NEW 07 maggio 2005

 
     

Immunita' parlamentare e intercettazioni telefoniche
di red

NOTA DELLA REDAZIONE: In applicazione dell'art. 68 (relativo all'immunita' parlamentare) un parlamentare non puo' essere sottoposto ad intercettazione telefonica senza l'autorizzazione della Camera di appartenenza e pertanto, eventuali intercettazioni per le quali tale permesso sia negato, debbono essere distrutte.

Il Senato era intervenuto in un procedimento in corso considerando tale norma estensibile anche al caso in cui fosse coinvolta un'utenza intestata ad un parlamentare utilizzata pero' da un suo collaboratore, e pertanto si chiedeva l'inutilizzabilita' a fini giudiziari della registrazione.

Su istanza della Corte di Cassazione, la seguente sentenza della Corte Costituzionale stabilisce invece che siano da considerarsi afferenti l'attivita' e persona del parlamentare solo le intercettazioni della voce dell'eletto stesso, e non quelle di persone, anche di sua fiducia, che ne trasmettano il pensiero telefonicamente.

Cio' onde non ledere l'uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge - stabilita dalla Costituzione - l'obbligatorieta' dell'azione penale ed eventuali diritti di terzi che possano - con tali registrazioni - difendersi da accuse o provare torti subiti.

SENTENZA N.163 ANNO 2005 REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE COSTITUZIONALE composta dai signori: - Fernanda CONTRI Presidente - Piero Alberto CAPOTOSTI Giudice - Guido NEPPI MODONA " - Annibale MARINI " - Franco BILE " - Giovanni Maria FLICK " - Francesco AMIRANTE " - Ugo DE SIERVO " - Romano VACCARELLA " - Paolo MADDALENA " - Alfio FINOCCHIARO " - Alfonso QUARANTA " - Franco GALLO "

ha pronunciato la seguente SENTENZA nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 6, commi 2, 3, 4, 5 e 6, e dell'art. 7 della legge 20 giugno 2003, n. 140 (Disposizioni per l'attuazione dell'articolo 68 della Costituzione nonchè in materia di processi penali nei confronti delle alte cariche dello Stato), promosso con ordinanza del 9 marzo 2004 dalla Corte di cassazione sul ricorso proposto da S. D., iscritta al n. 695 del registro ordinanze 2004 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 35, prima serie speciale, dell'anno 2004.

Visti l'atto di costituzione di S. D. nonchè gli atti di intervento del Senato della Repubblica e del Presidente del Consiglio dei ministri; udito nell'udienza pubblica dell'8 febbraio 2005 il Giudice relatore Giovanni Maria Flick; uditi gli avvocati Aldo Guagliani per S. D., Giuseppe de Vergottini per il Senato della Repubblica e l'avv. dello Stato Maurizio Greco per il Presidente del Consiglio dei ministri.

Ritenuto in fatto 1. − Con l'ordinanza in epigrafe la Corte di cassazione ha sollevato questione di legittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 3, 24 e 112 della Costituzione, dell'art. 6, commi 2, 3, 4, 5 e 6, e dell'art. 7 della legge 20 giugno 2003, n. 140 (Disposizioni per l'attuazione dell'articolo 68 della Costituzione nonchè in materia di processi penali nei confronti delle alte cariche dello Stato), recanti la disciplina – rispettivamente, “a regime†e transitoria – dell'utilizzabilità delle intercettazioni, effettuate nel corso di procedimenti riguardanti terzi, di conversazioni o comunicazioni alle quali hanno preso parte membri del Parlamento. La Corte rimettente riferisce di essere investita del ricorso diretto per cassazione proposto, ai sensi dell'art. 311, comma 2, cod. proc. pen., contro l'ordinanza del Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Roma che aveva disposto la custodia cautelare in carcere del ricorrente e di numerose altre persone, per il delitto di cui all'art. 73 del d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309 (Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza).

Alla luce del provvedimento impugnato, la misura faceva seguito ad indagini di polizia giudiziaria che avevano portato all'accertamento di un vasto traffico organizzato di sostanze stupefacenti (in particolare, cocaina) nel territorio della capitale: indagini dalle quali era emerso che tra i destinatari dello stupefacente figurava anche un senatore, il quale effettuava gli acquisti prevalentemente tramite due appartenenti alla Guardia di finanza addetti alla sua scorta, tra cui il ricorrente. Quest'ultimo, in particolare, nel corso delle indagini, aveva contattato telefonicamente in cinque occasioni il soggetto di vertice dell'organizzazione di trafficanti, al fine di ordinare lo stupefacente per conto del senatore.

