NOTIZIARIO del 02 aprile 2004

 
     

L'Europa e la pace secondo Romano Prodi*
intervento del 1° aprile 2004 presso l'Università dell'Ulster

Anzitutto, vorrei porgere un omaggio personale a John Hume. Il suo ruolo nel portare la pace in questo paese è un esempio e un motivo d'ispirazione per tutti noi. Insieme a quello di David Trimble, il suo contributo a curare la frattura del settarismo è stato immenso, e ha portato dei benefici apprezzati da tutti i presenti.

Voi Irlandesi sapete meglio di tanti altri cosa significa la pace, e la differenza che fa quando c'è. Ricevendo il Premio a Oslo nel 1998, John lo ha dedicato al popolo irlandese, con queste parole: "Dobbiamo la pace alla gente normale dell'Irlanda, in particolare quella del Nord, che ha vissuto e sofferto la realtà del nostro conflitto". Ha anche detto di quanta ispirazione gli sia stata l'esperienza europea in questo lavoro di pace.

Non potrei essere più d'accordo, e oggi vorrei spiegare le ragioni di questo mio convincimento così forte. L'Unione europea può essere guardata sotto diverse angolazioni, ma per me una viene prima di tutte le altre: la promozione e il progresso della pace. Non dobbiamo mai dimenticare che la ragione fondamentale del processo d'integrazione europea e dell'Unione è la pace.

La pace è stata l'obiettivo maestro dei nostri padri fondatori: Jean Monnet diceva che costruire l'Europa significa costruire la pace. Questo concetto non potrebbe essere espresso in modo più chiaro. Quando l'Europa era sotto le macerie, devastata dalla guerra e divorata dall'odio che aveva generato, un osservatore esterno difficilmente avrebbe potuto credere alla riconciliazione tra la Francia e la Germania. Mezzo secolo dopo sappiamo che era molto più di un sogno.

Sono d'accordo con John quando dice che "L'Unione europea è il migliore esempio di risoluzione dei conflitti nella storia mondiale...". Il nostro continente è stato trasformato. Una volta era il calderone in cui bollivano mille conflitti, oggi l'Europa è un'officina di pace, che genera stabilità e prosperità anche oltre le proprie frontiere. L'Unione ci ha dato uno dei più lunghi periodi di pace della storia e rappresenta un esempio di speranza per milioni di persone in tutto il mondo.

Il nostro successo mostra che abbiamo trovato un modello funzionante, un modello cui ispirarci nel gestire le relazioni tra Stati attorno a noi e anche oltre. Possiamo essere fieri di questi risultati. Abbiamo imparato le lezioni del passato e abbiamo capito l'importanza di rispettare la diversità. Soprattutto, abbiamo scoperto il modo di consolidare la pace mediante strutture che affrontano le cause profonde dei conflitti.

Noi Europei sappiamo bene cos'è un conflitto: il passato del nostro continente è dominato dalle guerre, con brevi intervalli di pace malsicura. Basta guardare la mappa politica dell'Europa degli ultimi cinque secoli: si vede subito la conflittualità permanente di un continente con poche frontiere naturali. I confini riflettono solo l'andare e venire arbitrario del potere di feudi ed imperi.

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Per centinaia di anni, la guerra per gli Europei è stata l'unico modo di garantirsi la sicurezza. Dovevamo attaccare prima di essere attaccati, distruggere le città del nemico prima che questi bruciasse le nostre. E non dobbiamo mai dimenticare che quei giorni bui possono ritornare. Le imponenti mura di questa città ci ricordano quell'epoca di conflitti e insicurezza, in cui i popoli dovevano costruire colossali difese per sopravvivere. E spesso i popoli d'Europa hanno pagato un alto prezzo di sangue e di lutti per una difesa assai scarsa.

Questo è il mondo descritto da Thomas Hobbes. Il grande filosofo inglese vedeva la condizione naturale dell'umanità come "quella condizione chiamata guerra … in cui ogni uomo è nemico di ogni uomo". Leviatano, il suo grande lavoro pubblicato nel 1650, spiega come ci voglia uno Stato potente per affrontare la costante minaccia della guerra. Tutto questo appena due anni dopo che la Pace di Vestfalia aveva posto fine alla Guerra dei Trent'anni, chiudendo un capitolo terribile in cui l'uomo era veramente un lupo per gli altri uomini.

