NOTIZIARIO del 05 novembre 2004

 
     

Delibera CSM per il "caso Carnevale"

< parte prima

5. In particolare, suscita fondati sospetti di incostituzionalità la disposizione di legge sopra richiamata che prevede che la riammissione in servizio, in caso di proscioglimento pieno, debba totalmente prescindere dalla valutazione circa la rilevanza disciplinare dei fatti che hanno formato oggetto di procedimento penale, ai fini dell’accertamento, in termini di attualità, della idoneità e delle attitudini del richiedente ad esercitare nuovamente le funzioni. Proprio in adesione alla prospettiva riformatrice assunta dal legislatore con il riconoscimento del diritto al prolungamento o al ripristino del rapporto, sì come illustrata nella relazione al disegno di legge di conversione del decreto – legge, si ritiene che “la tutela risarcitoria in forma specifica” non possa essere accordata in tutti quei casi in cui, al di là del giudizio di responsabilità penale, l’accertamento giudiziale consegni all’area della certezza storica la sussistenza di condotte che siano passibili di valutazione in termini di rilevanza disciplinare; in tutti quei casi, dunque, in cui non possa dirsi che la sospensione o l’abbandono anticipato dell’impiego siano stati pienamente ingiusti, secondo quell’accezione di sostanziale ingiustizia che sottende all’intervento riformatore.

Pur con una sentenza definitiva che escluda la sussistenza del fatto storico dedotto in imputazione, non può escludersi che in sede penale siano stati accertati alcuni profili, meglio alcune modalità della condotta umana di cui si compone l’accusa, che, immutata la ricostruzione storica, non si sottraggono ad un giudizio di rilevanza disciplinare. Occorre poi tener presente che, a volte, la norma penale incriminatrice descrive il fatto rilevante con il ricorso a formule, in cui il dato naturalistico dell’ accadimento non è specificamente individuato ed è espresso mediante espressioni di sintesi di tipo normativo. Il caso esemplificativo è quello della norma incriminatrice del delitto di associazione per delinquere, in cui il fatto penalmente rilevante imputabile ad un soggetto è descritto, nell’ipotesi base, con il temine di partecipazione all’associazione.

La nozione di partecipazione non fa rinvio diretto a specifici profili naturalistici del comportamento umano da valutare in termini di rilevanza penale, e necessita della mediazione giudiziale per l’individuazione dei fatti e dei comportamenti che, nel caso concreto, possano concorrere a dare contenuto specifico alla nozione di partecipazione. Si ha allora che alla dichiarazione di insussistenza del fatto di partecipazione all’associazione può ben accompagnarsi l’accertamento di taluno o più dei fatti sintomatici, concludenti, posti a base di una più ampia inferenza probatoria. Inoltre, non deve trascurarsi che in termini più generali è corretta la distinzione tra la nozione di fatto, inteso come nucleo dell’addebito descritto in imputazione, e la categoria dei fatti, che compongono il tema di prova dell’accertamento penale.

Il tema di prova ben può essere più ampio ed involgere fatti, la cui accertata sussistenza non si risolve sempre e comunque in un giudizio storico di sussistenza del fatto descritto in imputazione, sì che ben può aversi il caso in cui alla insussistenza del fatto imputato si accompagni un giudizio di sussistenza di altri fatti e circostanze, che legittimamente hanno concorso a formare il tema di prova di quell’ accertamento. Proprio per le ragioni appena riassunte il sistema di ordinamento giudiziario regola gli effetti dell’accertamento penale sul giudizio disciplinare in modo da non escludere che ad una pronuncia definitiva in sede penale, anche determinata dall’insussistenza del fatto di imputazione o dall’accertamento dell’estraneità del fatto all’imputato, possa seguire, per gli stessi fatti che hanno formato il tema di prova in sede penale, un giudizio disciplinare.

Tanto si ricava dall’art. 29 R. D. L.vo 31 maggio 1946, n. 511, ove si prevede che il magistrato prosciolto in sede penale con qualsiasi formula diversa da quella dell’insufficienza probatoria, ora non più prevista, o da quelle determinate dall’affermazione di una causa estintiva del reato o dell’impromovibilità o improseguibilità dell’azione penale, può essere sottoposto a procedimento disciplinare, sol che i titolari dell’azione disciplinare decidano in tal senso, promuovendo appunto l’azione. Lo stesso articolo contiene poi la previsione, secondo cui nel procedimento disciplinare fa sempre stato l’accertamento dei fatti che formano oggetto del giudizio penale, risultanti dalla sentenza passata in giudicato. Il riferimento è ovviamente ai fatti che costituiscono la descrizione storica dell’imputazione ed ai fatti che con l’imputazione siano in relazione probatoria, ai fatti cioè che vengono assunti come premessa di inferenze probatorie direttamente collegate alla fattispecie di imputazione e che, per tale funzione, sono a loro volta oggetto di prova.

