NEW del 03 dicembre 2005

 
     

Inciucio , il nuovo libro di Marco Travaglio e Peter Gomez
di red

< prima parte

Secondo: descrivere le nostre classi dirigenti di destra e di sinistra per quel che sono e per quello che han fatto. Sappiamo che la libertà d’informazione ha un nemico pubblico numero uno: si chiama Silvio Berlusconi e l’abbiamo vivisezionato in tanti, forse troppi libri. Finché c’è lui in politica, sappiamo almeno per chi non votare. Ma siamo certi che, caduto lui, l’Italia riconquisterà come per incanto le libertà perdute? Sarebbe disonesto raccontare simili fiabe della buonanotte. Se Berlusconi è arrivato fin qui, è perché a sinistra tanti, troppi gliel’hanno permesso. Non sappiamo perché l’han fatto. Ma sappiamo che l’han fatto. Non sappiamo se l’han fatto gratis oppure no. Ma, nell’un caso e nell’altro, c’è poco da stare allegri.

Se chi ha fatto inciuci nella passata legislatura e poi, nel 2001, ha perso le elezioni fosse andato a casa, come avviene dappertutto fuorché in Italia, potremmo permetterci il lusso di attendere con fiducia il ricambio, l’alternanza. Non è così: quanti si candidano a governare l’Italia dopo Berlusconi (ammesso che il dopo Berlusconi non si chiami più Berlusconi) sono gli stessi che, messi alla prova per sei anni e più, si sono ben guardati dal liberare il mercato della televisione, cioè della magna pars dell’informazione. Rivedendoli all’opera retrospettivamente, appare chiaro che non si erano «sbagliati», non si erano «distratti». Erano scelte consapevoli: è la loro politica. Non è che non siano riusciti a risolvere il conflitto d’interessi, a varare una legge antitrust e a levare le zampe dalla tv per una congiunzione astrale sfavorevole o per le avverse condizioni meteorologiche.

Non hanno voluto farlo. Perché trovano assolutamente normale che sia la politica a comandare sulla Rai. Tramite direttori- manutengoli a cui telefonare gli ordini di scuderia, o a cui nemmeno telefonare perché gli ordini li conoscono già. E tramite carrozzoni turbolottizzati modello commissione di Vigilanza e Authority per le Comunicazioni. Se Bertinotti è il politico più invitato a Porta a Porta, se nei salotti trash di Masotti e La Rosa non manca mai una folta rappresentanza del centrosinistra, se l’opposizione non è riuscita ad assentarsi nemmeno per un giorno dagli strapuntini della Rai mentre ne venivano cacciati i giornalisti e gli attori liberi, se nei programmi fin qui abbozzati dall’Unione non c’è una parola sulla libertà d’informazione (a parte quelle solitarie di Roma- no Prodi), se le uniche proteste contro la tv riguardano un mancato invito nel salotto di turno o un sondaggio sgradito, un motivo c’è. E non è, purtroppo, la distrazione. È l’allergia alla libertà, un’allergia paurosamente contagiosa. Come il conflitto d’interessi «epidemico» di cui parla Guido Rossi.

Ora gli stessi leader invecchiati di un lustro, messi di fronte agli stessi problemi incancreniti da cinque anni di regime mediatico, tenderanno naturalmente a riprodurre gli stessi comportamenti. Cioè a non fare la legge sul conflitto d’interessi, la legge antitrust, la legge che libera la tv dal giogo dei partiti. Chi pensa che, appena la sinistra vincerà le elezioni, automaticamente i partiti usciranno da Viale Mazzini con le mani alzate, si illude. Dovranno essere i cittadini a costringerli, pretendendo impegni precisi prima delle elezioni. E, dopo, evitare di sedersi sugli allori, ma vigilare giorno per giorno per evitare che vada a finire come l’altra volta. Mentre si discetta sul pericolo di un «berlusconismo senza Berlusconi», se ne trascura un altro: il berlusconismo di parte del centrosinistra con Berlusconi, sia esso all’opposizione (come nel 1995-2001) o al governo (come dal 2001 a oggi).

Perché il Cavaliere, anche se dovesse perdere, non se ne andrà a Tahiti né alle Bermuda: resterà come la volta scorsa in Parlamento o – potendo – al Quirinale. Per condizionare la maggioranza (la riforma elettorale serve a garantirgli quantomeno un’ampia minoranza) e salvare un’altra volta la sua roba, seduto su un patrimonio di almeno 10 milioni di euro e – se non cambierà nulla – su tre reti Mediaset e una rete e mezza della Rai. Così, a chiunque tentasse eventualmente di scalfire il suo monopolio incostituzionale, tremerebbero ancora le gambe. E sarebbe inevitabile un nuovo inciucio. Tutti i dibattiti pelosi degli ultimi mesi su «quanto conta la tv nella politica», che di solito si concludono con la risposta «la tv nella politica non conta, infatti Berlusconi ha perso le elezioni europee e regionali», sono finalizzati a questo: a spianare la strada all’ennesimo inciucio, assicurando una congrua «buonuscita » a chi peraltro non ha alcuna intenzione di uscire.