E quando quei tre decenni di conflitti religiosi erano finalmente terminati, si contarono le perdite. Per la maggior parte dell'Europa, il bilancio era sconvolgente. La Germania, da principale campo di battaglia, aveva perso quasi metà della popolazione. Le città erano in rovina, il commercio crollato, la servitù restaurata. Saccheggi, carestie, pestilenze, violenze diffuse e disgregazione sociale avevano portato indietro di un secolo l'orologio della Storia. Anche altrove la situazione era altrettanto desolante.

La fine della Guerra dei Trent'anni ci ricorda il 1945 - con molte importanti differenze. Il Trattato di Vestfalia portò davvero una certa pace in Europa, facendo del moderno Stato sovrano il protagonista della politica di potenza. Era così segnata una nuova tappa della storia europea, ed erano gettate le fondamenta di un nuovo ordine nelle dinamiche interstatali. Ma ne venne anche una nuova forma di instabilità.

Cominciò una nuova era per l'ordine e il disordine europeo. Una nuova, disperata ricerca di stabilità in una nuova ripresa del gioco a somma zero che ho descritto. I Paesi Bassi e la Svizzera ottennero l'indipendenza, gli Stati tedeschi si rafforzarono, e questi nuovi soggetti si accordarono sul principio che gli Stati non hanno il diritto di intervenire negli affari interni altrui. Ciò significava che la sicurezza della gente era garantita all'interno di ciascuno Stato.

Si tratta di un progresso per i singoli individui che non va sottovalutato. Ma la pace e la sicurezza all'interno dello Stato portarono solo un piccolo miglioramento, perché la visione dei rapporti fra uomini di Hobbes continuò ad applicarsi tra gli Stati: le potenze europee continuavano ad essere lupi le une per le altre, formando coalizioni instabili e lottando per i rispettivi territori. In assenza di un diritto internazionale chiaro, si applicava la legge della giungla: da un capo all'altro del continente, i diversi paesi facevano quel che volevano. È su questo sfondo che vanno viste le idee politiche dell'Età dei Lumi.

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Immanuel Kant, morto esattamente 200 anni fa, vedeva chiaramente l'impossibilità di una coalizione duratura tra quel tipo di Stati. Il grande filosofo sapeva che le relazioni tra Stati erano come il mondo descritto da Hobbes: uno "stato di natura" in cui una guerra poteva scoppiare in qualunque momento. Come cambiare questa situazione insopportabile? È a questa domanda che Kant cerca di rispondere con l'opera "Per la pace perpetua", pubblicata nel 1795, poco dopo la Rivoluzione francese.

Per realizzare la pace perpetua, Kant proponeva una "federazione di Stati 'repubblicani' ", poiché riteneva impossibile la guerra tra paesi con un ordine civile legale e il rispetto per la legge morale. Oggi chiameremmo questo concetto condividere gli stessi valori fondamentali. E, come crediamo anche oggi, Kant pensava che se i cittadini hanno un interesse diretto per la pace, consistente nel salvaguardare la propria prosperità e il proprio benessere, si opporranno sempre alla guerra in una repubblica.

Kant non pensava a un qualche tipo di repubblica mondiale o di superstato, né del resto ci pensiamo noi con l'Unione europea: voleva solo trovare un modo pratico e realistico per far coesistere pacificamente gli Stati, in modo da godere di una vera sicurezza. In questo, Kant era molto moderno. Non cercava di sbarazzarsi delle nostre nazioni e dei nostri Stati, così come nemmeno noi vogliamo vedere la fine delle diverse nazioni.

Il punto fondamentale è che Kant voleva un'alleanza di Stati che condividessero determinati principi e regole. Egli credeva che la pace perpetua si potesse raggiungere mediante una federazione pacifica di Stati che s'impegnassero a non muoversi guerra tra loro. E che quella federazione sarebbe stata rafforzata dai commerci e sostenuta da un sistema di diritto internazionale. Come Kant, noi crediamo che il concetto di Stato di diritto debba applicarsi all'interno dei vari paesi e fra i vari paesi.