Tra i motivi di ricorso, l'interessato aveva dedotto la violazione dell'art. 6 della legge n. 140 del 2003, in quanto le telefonate in questione - poste a fondamento della valutazione di gravità degli indizi di colpevolezza a suo carico - erano state effettuate da due utenze (una fissa e una cellulare) in uso al senatore e su suo incarico; con conseguente inutilizzabilità delle relative intercettazioni, per non essere stata seguita la procedura prevista dalla citata disposizione in rapporto alle conversazioni cui prendano parte membri del Parlamento.

Al riguardo, la Corte di cassazione osserva come l'art. 68 Cost. − nel nuovo testo introdotto dall'art. 1 della legge costituzionale 29 ottobre 1993, n. 3 (Modifica dell'articolo 68 della Costituzione) − stabilisca che, senza l'autorizzazione della Camera alla quale appartengono, i membri del Parlamento non possono essere sottoposti «ad intercettazioni, in qualsiasi forma, di conversazioni o comunicazioni». La Corte rimettente premette che alla norma costituzionale è stata data attuazione dalla legge n. 140 del 2003, il cui art. 4 ha disciplinato le modalità di esecuzione - tra l'altro - delle intercettazioni, in qualsiasi forma, di conversazioni o comunicazioni «nei confronti di un membro del Parlamento»: ossia delle intercettazioni c.d. «dirette», cui il parlamentare venga sottoposto “ non soltanto quale indagato, ma anche (si dovrebbe ritenere) quale persona offesa o semplice persona informata sui fatti “ tramite la captazione di conversazioni effettuate su utenze a lui intestate o da lui utilizzate, ovvero con l'esecuzione di intercettazioni ambientali in luoghi nella sua disponibilità o nei quali si reputa egli possa trovarsi.

Trattandosi della norma regolativa dei casi in cui debbano eseguirsi nei confronti del parlamentare provvedimenti idonei ad interferire sullo svolgimento delle sue funzioni, il citato art. 4 dovrebbe considerarsi applicabile – ad avviso della Corte rimettente – anche quando, nell'ambito di indagini riguardanti terze persone, vengano intercettate conversazioni o altre comunicazioni dalle quali possa evincersi una partecipazione al reato del membro del Parlamento. Nel caso di specie, peraltro, la possibilità che il senatore assuma la qualità di persona sottoposta alle indagini resterebbe esclusa, in quanto – come accertato dal giudice della cautela – la sostanza stupefacente acquistata era destinata a suo esclusivo uso personale: e tale destinazione – alla luce dei più recenti orientamenti della giurisprudenza di legittimità – non costituisce una semplice causa di non punibilità , posto che, al contrario, è la destinazione ad uso di terzi ad integrare un elemento costitutivo del delitto di detenzione illecita di sostanze stupefacenti.

La fattispecie concreta andrebbe ricondotta piuttosto alle previsioni dell'art. 6 della legge n. 140 del 2003, che disciplina le «conversazioni o comunicazioni intercettate in qualsiasi forma nel corso di procedimenti riguardanti terzi, alle quali hanno preso parte membri del Parlamento»: vale a dire le intercettazioni c.d. «indirette» o «casuali», così denominate in quanto non aventi ad oggetto l'utenza intestata o in uso al parlamentare, né (in caso di intercettazione ambientale) luoghi nella sua disponibilità . Riguardo a tali intercettazioni, il citato art. 6 prevede, al comma 1, la distruzione dei verbali e delle registrazioni delle conversazioni o comunicazioni che appaiano irrilevanti ai fini del procedimento, prefigurando − sotto tale profilo − una disciplina a tutela della riservatezza del parlamentare del tutto analoga a quella dettata per le persone prive di tale qualità .

La norma stabilisce, invece, al comma 2, che il giudice per le indagini preliminari, qualora, su istanza di una parte processuale e sentite le altre parti, ritenga necessario utilizzare le intercettazioni (ovvero i tabulati di comunicazioni, ipotesi peraltro non rilevante nella specie), debba richiedere “ entro i dieci giorni successivi alla relativa decisione, adottata con ordinanza“ l'autorizzazione della Camera alla quale il membro del Parlamento appartiene. Richiesta che, nella fattispecie in esame, non era stata per contro formulata.

