19 luglio 2003

 
     

OMAGGIO A PAOLO BORSELLINO
di Rita Guma
Con le testimonianze di Mons. Riboldi
e del dott. Piercamillo Davigo

parte prima

"Non ho mai chiesto di occuparmi di mafia. Ci sono entrato per caso. E poi ci sono rimasto per un problema morale. La gente mi moriva attorno."

Queste parole di Paolo Borsellino, Procuratore aggiunto presso la Procura distrettuale della Repubblica di Palermo nei primi anni '90, ulteriore testimonianza dell'eccezionale qualita' morale della persona, accompagnando l'espressione grave del suo volto sembravano presagirne il triste destino.

Proprio l'espressione triste e pensosa di quel volto, contrapposta a quella ridente e a volte ironica di Falcone, mi ha sempre fatto pensare a quanto sara' stato doloroso l'ultimo periodo di vita di Borsellino: il dolore per l'amico appena assassinato, la solitudine ancor piu' completa di quella lamentata da Falcone, la paura per i suoi stessi familiari e la consapevolezza che presto sarebbe capitato anche a lui.

I piu' non sanno quale sara' il proprio imminente destino: Borsellino lo sapeva.

Il 19 luglio 1992 alle ore 16,58 l'esplosione di un'autobomba, parcheggiata in via D'Amelio a Palermo, uccideva Paolo Borsellino e i cinque agenti di scorta. Un ulteriore shock per una Palermo ed una Italia gia' provata dalla strage di Capaci, che aveva mobilitato centinaia di migliaia di cittadini decisi a resistere ai soprusi ed alle minacce della Piovra. Uno shock anche per le Istituzioni, o almeno per la parte sana di esse.

Questo articolo pero' non si vuol limitare ad essere un ricordo di Paolo Borsellino, ma vuole anche farci guardare al futuro, se non con fiducia, almeno con determinazione e consapevolezza dei problemi, dei limiti e degli strumenti nella lotta al crimine, proprio per far vivere, attraverso l'impegno di ciascuno di noi, il ricordo di chi ha dato la vita per osservare il proprio dovere.

Ecco perche', con l'aiuto di alcuni testimoni di quei giorni, affronteremo anche l'oggi e il domani della lotta alle mafie.

Cominciamo questo viaggio con Mons. Antonio Riboldi, gia' parroco nel Belice, poi vescovo ad Acerra, da sempre impegnato sul fonte della difesa dei piccoli e della lotta alla camorra, che di Paolo Borsellino e Giovanni Falcone ha un ricordo dovuto all'affetto dell'amicizia e della comune lotta contro la criminalita' organizzata:

"Con tante vittime della mafia che ho conosciuto, a cominciare dal Generale Dalla Chiesa, Chinnici, Mattarella e Pio La Torre, fino a Falcone e Borsellino, ricordo che ci domandavamo se eravamo persone solitarie, se ne valeva la pena.

Io dicevo che valeva la pena, anche se eravamo soli, di portare la bandiera della liberta' e della dignita' dell'uomo.

Il lavoro fatto da persone impegnate, da persone come Borsellino, come Caponnetto, da chi ha speso la vita, ma anche da giovani di oggi che sono impegnati, va continuato perseguitando quei cespugli che ci sono e sono ancora forti. "

Mons. Riboldi, oggi alcuni tendono a minimizzare il problema mafia. Lei che ne ha visto da vicino l'evoluzione per oltre un quarto di secolo, cosa ne pensa?

"Ha cambiato metodi ma c'e' ed e' un pericolo grave. Non ammazza piu' come una volta, ha attivita' diverse, ma chi vive all'interno della mafia in Sicilia o della camorra in Campania direbbe che c'e' ed agisce, anche se non e' piu' organizzata per cupole.

Le cose non sono come molte volte ce le dipinge la stampa quasi camuffandole. Ed anche il cittadino non vorrebbe piu' sentirne parlare quasi come se si inquinasse l'altmosfera.

In Campania, vent'anni fa, quando iniziammo con le marce, prendendo di petto la camorra, si era un po' tutti sulla barriera. Oggi si guarda attorno, allo sviluppo delle citta', e si pensa: "Noi siamo un paese civile e vogliamo essere tale." Invece il traffico di droga e' un commercio enorme ed ammazza molto piu' della pistola. E accanto a questo c'e' l'ecomafia ed il traffico della prostituzione.

Ignorare la mafia sarebbe come lasciarle la strada libera."

Cosa fare, allora?

"Occorre un impegno di legalita'.