Kant sarebbe stato felice di vedere cosa abbiamo fatto con l'Unione europea, una forma di democrazia sopranazionale in un'Unione di Stati membri sovrani. In un certo modo, la nostra Unione racchiude in sé l'essenza della federazione kantiana di democrazie sovrane. Anche noi abbiamo capito che interessi comuni e convergenti sono strumenti poderosi per costruire la pace, e abbiamo fondato la nostra Unione su valori condivisi e su un sistema di regole comuni. Vediamo quindi come siamo arrivati alla situazione di oggi in termini di pace e stabilità.

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Abbiamo fondato la nostra Unione sulla riconciliazione tra popoli e nazioni del nostro continente, sulla tolleranza verso gli altri, sulle libertà individuali e i diritti delle minoranze. Uniti nella nostra diversità, abbiamo basato l'Unione sulla volontà di capire il punto di vista altrui anziché di imporre il nostro, su impegni reciproci assunti liberamente e accettati democraticamente.

Colpisce osservare le grandi differenze nelle origini costituzionali dei nostri Stati membri. I pesi e contrappesi introdotti nel tempo hanno alterato considerevolmente le strutture originali. Che fossero all'inizio repubbliche o monarchie costituzionali, oggi funzionano tutti come democrazie avanzate che rispettano gli stessi valori e princìpi. Il rispetto per la diversità ha consentito a ciascun paese di mantenere le proprie caratteristiche, e tutto questo senza intaccare il nostro comune rispetto per i valori e i princìpi che condividiamo.

I nostri conflitti non degenerano in violenza. Come dice John Hume: "Ogni conflitto ruota attorno alla differenza, che si tratti di una differenza di razza, religione o nazionalità. Gli architetti dell'Europa hanno deciso che la differenza non è una minaccia, ma una cosa naturale (...). La risposta alla differenza è rispettarla. Ecco un principio di pace assolutamente fondamentale - il rispetto per la diversità".

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Il principio della diversità è sancito dalla nostra architettura istituzionale. Le nostre regole servono alla tutela degli interessi degli Stati membri, siano essi grandi o piccoli. Almeno due generazioni di nostri cittadini sono cresciute senza conoscere la guerra nei loro paesi. Questo è il nostro più grande risultato, ma non dobbiamo abbandonarci all'autocompiacimento. Tendiamo a dare per scontati la stabilità, la prosperità, la democrazia e il rispetto dei diritti umani e dei valori fondamentali, come se le cose non potessero mai cambiare.

Fra le ragioni del successo c'è quella combinazione di dichiarazioni moderate e ambizioni modeste tipica dei padri fondatori. Il loro sguardo si è mantenuto sui progressi realizzabili. Per cinquant'anni abbiamo costruito pietra su pietra una struttura di istituzioni, regole e princìpi. Le quattro libertà di movimento di beni, servizi, persone e capitali ci hanno portato al mercato unico.

Molti dei nostri Stati membri hanno ora anche una moneta comune, e hanno abolito i controlli dei passaporti. Tutto ciò è stato possibile perché abbiamo intensificato la cooperazione tra le diverse autorità giudiziarie e di polizia, e in questo modo le frontiere interne sono diventate molto meno importanti di quanto non fossero in passato. Abbiamo elaborato politiche comuni per consolidare la nostra stabilità e prosperità, e adesso stiamo muovendo grandi passi nel settore della giustizia e degli affari interni.

Proteggere la sicurezza dei nostri cittadini è una questione fondamentale, soprattutto in quest'epoca di minaccia terrorista. E la difesa della nostra sicurezza interna sarà più efficace se la faremo insieme. Tutto questo ci ha insegnato che un approccio multilaterale è l'unico che possa funzionare, perché vivere in un continente con poche frontiere naturali significa che nessuno di noi può ignorare i propri vicini. Anche sulla scena mondiale noi sosteniamo il multilateralismo, perché sappiamo che i singoli Stati non ce la possono fare da soli.

Dal 1945, si sono prodotti enormi cambiamenti sulla scena internazionale. Nuove istituzioni concepite anzitutto per garantire la pace e la sicurezza e per rafforzare la cooperazione hanno dato forma e sostanza all'approccio multilaterale. Abbiamo costruito un sistema a strati successivi per rafforzare la nostra sicurezza, sostenendo altre strutture regionali e internazionali come la NATO, le Nazioni Unite, il Consiglio d'Europa, l'OSCE e, da ultimo, il Tribunale penale internazionale.

