della pena e su quello che ad essa è afferente può essere: siamo capaci di ragionare sui principi che la nostra Carta Costituzionale sottopone ai nostri occhi e ispirarci a questo dettato, anziché ragionare in termini di sola contingente emotività, ovvero davanti a quelle ossessioni che accompagnano i nostri giorni, giorni in cui tutte le sicurezze sono lentamente erose?

* Responsabile di Sede dell'Ufficio per l'Esecuzione Penale Esterna di Vibo Valentia - Min. della Giustizia, Dip. Amm.ne Penitenziaria.

Speciale diritti umani

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