NOTIZIARIO del 05 novembre 2004

 
     

Ulteriore puntata del "caso Carnevale"
nota a cura di red

Quella che segue e' la delibera per un ricorso di fronte alla Corte Costituzionale per conflitto di attribuzione di poteri fra CSM e parlamento adottata dalla competente commissione del Consiglio Superiore della Magistratura.

Il caso che ha generato la controversia e' la decisione del parlamento di riammettere nella funzione, dopo il pensionamento, il magistrato Corrado Carnevale, gia' condannato e poi assolto in via definitiva.

Il testo e' d'interesse sia con riferimento al contesto giudiziario nel momento attuale e delicato che attraversano i rapporti tra le diverse Istituzioni, sia per alcune argomentazioni del CSM, applicabili a casi analoghi in altre sedi.

Istanza di riammissione nell'ordine giudiziario del dott. Corrado CARNEVALE, gia' magistrato. (relatore Avv. MAROTTA) Proposta di maggioranza (Rel.Dott.SALVI)

La Commissione propone, con quattro voti a favore, l’adozione della seguente delibera:

1. Il dott. Corrado Carnevale ha chiesto di essere ricollocato in ruolo con attribuzione delle funzioni di presidente aggiunto della Corte di Cassazione ai sensi della legge 24 dicembre 2003, n. 350 e successive modificazioni. Il Csm in sede amministrativa, ritenendo che la disciplina della quale si chiede l’applicazione,sia di per sé lesiva della propria sfera di attribuzioni garantita dall’art. 105 Cost. non ha altro strumento per far valere il vizio di illegittimità costituzionale che quello di sollevare conflitto di attribuzioni per le ragioni che di seguito sono indicate. Ora, l’art. 3, comma 57 della legge n. 350 del 2003, così come modificata ed integrata dal decreto legge n. 66 del 16 marzo 2004 e dalla successiva legge di conversione n. 126 del 2004, prevede che il pubblico dipendente già sospeso dal servizio o che abbia chiesto il collocamento in quiescenza a seguito di un procedimento penale poi conclusosi con sentenza definitiva di proscioglimento possa richiedere alla “amministrazione di appartenenza il prolungamento o il ripristino del rapporto di impiego, oltre i limiti di età previsti dalla legge,per un periodo pari a quello della durata complessiva della sospensione ingiustamente subita”.

Il testo normativo distingue la posizione giuridica dell’interessato a seconda che il provvedimento di proscioglimento sia stato adottato con formula assolutoria piena (perché il fatto non sussiste, l’imputato non lo ha commesso, il fatto non costituisce reato, non è previsto come reato ovvero la notitia criminis sia stata archiviata per infondatezza: art. 3, comma 57) o con formule assolutorie diverse (art. 3, comma 57 bis): nel primo caso la legge appare attribuirgli un vero e proprio alla riammissione o al prolungamento del rapporto di impiego (art. 3, comma 57), nel secondo, invece, riconosce all’ amministrazione la facolta' di valutare la sua richiesta al fine di verificare se “risultino elementi di responsabilità disciplinare o contabile” (art. 3, comma 57 bis), rimettendo quindi l’esito della domanda all’apprezzamento discrezionale dell’amministrazione.

L’art. 2, comma 3, del decreto legge n. 66 del 2004 disciplina la fattispecie del ripristino del rapporto di impiego con riguardo ai magistrati ordinari. La specificità della disciplina interessa le modalità del ripristino, con riguardo alla assegnazione delle funzioni al magistrato riammesso. Si stabilisce che, nell’ipotesi di proscioglimento pieno, il magistrato che al momento dell’anticipato collocamento in quiescenza abbia maturato nell’ultima funzione esercitata un’anzianità non inferiore a dodici anni, sia destinato, “anche in soprannumero, ad una funzione di livello immediatamente superiore a tale ultima funzione, previa valutazione, da parte dello stesso Consiglio, dell’anzianità di ruolo al momento della cessazione dal servizio e delle attitudini desunte dalle funzioni da ultimo esercitate“, con il limite che “non possono, tuttavia essere attribuite funzioni di livello superiore a presidente aggiunto o procuratore generale aggiunto della Corte di cassazione, nonché funzioni apicali di uffici giudiziari di qualsiasi livello”. In ipotesi di anzianità inferiore a dodici anni, gli èinvece conferita, “anche in soprannumero, una funzione dello stesso livello di tale ultima funzione”.