Per far questo abbiamo dovuto costituire un sistema internazionale atto a gestire e sostenere la nostra prosperità, mediante organizzazioni come l'OMC e accordi quali il Protocollo di Kyoto allegato alla Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici.

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Alcune date spiccano nella Storia perché segnano grandi periodi di cambiamento. Dobbiamo assicurarci di imparare le lezioni che questi periodi ci impartiscono. Ricordiamoci di Michail Gorbaciov quando diceva a Erich Honecker che "chi arriva troppo tardi sarà punito dalla vita". Il 1989 è stato un punto di svolta per la storia europea. È convenzione degli storici che il 19° secolo inizi nel 1789. Credo che il 21° sia iniziato nel 1989.

Per alcuni, il 1989 ha segnato il trionfo della democrazia liberale e del liberalismo economico, e la Storia in questo modo sarebbe finita. Per parte mia, credo che il 1989 segni il nuovo inizio della Storia: nel 1989 è finita la Guerra fredda, non la Storia. Con la fine della Guerra fredda, è terminato un periodo che non è stato né di guerra né di pace, un periodo nel quale abbiamo piuttosto assistito ad una sorta di tregua. Ma il 1989 ha anche visto il ritorno al conflitto armato con il disfacimento dell'ex Iugoslavia.

Le nostre istituzioni, naturalmente, esistevano già. Avevamo iniziato a pensare ad una politica esterna. Prima di allora non avevamo mai avuto una guerra alle soglie dell'Unione. E, come tutti sanno, siamo stati colti del tutto impreparati. Ma nel 1993 abbiamo preso due decisioni strategiche: abbiamo firmato il trattato di Maastricht, che ha introdotto una politica estera e di sicurezza comune, e abbiamo aperto le nostre porte ai paesi dell'Europa centrale e orientale.

In altre parole, abbiamo preso decisioni strategiche volte a rafforzare la nostra sicurezza alla luce dell'esperienza iugoslava. E tali decisioni hanno implicato il ricorso tanto al "potere forte" (hard power) quanto al "potere discreto" (soft power).

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Un approccio multilaterale intelligente implica che la sicurezza venga perseguita sia mediante il potere forte, sia mediante il potere discreto. Tutti sappiamo cosa si intende per "potere forte": la minaccia credibile - o l'uso - della forza. E il ricorso alle maniere forti è del tutto legittimo se è conforme al diritto internazionale.

Abbiamo costruito la nostra Unione per la pace. Ci sarebbe piaciuto eliminare tutte le armi. Ma sappiamo che il mondo è ancora un luogo pericoloso. L'attentato dell'11 marzo di quest'anno ci ha fatto toccare con mano l'importanza di un'azione congiunta per proteggere i nostri popoli e garantire la sicurezza. L'atrocità di quel crimine e le sue implicazioni hanno cambiato il paesaggio politico.

Il modo in cui la gente ha reagito è stato impressionante ed ha rafforzato la mia fede negli Europei. Milioni di persone hanno dimostrato in silenzio in tutta la Spagna e in tutta l'Europa - contro le bombe nelle stazioni di Madrid. Appena pochi giorni dopo, i cittadini spagnoli hanno votato in massa per mostrare il loro attaccamento alla democrazia e la loro determinazione a non lasciarsi intimidire dal terrorismo. L'affluenza alle urne ha superato del 10% quella registrata nel 2000.

Il loro messaggio è stato chiaro: essi hanno respinto la logica della violenza e della paura. Questa dovrebbe essere la risposta anche dell'Europa. Dobbiamo combattere il terrorismo, dobbiamo proteggere i nostri cittadini e dobbiamo difendere il nostro modo di vivere. Dobbiamo salvaguardare i nostri valori di democrazia, apertura e tolleranza. Dobbiamo fare in modo che le nostre minoranze e i nostri immigrati legali continuino a godere dei vantaggi delle nostre società aperte.