A parere della Corte rimettente, d'altra parte, la nozione di intercettazioni «indirette» o «casuali» non andrebbe intesa – contrariamente a quanto sostenuto dal Procuratore generale di udienza – in senso strettamente letterale, ossia come comprensiva delle sole conversazioni cui prenda parte, direttamente e personalmente, il membro del Parlamento: lettura, questa, che renderebbe inapplicabile l'art. 6 della legge n. 140 del 2003 alle conversazioni oggetto del procedimento a quo, avendo ad esse preso parte personalmente il solo ricorrente, e non anche il senatore. Si potrebbe, difatti, «prendere parte» ad una conversazione o comunicazione non soltanto interloquendo in via personale e diretta; ma anche trasmettendo il proprio pensiero a mezzo di altra persona che si limiti, quale semplice nuncius, a riferire al terzo il messaggio di chi intende comunicare.

Tale diversa interpretazione “della quale non potrebbe neppure affermarsi il carattere estensivo, apparendo consentita dalla lettera della legge“ risulterebbe altresì conforme alla sua ratio: giacchè, se il legislatore ha voluto offrire una particolare tutela alla riservatezza del parlamentare, sarebbe incongruo ritenere che tale tutela venga garantita solo quando egli parla direttamente con la persona sottoposta ad intercettazione; e non anche quando il colloquio avviene tramite una persona incaricata esclusivamente di trasmettere all'interlocutore un messaggio, sul quale il nuncius non attua alcun sindacato o intervento modificativo. Le conversazioni intercettate nel procedimento a quo rientrerebbero proprio in quest'ultima categoria, giacchè, stando alla stessa ordinanza impugnata, il ricorrente si era limitato – valendosi di utenze telefoniche nella disponibilità del senatore“ a trasmettere al venditore l'«ordinazione» della sostanza stupefacente, che doveva essere acquistata dal parlamentare, e a prendere accordi per la sua consegna.

Il tutto sotto le «immediate direttive» del parlamentare medesimo, che “ almeno in un caso (riferito però all'altro dei due appartenenti alla Guardia di finanza di cui egli si serviva) – «sembra» essere stato presente ai colloqui. Di qui, dunque, la rilevanza della questione di legittimità costituzionale del citato art. 6, dalla cui decisione dipenderebbe la legittimità della misura cautelare applicata al ricorrente, in quanto fondata esclusivamente sulle intercettazioni in discussione. Quanto alla non manifesta infondatezza della questione, la Corte rimettente esclude preliminarmente che della norma impugnata possa darsi una interpretazione «costituzionalmente orientata», atta a rimuovere i dubbi di legittimità costituzionale: quale sarebbe, in specie, quella di ritenere che il comma 2 dell'art. 6 si riferisca ai soli casi in cui il parlamentare, a seguito delle intercettazioni, assuma la qualità di persona sottoposta alle indagini.

Tale interpretazione, difatti, oltre ad apparire contraria alla lettera della legge – che non contiene alcun riferimento alla possibilità di utilizzare le intercettazioni nei confronti del parlamentare – risulterebbe espressamente smentita dal comma 1 dello stesso articolo (richiamato dal comma 2), allorchè identifica le intercettazioni ivi regolate in quelle effettuate «nel corso di procedimenti riguardanti terzi». L'ipotesi in cui dall'intercettazione emerga una notizia di reato nei confronti del parlamentare dovrebbe ritenersi in realtà disciplinata, sia pure implicitamente, dall'art. 4: giacché, se è necessaria l'autorizzazione della Camera di appartenenza per sottoporre il parlamentare ad intercettazione, analoga autorizzazione dovrebbe considerarsi richiesta per utilizzare nei suoi confronti intercettazioni «casuali», che, per questa ragione, da «indirette» diverrebbero «dirette».

Inoltre, anche a voler contrariamente opinare sul punto, il riferimento dell'art. 6 ai «procedimenti riguardanti terzi» non consentirebbe comunque di ritenere che la norma attenga esclusivamente ai casi in cui emerga una notizia di reato nei confronti del parlamentare; ma, tutt'al più, che essa attenga sia a tali casi, sia a quelli in cui il procedimento riguardi soltanto il terzo: prospettiva nella quale i dubbi di costituzionalità non verrebbero meno. In tale ottica, infatti, la disposizione impugnata sarebbe andata comunque al di là dei limiti della tutela accordata dall'art. 68, terzo comma, Cost. alla funzione parlamentare: tutela da ritenere circoscritta alle sole intercettazioni «dirette». Deporrebbero in tal senso tanto il tenore letterale della norma costituzionale, che richiede l'autorizzazione per «sottoporre» i membri del Parlamento ad intercettazioni; quanto il suo «impianto complessivo», dal quale trasparirebbe l'intento del legislatore costituente di fornire una protezione speciale del parlamentare per atti da lui direttamente compiuti o che lo riguardano personalmente.