Nel caso, infine, di proscioglimento con una formula meno favorevole, “al magistrato riammesso in servizio è conferita, se possibile e comunque nell’ambito dei posti disponibili, una funzione dello stesso livello di quella da ultimo esercitata”. Merita da ultimo segnalare, a conclusione di questa breve premessa sul nuovo dettato normativo, che la ratio dell’intervento legislativo va sicuramente individuata nell’esigenza di “apprestare una tutela risarcitoria in forma specifica a soggetti che abbiano effettivamente subito una ingiusta sospensione o che siano stati indotti ad abbandonare il pubblico impiego in ragione di un procedimento penale conclusosi con la loro assoluzione” (così la relazione al d.d.l. di conversione del decreto legge sopra citato).

Tale esigenza è pienamente condivisa dal C.S.M., essendo ispirata ad evidenti ragioni di equità, anche se la specificità del rapporto d’impiego dei magistrati ordinari, espressamente affermata in via generale dall’art. 276, 3° comma ord. giud. (che ritiene applicabili ai magistrati le disposizioni generali sul pubblico impiego, “solo, in quanto non contrarie al presente ordinamento”) e ribadita nella disciplina esaminata, anche alla luce dell’insegnamento della Corte Costituzionale (sentenza n. 100 del 1981), impone di verificare la compatibilità della tutela risarcitoria apprestata con la necessità del bilanciamento delle situazioni giuridiche soggettive del magistrato con le garanzie costituzionali che attengono all’esercizio della funzione (imparzialità, indipendenza, credibilità).

2. L’applicazione della disciplina sopra richiamata, ha costituito tema di approfondito confronto in seno alla Commissione e nell’ambito di una riunione congiunta con la Terza e Quinta Commissione. Sono stati anche raccolti diversi pareri dell’Ufficio Studi (in particolare, la relazione n. 155/2004 ed il parere collegiale n. 732/2004), che ricostruiscono gli aspetti più problematici o di maggiore criticità del testo normativo e forniscono argomentate soluzioni che in larga parte la Commissione reputa di condividere. Al riguardo, nel dare atto che la legge si rivolge espressamente anche al personale della magistratura ordinaria ed individua correttamente nel Consiglio superiore della magistratura l’istituzione competente a disporre il provvedimento di ripristino del rapporto di lavoro, la Commissione, all’esito dei suoi lavori, è giunta alla conclusione che la normativa in questione introduca, in taluni aspetti, disposizioni non in linea con il dettato costituzionale che disciplina l’assetto dell’ordine giudiziario e, all’interno di esso, ritaglia, in posizione centrale e decisiva, le attribuzioni del Consiglio superiore della magistratura.

In particolare, il Consiglio ravvisa fondati motivi per dubitare, in relazione alle proprie attribuzioni costituzionali, della compatibilità dell’art. 3, comma 57, legge n. 350 del 2003 e dell’art. 2,comma 3, del decreto legge n. 66 del 2004, nella parte in cui prevedono che il Consiglio debba, senza procedere ad alcuna valutazione, riammettere in servizio il magistrato prosciolto in sede penale con una formula piena dopo che questi sia volontariamente cessato, a causa di tale pendenza, dall’ordine giudiziario, e laddove stabiliscono che a questi venga conferita, in caso di anzianità non inferiore a dodici anni nell’ultima funzione esercitata, una funzione di livello immediatamente superiore, previa mera valutazione della sola anzianità di ruolo e delle attitudini desunte dalle ultime funzioni esercitate, e, nel caso di anzianità inferiore, una funzione, anche in soprannumero, dello stesso livello. Va in proposito subito chiarito, come del resto apparirà chiaro dalle ragioni che si illustreranno, che i sospetti di incostituzionalità riscontrati attengono all’incidenza di tali disposizioni sul rapporto funzionale dei magistrati, cioè sul conferimento delle funzioni che,in ipotesi, colui che venisse riammesso in servizio sarebbe chiamato di nuovo ad espletare. È bene premettere e sottolineare che nessun ostacolo, in astratto e in linea generale, si potrebbe ravvisare ai fini della ricostituzione del rapporto di servizio che lega i magistrati alla propria amministrazione, nella parte in cui può assimilarsi a quello degli altri dipendenti pubblici.