Nel dicembre dell'anno scorso, l'Unione ha tracciato per la prima volta una Strategia europea per la sicurezza. Il problema del terrorismo e delle sue cause profonde occupa un posto importante in tale Strategia. Come dichiarato dal Consiglio europeo di primavera della settimana scorsa, è adesso urgente attuare questa opportuna iniziativa dell'Alto rappresentante per la politica estera e di sicurezza comune. Il Consiglio ha anche deciso di istituire un coordinatore europeo della lotta contro il terrorismo, il cui compito sarà quello di migliorare lo scambio delle informazioni.

Inoltre, il Consiglio ha approvato una serie di provvedimenti, tra cui:
- la condivisione delle informazioni,
- il controllo delle fonti di finanziamento dei terroristi,
- un'azione ispirata alla clausola di solidarietà prevista dal progetto di Costituzione.

Ovviamente, la sicurezza interna va di pari passo con la sicurezza sul fronte esterno. Dal trattato di Maastricht, abbiamo iniziato ad organizzare la nostra politica estera e di sicurezza. Dobbiamo continuare a lavorare in tal senso. E, a partire dall'iniziativa anglo-francese di Saint-Malo su una difesa comune, le cose si sono effettivamente mosse. Ha iniziato a prendere forma una politica europea di sicurezza e di difesa. Lo scopo è quello di rafforzare il pilastro europeo della NATO. La NATO continua ad avere la responsabilità principale della nostra sicurezza. Ma dobbiamo fare in modo di poter agire militarmente nei casi in cui i nostri partner americani non siano direttamente interessati.

Gli eventi si sono accelerati nel 2003. In gennaio, l'Unione ha intrapreso la sua prima missione nell'ambito della politica europea di sicurezza e di difesa. Nel contesto di tale missione, l'Unione europea ha ereditato dalla International Police Task Force dell'ONU il compito di dirigere le attività di monitoraggio e di assistenza alle forze di polizia in Bosnia-Erzegovina. E l'Unione si sta preparando a dare il cambio alla SFOR, la forza di stabilizzazione della NATO in Bosnia-Erzegovina.

In marzo, abbiamo lanciato una missione UE, chiamata Concordia, per la stabilizzazione dell'ex Repubblica iugoslava di Macedonia, missione che ha portato avanti l'azione NATO. A seguito del riuscito completamento dell'operazione, in dicembre abbiamo dato il via a Proxima -- la missione di polizia UE nell'ex Repubblica iugoslava di Macedonia. Fuori dell'Europa, l'Unione ha già condotto un'operazione militare chiamata Artemis nella Repubblica democratica del Congo.

Questi esempi mostrano che, se necessario, l'Unione è capace di una risposta modulata che tiene conto di ogni singola situazione e che può comportare anche il ricorso al potere forte per garantire la sicurezza. Tuttavia, sono convinto che le guerre non si vincano con le sole armi. Ciò è tanto più vero quando si combatte non già uno Stato, bensì un'organizzazione terroristica.

In una guerra contro il terrorismo, i concetti del passato non funzionano. L'equilibrio del terrore della Guerra fredda non funziona con i terroristi. La deterrenza non ha alcun effetto sugli attentatori suicidi. Le uccisioni mirate fanno solo aumentare il numero degli adepti del terrorismo. Dobbiamo essere realisti circa la soluzione del problema "terrorismo". È un'illusione pericolosa pensare di sconfiggerlo senza affrontarne le cause profonde.

La forza da sola non basta per sconfiggere il terrorismo. Occorre usare tanto la forza quanto l'intelligenza. Oltre all'opzione militare e alla repressione, occorre esplorare con altrettanta determinazione la via politica. E, per entrambe le opzioni, si impone l'approccio multilaterale: i metodi unilaterali non sono più sufficienti.

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Ricorrere al potere discreto non significa usare i guanti di velluto. Non esiste un modo facile per ottenere la pace: basti vedere come falliscono gli Stati. Costruire nazioni è il lavoro veramente difficile. E lo si può fare soltanto quando non è più necessario usare i soldati. La pace non può essere raggiunta dall'oggi al domani e può non fare notizia. Ma l'uso del potere discreto paga nel lungo periodo. La prevenzione dei conflitti è meglio degli attacchi preventivi. Per un esempio di potere discreto, si pensi alla promozione dei nostri principi democratici attraverso gli aiuti allo sviluppo diretti a favorire la pace e la sicurezza internazionale.