Nè varrebbe far leva, in direzione contraria, sulla locuzione «in qualsiasi forma»: tale locuzione - “ lungi dal potersi considerarsi evocativa delle intercettazioni «indirette» - si riferirebbe soltanto alle diverse modalità di captazione dei messaggi e ai differenti mezzi di comunicazione intercettati (intercettazioni telefoniche, ambientali, di sistemi informatici e telematici, e così via dicendo). Escluso, pertanto, che l'estensione della tutela alle intercettazioni «indirette» possa ritenersi prevista dall'art. 68, terzo comma, Cost., la disciplina introdotta dal legislatore ordinario risulterebbe costituzionalmente illegittima sotto plurimi aspetti.

Sarebbe leso, anzitutto, il principio di uguaglianza. E' vero, infatti, che la previsione di un trattamento differenziato non implica la violazione dell'art. 3 Cost., quando rispecchi la diversità delle situazioni regolate; ma la disparità di trattamento dovrebbe trovare fondamento nell'esigenza di protezione di valori sovraordinati“ o, quanto meno, di pari valore – rispetto a quelli che vengono in rilievo nell'ambito della singola disciplina. Nell'ipotesi in esame, si tratterebbe segnatamente del principio della parità di trattamento rispetto alla giurisdizione: principio che è alle origini della formazione dello Stato di diritto ed immanente al nostro ordinamento, il che spiegherebbe perché il Costituente abbia ritenuto di dover disciplinare analiticamente il sistema delle immunità e delle prerogative dei membri del Parlamento, conscio della deroga che a detto principio veniva in tal modo introdotta. Con la conseguenza che eventuali «tutele privilegiate», le quali trovino giustificazione nella specialità delle funzioni svolte – e implichino, in specie, la subordinazione di un principio fondante dell'ordinamento, come quello in parola, alla tutela della riservatezza – potrebbero essere previste solo da norme costituzionali, e non già da una legge ordinaria.

L'art. 6 della legge n. 140 del 2003 si porrebbe inoltre in contrasto, sotto diverso profilo, con gli artt. 3 e 24 Cost. Esso prevede, infatti, che se l'autorizzazione viene negata, la documentazione delle intercettazioni «è distrutta immediatamente, e comunque non oltre i dieci giorni dalla comunicazione del diniego» (comma 5); e che, in ogni caso, tutti i verbali e le registrazioni di comunicazioni acquisiti in violazione delle disposizioni dello stesso articolo «devono essere dichiarati inutilizzabili dal giudice in ogni stato e grado del procedimento» (comma 6). Poichè la disposizione è destinata ad operare in procedimenti riguardanti persone prive della qualità di parlamentare, il meccanismo così delineato implicherebbe che le predette persone possano andare esenti dalla giurisdizione – e, dunque, evitare di essere perseguite e condannate, anche per reati gravissimi – solo perchè la prova del reato è stata raccolta con l'intercettazione di conversazioni o comunicazioni cui ha preso parte un membro del Parlamento, beneficiando, in pratica, per tale circostanza casuale, di una vera e propria immunità .

Si tratterebbe di una conseguenza sproporzionata rispetto all'entità dell'interesse in gioco “ la privacy del parlamentare“ la cui tutela finirebbe «con l'oscurare completamente il diritto alla prova delle parti»: tanto più che la prevista distruzione della documentazione, entro dieci giorni dal diniego dell'autorizzazione, non consentirebbe neppure alla Camera di rimeditare la propria decisione, alla luce di fatti nuovi. è, d'altra parte, potrebbe ritenersi che il problema trovi soluzione nella possibilità che la Camera conceda l'autorizzazione.

A differenza, infatti, dei casi previsti dal secondo comma dell'art. 68 Cost. – nei quali il parametro per concedere l'autorizzazione dovrebbe identificarsi nel fumus persecutionis, e dunque in un parametro accertabile in concreto volta per volta – nei casi di intercettazione «indiretta» la lesione dell'interesse tutelato (la riservatezza del parlamentare) sarebbe in re ipsa, potendosi discutere soltanto della sua gravità . Ciò renderebbe del tutto discrezionale la valutazione della Camera, con «ovvi riflessi» sulla sua sindacabilità , anche in sede di conflitto di attribuzione, da parte della Corte costituzionale.

(continua).

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