Né può tralasciarsi di rilevare che, secondo una recente decisione delle sezioni unite (sentenza 21 luglio 2004, n. 13602) la diversità della disciplina processuale del procedimento disciplinare, nel quale trova applicazione il c.p.p. del 1930, rispetto a quella del processo penale, influisce anche sul regime dell’utilizzabilità delle prove testimoniali, con la conseguenza che in sede disciplinare sono utilizzabili le testimonianze dei componenti del collegio sulle opinioni e i voti espressi in camera di consiglio. Gli orientamenti della giurisprudenza della Sezione disciplinare del Csm e delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, peraltro, sono conformi alle affermazioni fatte in linea generale circa i rapporti tra processo disciplinare e processo penale.

La Sezione disciplinare del Csm ha più volte affermato che il giudicato penale di assoluzione con la formula più ampia, per insussistenza del fatto, non inibisce al giudice disciplinare la valutazione autonoma degli accadimenti sì come accertati in sede penale nella loro storicità secondo un criterio, quello disciplinare appunto, strutturalmente più rigoroso. Ha quindi chiarito che il giudice disciplinare “ben può valutare la rilevanza di circostanze di fatto, oggetto di contestazione disciplinare, che risultino accertate all’esito del giudizio penale, anche se tali circostanze siano state giudicate non influenti per l’ affermazione della responsabilità penale dell’imputato, assolto per insussistenza del fatto” – sentenza n. 132/99 reg. dep. del 17 dicembre 1999 -.

Sul valore del giudicato penale nel giudizio disciplinare si è pronunciata anche la Corte di Cassazione, nella composizione delle sezioni unite, affermando che il significato della disposizione dell’art. 29 R. d.lgs. n. 511 del 1946 consiste nella prescrizione di effetti vincolanti dell’accertamento dei fatti ricostruiti dal giudice penale “in diretta connessione ideologica con la sua pronuncia e quale indispensabile premessa del decisum sull’intera contestazione”, rendendo così obbligatoria l’utilizzazione in sede disciplinare del materiale probatorio anteriormente acquisito dal giudice penale – sentenza n. 3304/1998 del 22 gennaio 1998 -. Con successiva pronuncia la Corte di Cassazione, a sezioni unite, ha ribadito che l’unico limite derivante dal giudicato penale per il giudice disciplinare è quello di non poter ricostruire l’episodio posto a fondamento dell’ incolpazione in modo diverso, ferma restando la piena libertà di valutare i medesimi accadimenti nell’ottica, indubbiamente più rigorosa, dell’illecito disciplinare – sentenza n. 1120/2000 del 15 giugno 2000 -.

Il fondamento giustificativo di siffatta libertà di valutazione del giudice disciplinare, da rispettarsi anche in casi di esito pienamente favorevole all’incolpato del giudizio penale, si rinviene in alcune considerazioni di una recente pronuncia della Corte di Cassazione, a sezioni unite. La Corte di Cassazione muove dalla considerazione della natura di norme cd. elastiche o atipiche delle previsioni dell’illecito disciplinare dei magistrati per concludere che l’accertamento del comportamento disciplinarmente rilevante è il frutto del ricorso a concetti di valore, desumibili dai modelli e clausole generali delle norme di legge, con l’ ulteriore osservazione che il potere di adattare la previsione astratta al caso concreto è affidato dall’ordinamento solamente ed esclusivamente al giudice disciplinare del merito, quindi al Csm – sentenza n. 15399/2003 del 10 luglio 2003 -.

L’incongruenza della disciplina in oggetto appare ancor più evidente ed irragionevole se confrontata con la disposizione della stessa legge che, nel caso di proscioglimento con formule meno favorevoli, condiziona la riammissione in servizio all’ accertamento negativo in ordine alla ricorrenza di “elementi di responsabilità disciplinare o contabile” Se, infatti, la valutazione di insussistenza di elementi di responsabilità disciplinare da parte del Consiglio è presupposto indispensabile per la riammissione in servizio in taluni casi, l’omessa previsione di un analogo intervento consiliare in altri si sostanzia non solo in una scelta legislativa priva, come si è visto, di basi sostanziali idonee a giustificarla, ma rappresenta l’ulteriore riprova che tale valutazione è “fornita per legge”, ovvero sottratta all’organo di autogoverno della magistratura. In conclusione si ritiene che la preclusione normativa, nei confronti del Consiglio Superiore, ad un’indagine diretta a verificare se l’accertamento penale, pur favorevole all’interessato, abbia fatto residuare aspetti rilevanti al fine di stabilire l’idoneità attuale ad esercitare le funzioni giurisdizionali, si risolva in una compressione delle attribuzioni costituzionali del medesimo Consiglio superiore, sottraendogli quel potere discrezionale che la Costituzione gli ha specificatamente attribuito in funzione di autogoverno dell’ordine giudiziario.