E sono fiero di poter dire che in questo campo l'Unione europea non è seconda a nessuno. L'Unione è di gran lunga il campione mondiale degli aiuti allo sviluppo. Siamo inoltre un promotore attivo dello sviluppo sostenibile: infatti, lo sviluppo è un fattore chiave per raggiungere la pace. L'Unione si sta occupando di talune delle principali cause profonde dei conflitti, come la povertà, la pressione demografica e la competizione per risorse naturali scarse quali l'acqua e la terra. L'accordo di Cotonou tra l'Unione e 77 paesi dell'Africa, dei Caraibi e del Pacifico sottolinea l'importanza di obiettivi come l'estirpazione della povertà, l'integrazione nell'economia mondiale, il buon governo, la democrazia e lo Stato di diritto.

Come funziona il potere discreto? Per spiegarlo, risaliamo nel tempo ed esaminiamo ciò che è accaduto. Come abbiamo detto, il ruolo dell'Unione europea a favore della pace e della stabilità è iniziato a casa nostra, attraverso la riconciliazione di nemici antichissimi. I successivi allargamenti hanno favorito la pace promovendo la democrazia: si pensi alla Grecia, alla Spagna e al Portogallo, a come quelle vigorose democrazie hanno prosperato durante gli ultimi tre decenni. Nel contesto dell'attuale allargamento, la prospettiva dell'adesione ha avuto un grande impatto: ha rafforzato la democrazia, la pace e la stabilità al di là del confine che ha spaccato l'Europa in due per cinquant'anni.

Il potere discreto dell'Unione europea ha fornito lo slancio per le riforme economiche, sociali e politiche nei paesi candidati. E ha stimolato il rispetto dei diritti umani e dei valori democratici. Il nostro potere discreto può contribuire a risolvere anche i conflitti armati. L'esempio di Cipro è paradigmatico: il fatto che la parte greca dell'isola farà parte dell'Unione ha galvanizzato i Ciprioti turchi, i quali hanno dimostrato in gran numero a favore dell'adesione. Nutro ancora speranze che Cipro possa aderire indivisa alla nostra Unione.

Un aspetto importante del potere discreto a fini di sicurezza (soft security) è il trattamento delle minoranze. In democrazia, la maggioranza governa, ma i diritti della minoranza devono essere tutelati. Nessuno dei nostri Stati nazione è omogeneo in termini etnici, e tanto meno in termini religiosi e culturali. Le minoranze hanno spesso sofferto per mano dei gruppi dominanti. Talora, esse sono state usate come pretesto per intervenire in territorio altrui.

Il problema è particolarmente acuto nei Balcani. I recenti avvenimenti in Kosovo dimostrano chiaramente quanto sia precaria la situazione. Non vi è spazio per l'autocompiacimento: la pace è una pianta fragile che richiede cure e alimento costanti. Non vi sarà una soluzione duratura dei conflitti balcanici se non offriamo ai paesi della regione una prospettiva realistica di accedere all'Unione europea. Questo approccio ha funzionato con altri paesi in passato. E funzionerà anche in Kosovo.

L'Unione riduce l'importanza dei confini, sicché essere una minoranza all'interno di un certo Stato membro è meno problematico. Nella nostra Unione, ciascun individuo fa parte - in un certo senso di una minoranza. E, nella nostra Unione, nessuno Stato può farla da padrone sugli altri. Essenzialmente, nessun gruppo religioso, etnico, culturale o di altro tipo deve poter comandare gli altri, tutti devono avere pari dignità. Ecco perché chiamo la nostra Unione una "Unione di minoranze".

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In termini di promozione della pace, l'aspetto più importante è una politica estera e di sicurezza comune più forte. Ciò significa che occorre agire anche nella nostra regione. All'inizio ho parlato della necessità di consolidare la pace con strutture che affrontino le cause profonde dei conflitti. Non possiamo limitare gli sforzi ai nostri Stati membri. Occorre proiettare la stabilità oltre i nostri confini. Ciò significa promuovere riforme politiche ed economiche che possano permettere ai nostri vicini di partecipare alla nostra pace ed alla nostra prosperità. Significa lavorare con i paesi partner sulla base di interessi convergenti e di valori comuni.