Ogni italiano, anche senza essere colpito dalla mafia o dalla camorra, dovrebbe imparare questa parola stupenda che e' la legalita'. A nessuno e' lecito usare ne' violenza ne' usurpazione. Non e' giusto che un uomo venga privato della sua liberta' di uomo, non e' giusto che un uomo si senta meno uomo per la presenza di una prepotenza.

Nella parabola del buon samaritano, che e' stata quella che mi ha sempre un po' guidato, i briganti lasciano un uomo semivivo. Un levita passando mostra indifferenza. Questo di dire "Penso ai fatti miei" e' il grande cancro dell'Italia e del mondo: non si puo' vivere pensando solo ai fatti propri.

Ci sono invece oggi molte persone impegnate, magistrati, cittadini, chiesa, scuole, che vogliono cambiare la societa' qualificando l'uomo. E' molto bello questo.

E' su questo terreno che si misura se siamo veramente civili o no."

E Paolo Borsellino non fu mai indifferente, anche dopo la morte dell'amico Falcone non si arrese, al punto da divenire una grande minaccia per la mafia che ne decreto' la fine.

Mentre a Palermo Cosa Nostra, e forse pure qualche colletto bianco, decideva di chiudere l'attivita' investigativa di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, a Milano entravano nel vivo le indagini su Tangentopoli.

Il pool di Mani Pulite ebbe diversi momenti di contatto con Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, che ne apprezzo' il metodo di lavoro e vide delle analogie tra le due inchieste, al punto da volerne ricordare l'attivita' durante la prima commemorazione pubblica dell'amico Falcone.

Il dott. Piercamillo Davigo, oggi Consigliere di cassazione presso la Corte d'Appello di Milano, che ha sempre interpretato la professione di magistrato come un servizio per lo Stato, undici anni fa uno dei principali protagonisti di Mani Pulite. Dott. Davigo, quale era il clima di quei giorni, e cosa penso' lei, nell'apprendere la notizia dell'esplosione di via D'Amelio?

"I terribili omicidi di Paolo Borsellino, e degli agenti della sua scorta Agostino Catalano, Walter Eddie Cusina, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Claudio Traina seguirono di poco tempo l'altro devastante attentato in cui furono assassinati Giovanni Falcone, la Moglie e gli agenti della scorta e apparvero una tracotante sfida all'intero popolo italiano che era rimasto violentemente turbato da quei fatti e che chiedeva giustizia rapida e la fine delle collusioni fra potere politico ed economico e crimine organizzato.

Negli stessi mesi con altri colleghi mi occupavo di indagini che gettavano luce sull'incredibilmente vasta trama di corruzione che coinvolgeva politica e mondo imprenditoriale fino ai vertici della cosa pubblica e che spigavano la permeabilità di quelle aree alla infiltrazione mafiosa.

Mi ricordai una cosa che mi aveva detto un funzionario di Polizia: i mafiosi sono come i pidocchi, prosperano solo dove c'è lo sporco. Pensai allora che la partita era unica: il contrasto al crimine organizzato doveva accompagnarsi al contrasto alla corruzione e viceversa.

Soprattutto pensai che l'esempio di Paolo Borsellino, oggetto di incredibili attacchi (ricordo che il compianto collega Francesco Di Maggio ed io gli esprimemmo solidarietà non solo in privato ma anche con una lettera a un quotidiano) in vita e poi così barbaramente ucciso, ma che mai aveva arretrato, doveva essere non solo un esempio, ma un richiamo a compiere il proprio dovere."

Sono passati molti anni, come dicevamo con mons. Riboldi la mafia e' cambiata, ma non si e' fermata. Gli esecutori, ma soprattutto i mandanti di alcuni di quei delitti non sono stati ancora trovati e condannati, ma anche per gli altri delitti di mafia l'attivita' investigativa non sempre raggiunge l'obiettivo di assicurare alla giustizia i colpevoli, sia per le difficolta' all'accertamento della verita' in un contesto cosi' omertoso e chiuso, sia per i tanti istituti giuridici cui indagati ed imputati, anche nei processi per mafia, possono ricorrere prima, durante (e dopo) il processo.

Per la sua attivita' di magistrato, Dott. Davigo, lei conosce bene queste problematiche: un brevissimo commento.

"Il Procuratore della Repubblica di Torino Marcello Maddalena ha coniato una distinzione fra garanzie (indispensabili per distinguere tra colpevoli e innocenti) e ostacoli (che impediscono la condanna dei colpevoli).

Il nostro codice di procedura penale abbonda di ostacoli e rende difficile l'accertamento dei fatti, il che crea problemi particolarmente gravi nei processi di mafia."

(continua)

Bollettino Osservatorio

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