6. Una ulteriore compromissione delle attribuzioni costituzionali del Consiglio Superiore della magistratura si riscontra a proposito della disposizione di cui all’ art. 2, comma 3, del decreto legge n. 66 del 2004, laddove stabilisce che al magistrato riammesso in servizio venga conferita, in caso di anzianità non inferiore a dodici anni nell’ultima funzione esercitata, anche in soprannumero una funzione di livello immediatamente superiore, previa mera valutazione della sola anzianità di ruolo e delle attitudini desunte dalle ultime funzioni esercitate, e, nel caso di anzianità inferiore, una funzione, anche in soprannumero, dello stesso livello. Nel caso di domanda dell’interessato di conferimento di funzioni di livello superiore, il Consiglio, in presenza delle condizioni previste dalla norma, è chiamato ad assumere un provvedimento di promozione potendo unicamente valutare l’anzianità di ruolo del magistrato al momento della cessazione dal servizio e le sue attitudini “desunte dalle ultime funzioni esercitate”. Per contro rimane ad esso sottratto ciò che è il proprium della valutazione discrezionale in questa fattispecie, vale a dire l’idoneità specifica, in concreto, del magistrato a rivestire quelle determinate funzioni in relazione al posto richiesto.

Una tale valutazione non appare infatti recuperabile alla luce dei parametri valutativi indicati dalla norma, che interessano la sola anzianità di ruolo e le attitudini dimostrate nelle ultime funzioni esercitate, posto che comunque questa valutazione del Consiglio, di per sé già monca, non può non apparire condizionata dal diritto alla promozione conferito al magistrato dalla legge. Il vulnus al potere del Consiglio Superiore di assegnazione delle funzioni ai magistrati, riconosciuto dall’art. 105 con l’ampia formula di assegnazioni, trasferimenti e promozioni, si colora ulteriormente per la obliterazione degli ordinari parametri valutativi, fondati sulle attitudini, il merito e l’anzianità, e del criterio comparativo (art. 192 ordinamento giudiziario), nonché del vaglio, in caso di mutamento di funzioni da giudicanti a requirenti e viceversa, in ordine alla specifica idoneità all’ esercizio di funzioni diverse (art. 190 ordinamento giudiziario), profili che rappresentano tutti il risultato di una implementazione nel tessuto normativo dei principi che governano il corretto esercizio della funzione giurisdizionale.

La previsione normativa, in entrambe le ipotesi di maggiore o minore anzianità di servizio nelle ultime funzioni esercitate, di conferimento di una funzione appare inoltre implicare il riconoscimento al magistrato riammesso di un vero e proprio diritto alla scelta del posto. Anche in questo caso, pertanto, si riscontra una sottrazione delle attribuzioni del Consiglio Superiore, rientrando nel potere di assegnazione dei magistrati, quale antecedente logico necessario, anche il potere di scelta dei posti da assegnare. La previsione, quindi, ha l’effetto di sottrarre al Consiglio Superiore anche quella discrezionalità che gli è propria nella organizzazione giudiziaria, ispirata all’attuazione del principio del di cui all’art. 97 Costituzione. L’attribuzione in soprannumero ad uffici che in pianta organica hanno un solo posto o poche unità o in cui comunque non vi sarebbe né necessità né urgenza di copertura rappresenta una evidente deroga ai principi di efficienza della organizzazione degli uffici, che finisce per comprimere quella funzione di buon governo della giurisdizione cui pure sono finalizzate le attribuzioni costituzionali del Consiglio superiore della magistratura.

7. Alla luce di tali argomentazioni, si ritiene doveroso elevare conflitto dinanzi alla Corte Costituzionale, apparendo evidente la sussistenza di un interesse del Consiglio ad una decisione sulla spettanza delle proprie attribuzioni. Il Csm, in quanto organo abilitato ad esercitare attribuzioni proprie conferite dalla Costituzione, ed in particolare dall’art. 105, può essere parte di un conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato, come la Corte Costituzionale ha più volte affermato, da ultimo con l’ordinanza n. 112 del 12 marzo / 2 aprile 2003 di ammissibilità di un conflitto di attribuzioni proposto dal Csm nei confronti del Ministro della Giustizia. La natura dell’atto con cui si ritiene sia consumata la violazione delle attribuzioni costituzionali del Csm non è poi di ostacolo alla proposizione di un conflitto tra poteri dello Stato. Ed infatti, sulla possibilità che lo strumento del conflitto sia utilizzato nei confronti della legge o del decreto legislativo si è diffusamente pronunciata la Corte Costituzionale nella sentenza n. 457/99, di risoluzione di un conflitto di attribuzione proposto dalla Corte dei conti nei confronti del Governo della Repubblica, e contro i Ministri del Tesoro, per l’Università e la ricerca scientifica, per la funzione pubblica, dell’ industria, commercio e artigianato e dell’ambiente, in relazione ai decreti legislativi 30 gennaio 1999, n. 19, n. 27 e n.36, nella parte in cui era limitato il potere di controllo della Corte dei Conti ed era quindi escluso il controllo amministrativo di regolarità contabile e sui singoli atti di gestione.