Le ragioni di perplessità, in sostanza, nascono proprio dalla considerazione della peculiarità delle funzioni magistratuali. Infatti, come si è già rilevato, il Consiglio superiore non intende affatto mettere in discussione, ma rispettare pienamente l’intento e la ratio risarcitoria che hanno animato l’ intervento legislativo, ma intende sollevare, a tutela delle proprie prerogative, vizi di incostituzionalità in ordine all’applicazione - nei confronti dei magistrati - di taluni profili della sua disciplina, nella parte in cui l’effetto risarcitorio esula dal mero ripristino del rapporto di servizio (comune alla sfera dell’impiego pubblico) ed investe invece la funzione giurisdizionale, che trova sul piano costituzionale – prima ancora che su quello della legge ordinaria – la sua primaria rilevanza. Invero, le esigenze di tutela individuale, se possono prevalere sul piano del rapporto di servizio e realizzare, tramite il ripristino dello stesso, pieno effetto restitutorio, debbono invece cedere in una valutazione su di un diverso e più elevato piano - di livello costituzionale - che attiene a principi fondamentali dello Stato e ad interessi generali. Proprio il rilievo che i dubbi sorti attengono al rapporto funzionale dei magistrati, ha anzi provocato in Commissione una discussione in ordine alla possibilità, al fine di sperimentare ogni ipotesi per dare comunque attuazione, anche se parziale, al disposto normativo, di provvedere sulla domanda di riammissione ai fini della ricostituzione del solo rapporto di servizio, senza procedere anche alla assegnazione delle funzioni giudiziarie, in attesa che i dubbi sollevati trovino definizione nella sede competente.

Tale ipotesi, tuttavia, si è mostrata, ad un più approfondito esame, non praticabile, in quanto non appare giuridicamente possibile una riammissione in servizio senza attribuzione contestuale del posto e della funzione assegnata, attesa l’inscindibilità del rapporto funzionale dal rapporto di servizio. In questo senso depone la considerazione che la riammissione in servizio ha come effetto tipico il ripristino del rapporto di lavoro, il quale non può svolgersi senza l’individuazione delle effettive prestazioni del dipendente. Ne dà conferma la legislazione in materia di pubblico impiego, che chiaramente lega l’esito del provvedimento di riammissione alla assegnazione del posto in organico (art. 132 d.p.r. n. 3 del 1957; art. 10 legge n. 19 del 1990; art. 211 ordinamento giudiziario).

3. Il Consiglio Superiore della Magistratura ritiene che le disposizioni sopra menzionate, contenute nell’art. 3, comma 57, legge n. 350 del 2003 e nell’art. 2, comma 3, decreto legge n.66 del 2004, come integrato dalla successiva legge di conversione, siano lesive delle attribuzioni e della funzione che ad esso sono conferite dalla Costituzione. Nell’illustrare tale posizione, il necessario punto di partenza deve trarsi dalla considerazione del particolare status giuridico attribuito dalla Carta costituzionale ai magistrati, che, se nel loro rapporto di servizio con l’Amministrazione appaiono, come già si è sottolineato, in larga parte assimilabili agli altri dipendenti pubblici, da essi si distinguono proprio in ragione delle particolari funzioni che esercitano. La differenza è scolpita dall’art. 104 della Costituzione, ove si afferma che “La magistratura costituisce un ordine autonomo ed indipendente da ogni altro potere “.

La formula usata dal Costituente sta sicuramente ad indicare che la funzione giurisdizionale si caratterizza per il massimo grado di autonomia e di indipendenza dell’ordine che è chiamato ad esercitarla. Si tratta, è appena il caso di notare, di condizioni che non ineriscono a privilegi personali del magistrato, ma sono espressione dei caratteri che deve possedere lo stesso esercizio della funzione giurisdizionale e si collegano, pertanto, agli interessi generali e pubblici del corretto esercizio della giurisdizione, che trovano fondamento primario e diretto nella Carta costituzionale. Invero, autonomia ed indipendenza dell’ordine giudiziario trovano realizzazione nelle disposizioni che istituiscono il Consiglio superiore della magistratura e ne indicano le attribuzioni (significativamente collocate all’interno dello stesso l’art. 104 Cost. e negli articoli successivi). L’art. 105 Cost., in particolare, stabilisce: “Spettano al Consiglio Superiore della Magistratura, secondo le norme sull’ordinamento giudiziario, le assunzioni, le assegnazioni ed i trasferimenti, le promozioni e i provvedimenti disciplinari nei riguardi dei magistrati”. La ratio per la quale, radicalmente immutando il sistema precedente, la Costituzione ha conferito le indicate attribuzioni al Consiglio Superiore della Magistratura va ricercata nell’esigenza di garantire l’autonomia e l’indipendenza dell’ordine giudiziario. Il complesso delle indicate competenze dà vita ad una funzione che, nella sua tipicità e generalità, è tesa a garantire e a realizzare nel concreto le condizioni per un corretto esercizio della giurisdizione.