Una visione ampia e a lungo termine del nostro interesse è l'idea chiave dietro la politica che stiamo sviluppando per i paesi che si troveranno ai confini dell'Unione allargata. Lo scopo è creare un circolo di amici intorno all'Unione - dalla Russia al Marocco passando per l'intero bacino del Mediterraneo - e condividere con essi la pace, la stabilità e la prosperità di cui abbiamo goduto nell'Unione durante gli ultimi cinquant'anni.

Speriamo di includere Israeliani e Palestinesi in questo circolo. Ciò sarà possibile soltanto se entrambi i popoli potranno vivere in Stati sovrani e indipendenti, sicuri all'interno dei rispettivi confini e in pace tra di loro. Quando entrambi potranno partecipare ad un processo d'integrazione politica ed economica, la regione godrà di una stabilità duratura e il mondo sarà un luogo più sicuro. Ciò garantirà effettivamente una pace sostenibile.

Sono consapevole che questa è una proposta audace, ma non me ne scuso. Adesso non vi è alternativa. Per essere del tutto chiaro, la soluzione dei due Stati sarebbe soltanto un primo passo: questo primo passo, per quanto enorme, non raggiungerebbe il nostro scopo di una pace sostenibile nella regione. Dobbiamo tener presente che non possiamo più accontentarci della diplomazia degli Stati. L'obiettivo di una pace sostenibile richiede molto di più.

Il nuovo modello che ho in mente non tratterebbe più gli individui e i gruppi sociali come soggetti passivi, ma ne farebbe i veri protagonisti della politica nazionale ed internazionale. Probabilmente, questo progetto richiederà parecchi anni, ma è il solo modo per avanzare. Infine, vogliamo estendere a questi paesi le quattro libertà sulle quali è basata l'Unione. Ciò darà forma tangibile al nostro impegno di non erigere nuove barriere.

Gli attentati terroristici di Madrid hanno reso evidente l'urgenza di tale politica. È chiaro che, finché non vi sarà un accordo tra Palestinesi e Israeliani, il Medio Oriente continuerà a produrre terrorismo e insicurezza anche per noi. Ecco perché abbiamo bisogno di una risposta ad ampio raggio. Dobbiamo convincere i nostri alleati della necessità di lavorare insieme in un contesto multilaterale. E dobbiamo convincerli dell'efficacia del potere discreto. Ciò contribuirà ad assicurare la nostra sicurezza, interna ed esterna.

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Noi Europei sappiamo per lunga ed amara esperienza che la guerra è la peggiore di tutte le soluzioni e deve rimanere l'extrema ratio. E, poiché abbiamo sempre vissuto in stretto contatto con altre culture e civiltà, l'isolamento non è mai stato un'opzione per l'Europa. Sappiamo che le società aperte e le culture tolleranti che abbiamo care possono essere le prime vittime di qualsiasi conflitto e di qualsiasi minaccia terroristica. Abbiamo trasformato la tregua della Guerra fredda in vera pace.

Il 1° maggio, l'Unione europea avrà 25 Stati membri. La pace è ormai un fatto consolidato per l'Unione europea. Tuttavia, stiamo assistendo all'emergere di nuove minacce e di nuove sfide. Lottare contro il terrorismo, assicurare la stabilità e la sicurezza internazionali, mantenere in equilibrio l'economia mondiale, salvaguardare l'ambiente per un futuro sostenibile sono compiti che eccedono le capacità di qualsiasi Stato per quanto esso possa essere potente e per quanto illimitate possano sembrare le sue risorse. Ciò vale per i paesi dell'Europa e vale per i nostri alleati ed i nostri partner in tutto il mondo.

Ecco perché il multilateralismo è la sola opzione. Il domani vedrà l'emergere di nuove potenze e, forse, di nuove superpotenze. Ecco perché promuovere i nostri valori nel mondo è così importante per la nostra sicurezza a lungo termine.

* Presidente della Commissione Europea

by www.osservatoriosullalegalita.org

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Pubblichiamo questo documento perche' esprime un'analisi per noi molto condivisibile.
Riteniamo tuttavia che si sarebbe potuto agire conseguentemente con piu' efficacia, come Unione Europea, per prevenire il terrorismo culturalmente e per denunciare per tempo l'illegalita' della guerra e delll'occupazione in Iraq