Nessuno in possesso delle sue facoltà mentali può davvero pensare che «le tv non contano»: anzi, tutti sanno che contano moltissimo. Contano per dettare l’agenda unica ai cittadini, espellendo gli argomenti scomodi dal teleschermo e dunque dalle nostre teste. Servono per tenere artificialmente in vita partiti e uomini politici che, senza «apparire» in tv, sarebbero già spariti da un pezzo. Servono per premiare i «buoni» e punire i «cattivi». Servono per firmare contratti con gli italiani senza gli italiani, e poi per farli dimenticare quando li si è platealmente traditi. Servono – lo dicono gli esperti veri – a spostare dal 3% (secondo Alessandro Amadori) al 6% (secondo Giovanni Valentini e Renato Mannheimer) dei voti di quei milioni di italiani che s’informano (si fa per dire) soltanto azionando il telecomando, senza mai sfogliare un giornale, leggere un libro, navigare su internet.

Se le tv non contassero il Cavaliere, che almeno di tv s’intende, non le terrebbe tutte per sé, non farebbe epurare tutti i personaggi più scomodi, non tenterebbe di smantellare la par condicio. Lui sa bene che, senza le tv, nel ’93 non avrebbe nemmeno pensato di fondare un partito e oggi nessuno parlerebbe più di lui. E non avrebbe mai vinto le elezioni del ’94 (quando, secondo Luca Ricolfi, la tv influenzò il 10% degli elettori). E nel ’96 non avrebbe portato in Parlamento una minoranza così nutrita e minacciosa da poter ricattare, politicamente, l’esigua maggioranza di Prodi. Anche la famosa «Rai dell’Ulivo» era per metà controllata da berlusconiani (Rai1 a Saccà e Vespa, Tg2 a Mimun), oltre a tutta Mediaset, anche se oggi molti smemorati raccontano che «nel 2001 Berlusconi vinse senza le televisioni».

Ma quella frase demente – «le tv non contano» – è il ritornello preferito di chi, a destra e a sinistra, spera di perpetuare il sistema anacronistico che consente a pochi eletti (da se medesimi) di continuare a occupare abusivamente la Rai, chiudendosi in una stanza e giocando a Risiko con la nostra libertà. Anche le recenti campagne di alcuni commentatori del «Corriere» e delle maestrine dalla penna rosso-nera come Lucia Annunziata contro il ritorno dei «demonizzatori», dei «radicali », dei «Michael Moore italiani», dei giornalisti e attori di denuncia che «spaventano le classi medie» e «fanno perdere le elezioni alla sinistra» a questo puntano: a livellare la siepe a colpi di cesoie, a segare i rami sporgenti, cioè i pensieri forti e dunque diversi, i personaggi autorevoli e dunque incontrollabili, siano essi di destra, di centro o di sinistra, o magari di nessuna parrocchia. Una guerra preventiva a chi non ha guinzaglio e non accetta bavaglio, perché i soliti quattro gatti possano seguitare a gestire nelle solite quattro stanzette ciò che è pubblico, cioè del pubblico. Perché c’è ancora chi pensa, sovieticamente, che l’informazione e la satira servano a far vincere (o perdere) le elezioni, e non semplicemente a informare, con linguaggi diversi, i cittadini.

Per impedire questo, è giusto raccontare e sapere tutto. Scendere fino in fondo al baratro in cui ci hanno sprofondati. Per sapere che bisognerà risalire molto, e con gran fatica. Guai a pensare che l’Italia sia la stessa di cinque anni fa e che quello attuale sia il livello-base dal quale ripartire. Dieci anni fa chi accendeva la televisione – pur lottizzata – poteva trovare in prima serata Biagi e Montanelli, Santoro e Ferrara, Deaglio e Minoli, Riotta e Funari, Feltri e Guzzanti (padre), Zavoli e Augias, Vespa e Beha, Lerner e Annunziata, oltre a quasi tutti i comici oggi desaparecidos. Ce n’era per tutti i gusti. Oggi si dice che la punta più avanzata sia il povero Floris, e il guaio è che forse lo è davvero: il che la dice lunga su come siamo caduti in basso.

Fermo restando che dev’esserci spazio per chiunque abbia qualcosa da dire e qualcuno che lo stia ad ascoltare, pensare di «ripartire da Ballarò» sarebbe triste e deprimente. Significherebbe perdere la partita in partenza. Una parte importante dell’opinione pubblica, molto più avanti dei suoi presunti rappresentanti, l’ha capito da un pezzo. Il boom di film come Viva Zapatero! e di programmi come Rockpolitik, ma anche i 4 milioni e mezzo di votanti alle primarie dell’Unione, per citare tre casi recentissimi, indica una gran voglia di partecipazione, di democrazia, di libertà. La censura è già stata sconfitta nella società. Ora bisogna cancellarla dai palazzi del potere. Per non morire berlusconiani, con o senza Berlusconi.

INCIUCIO
Come la sinistra ha salvato Berlusconi.
La grande abbuffata Rai e le nuove censure di regime, da Molière al caso Celentano.
L’attacco all’Unità e l’assalto al Corriere.
Prefazione di Giorgio Bocca.

di Peter Gomez e Marco Travaglio
600 pagine, 11.20 €
BUR RCS LIBRI, 2005

Speciale libera informazione, con le censure e i rapporti internazionali sull'anomalia italiana


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