La dottrina costituzionale ha invero da tempo sottolineato che gli atti che intervengono sullo status giuridico dei magistrati, sia dal punto di vista dell’organo chiamato ad adottarli, che con riferimento al loro contenuto, rimangono condizionati dalla caratterizzazione di tale status in rapporto alla garanzia dell’autonomia e dell’indipendenza dell’ordine. Il necessario corollario sta nel carattere di esclusività delle attribuzioni del Consiglio Superiore, essendo questa la condizione necessaria ed ineliminabile per salvaguardare appieno i valori dell’autonomia e dell’indipendenza dell’ordine giudiziario da ogni altro potere dello Stato. L’attuazione di una siffatta esigenza si presenta, infatti, incompatibile con la previsione di interventi ad opera di altri poteri ed in ciò sta la ragione del conferimento in via assoluta ed esclusiva delle indicate competenze al Consiglio Superiore. Si richiamano in proposito i preziosi chiarimenti forniti dalla Corte Costituzionale in merito alla portata dell’atto di concerto del Ministro della Giustizia previsto per la nomina agli uffici direttivi (art. 11 legge n. 195 del 1958), giustificato esclusivamente, in questa singola fattispecie, dalle competenze riconosciute al Ministro in materia di organizzazione dei servizi relativi alla giustizia (art. 110 Cost.), atteso il particolare contenuto delle funzioni direttive, e tale da non intaccare, una volta posta in essere la doverosa interlocuzione con il Ministro, il potere di nomina del Consiglio Superiore (sentenze n. 379/1992 e 380/2003).

Più delicato appare invece il problema del rapporto tra attribuzioni del Consiglio e potere legislativo. Al riguardo il richiamo necessario è ancora all’art. 105, laddove precisa che le attribuzioni ivi indicate spettano al Consiglio “secondo le norme sull’ ordinamento giudiziario”. L’inciso può essere, almeno all’apparenza, non sufficientemente chiaro e potrebbe forse autorizzare interpretazioni fuorvianti e limitative del ruolo e delle competenze del Consiglio Superiore. Se ne potrebbe ad esempio riduttivamente arguire che in tanto queste attribuzioni possono essere esercitate in quanto ciò disponga la relativa legge in materia, la quale, altresì, potrebbe liberamente regolarle, fino a configurarle, in fattispecie sufficientemente specificate, come veri e propri atti dovuti. Il potere relativo all’adozione di determinati atti si risolverebbe, in questo caso, in un mero procedimento di imputazione soggettiva, al più preceduto dalla mera verifica delle condizioni di fatto richieste dalla legge per la produzione di un determinato effetto giuridico. E ciò perché, nello specifico, in relazione alle disposizioni normative che disciplinano la riammissione in servizio dei magistrati prosciolti in sede penale, non sarebbe d’altra parte difficile dimostrare che la relativa legge introduce norme che in senso oggettivo, con riguardo cioè al loro obiettivo contenuto, vanno a regolare situazioni che appartengono alla materia di ordinamento giudiziario.

L’interpretazione appena prospettata si appalesa, tuttavia, largamente insoddisfacente, perché non aderente allo spirito della Carta costituzionale, fondato sul principio della tripartizione dei poteri. Se, invero, si ha riguardo all’impianto complessivo delle norme costituzionali in materia, chiaramente animate dalla preoccupazione di salvaguardare l’autonomia e l’indipendenza dell’ordine giudiziario dagli altri poteri dello Stato, non può che ritenersi come tali valori debbano caratterizzare lo stesso contenuto dei provvedimenti incidenti sullo status dei magistrati e che tale salvaguardia trovi il suo esclusivo canale di realizzazione proprio nella attribuzione sostanziale ad adottare tali atti al Consiglio superiore della magistratura. La riserva di legge posta dall’art. 105 riguarda innanzi tutto, anche storicamente, il potere esecutivo. Essa interessa, poi, lo stesso Consiglio Superiore, dal momento che richiama l’esigenza di legalità dell’esercizio dei suoi poteri e attribuzioni.