La Corte Costituzionale ha così osservato che il conflitto costituzionale è preordinato alla garanzia dell’integrità della sfera di attribuzioni determinata per i vari poteri dalla Costituzione, “senza che, né dalla disciplina costituzionale né da quella legislativa, si dia alcun rilievo alla natura degli atti da cui possa derivare la lesione dell’ anzidetta <>”. La giurisdizione costituzionale sui conflitti è determinata in relazione alla natura dei soggetti in conflitto e non comporta un giudizio sulla legittimità degli atti, pur se alla soluzione del conflitto possa seguire l’annullamento dell’atto lesivo. La giurisdizione sui conflitti è garanzia dell’ordine costituzionale delle competenze, quale che sia la natura dell’atto a cui sia in ipotesi ascrivibile la lesione delle competenze medesime. Dalla pur corretta affermazione, contenuta nella sentenza n. 406 del 1989, circa la previsione nel sistema di giustizia costituzionale del sindacato incidentale come mezzo specificamente posto, nella generalità dei casi, per il controllo di costituzionalità delle leggi, non può derivare “l’esclusione assoluta dell’ ammissibilità di conflitti di attribuzione prospettati in relazione alla definizione delle competenze operata con legge – con l’eventualità che all’invalidazione di tale atto si possa giungere anche all ’esito di un giudizio su conflitto di attribuzione-…”.

Dal valore generale ed al contempo specifico del giudizio incidentale sulle leggi “deriva invece soltanto che deve escludersi, nella normalità dei casi, l’ esperibilità del conflitto tutte le volte che la legge, dalla quale, in ipotesi, deriva la lesione delle competenze, sia denunciabile dal soggetto interessato nel giudizio incidentale, come accade di norma quando l’ usurpazione o la menomazione del potere costituzionale riguardi l’autorità giudiziaria, nell’esercizio delle sue funzioni….”. In forza delle argomentazioni della Corte Costituzionale qui riassunte si trae che, nel caso in cui la legge asseritamente lesiva dell’ordine costituzionale delle competenze chiami alla sua applicazione proprio l’organo le cui attribuzioni si ritengano lese, non è dato altro rimedio che la denuncia di un conflitto tra poteri per tutelare l’ordine delle competenze disegnato dalla Costituzione. E’ logicamente conseguente ritenere che la proposizione del conflitto ben possa precedere l’applicazione della norma da parte dell’organo, le cui competenze costituzionali siano da essa presuntivamente lese, come peraltro ha affermato la Corte Costituzionale nella motivazione della sentenza n. 406 del 1989, che era espressione del precedente orientamento contrario all’ammissibilità di un conflitto tra poteri dello Stato su di una legge od atto equiparato.

In quel contesto argomentativo si affermava che l’inammissibilità del conflitto seguiva tra l’altro alla considerazione secondo cui in un sistema giuridico ispirato all’idea portante della preminenza della legge e degli atti equiparati, riferibili “al più alto livello di rappresentatività politica generale….ed al più alto livello di autonomia..”, fosse coerente sottrarli in linea generale “ad iniziative volte ad ostacolarne, in via preventiva, l’efficacia..” In forza di un semplice ragionamento a contrariis, una volta ammesso il conflitto tra poteri su di una legge od atto equiparato, è corretto concludere che la proposizione del conflitto giovi proprio ad evitare che della legge asseritamente incostituzionale, perché lesiva del riparto di competenze, sia data applicazione.

Il Consiglio delibera in relazione alle disposizioni di cui all’art. 3, comma 57, legge n. 350 del 2003 e art. 2, comma 3, decreto legge n. 66 del 2004, convertito con legge n. 126 del 2004, l’elevazione di un conflitto di attribuzioni con il Parlamento avanti alla Corte costituzionale, dando mandato al Vice Presidente del Consiglio Superiore della Magistratura di conferire incarico ad uno o più avvocati del libero Foro, affinché proponga il ricorso e sostenga le ragioni del Consiglio dinanzi alla Corte.

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