La norma sta a rappresentare, pertanto, la necessità che il potere del Consiglio Superiore sia definito attraverso precise indicazioni legislative ed attuato, quindi, nella loro osservanza. In tal modo si è voluto sottolineare che le funzioni attribuite al Consiglio non sono libere, ma hanno natura discrezionale, al pari di ogni altro potere conferito in vista della realizzazione di un particolare interesse pubblico. La spettanza delle attribuzioni, in uno con il carattere di separatezza e di autonomia dell’ organo, segnalano però anche che la legge deve lasciare al Consiglio Superiore il necessario margine di discrezionalità nell’assunzione dei provvedimenti che incidono sul corretto ed efficace esercizio della giurisdizione, senza poter imporre atti o comportamenti dovuti in relazione a situazioni specifiche e concrete. L’eliminazione di ogni discrezionalità si traduce infatti nell’esclusione del potere, in capo al soggetto che agisce, di valutare la corrispondenza del singolo atto all’interesse pubblico specifico che esso deve rispettare e soddisfare. Sotto il profilo sostanziale l’atto non potrebbe allora che essere riferito al soggetto che lo impone, vale a dire, nella specie, al potere legislativo, cioè ad un soggetto diverso da quello previsto dalla Costituzione.

Insomma, com’è contrario alla Costituzione che il Csm sia lasciato libero nell’espletamento dei suoi compiti per l’assenza di previsioni legislative o per la loro eccessiva vaghezza, così è parimenti difforme dalla Costituzione che il legislatore si impegni nella costruzione di fattispecie composte unicamente da elementi di fatto passibili in concreto soltanto di essere verificati nella loro esistenza storica, privando conseguentemente l’ intervento consiliare di ogni spazio di discrezionalità valutativa. Il carattere necessariamente generale ed astratto della norma di legge non entra qui in alcuna considerazione, né comunque costituisce un correttivo idoneo, valendo, al più, ai fini del rispetto dell’uguaglianza formale, ma non certo ad impedire quella compromissione di attribuzioni che qui si riscontra, ma semmai, generalizzandola, producendo, proprio per la generalità della norma, effetti ancora più vistosi.

4. Le ragioni sopra indicate inducono a dubitare ragionevolmente della legittimità costituzionale delle disposizioni di legge che il Consiglio Superiore è chiamato ad applicare nella parte in cui esse prevedono che il Consiglio Superiore della Magistratura debba, senza alcun margine di discrezionalità, riammettere in servizio il magistrato richiedente e conferirgli le funzioni giudiziarie richieste. L’atto che si chiede di emanare, sia dal punto di vista soggettivo che oggettivo, rientra, infatti, tra quelli specificatamente riservati dall’art. 105 alla competenza esclusiva del Consiglio, a cui verrebbe sottratto qualsiasi potere di valutazione in ordine alla attuale idoneità del richiedente a svolgere nuovamente le funzioni giudiziarie ed in ordine alla sua idoneità specifica a ricoprire il posto richiesto.

Si consideri, al riguardo, che negli altri casi in cui la legge consente la riammissione in servizio dei magistrati (art. 211 ordinamento giudiziario), al pari di tutti gli altri casi in cui al magistrato vengono riassegnate le funzioni (in caso di revoca della sospensione disciplinare e nelle ipotesi di rientro in ruolo organico), le norme regolano il relativo potere di provvedere sempre in forma discrezionale, sia in ordine all’an, nell’ipotesi di riammissione, che, in ogni caso, in ordine alle funzioni ed al posto da assegnare. Nel caso concreto, invece, tale valutazione non è ammessa dalla legge. Risulta in tal modo pregiudicata la funzione di natura discrezionale del Consiglio Superiore volta a realizzare il corretto ed efficace esercizio della giurisdizione, che trova proprio nella valutazione della idoneità dei soggetti chiamati ad esercitarla la sua espressione fondamentale e più importante.

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