23 luglio 2003

 
     

OMAGGIO A PAOLO BORSELLINO
di Rita Guma
Con le testimonianze del dott. Paolo Borgna
e del sen. Ferdinando Imposimato

parte seconda

Se in Italia vi sono difficolta’ nell’accertamento della verita’ nei processi di mafia e nel perseguimento dei colpevoli, altri ostacoli si incontrano per quanto riguarda le indagini internazionali. Molta parte del riciclaggio del denaro sporco connesso ai reati di mafia avviene all’estero, nelle banche svizzere, nei casino’ e nei cosiddetti "stati canaglia". Oggi, poi, le mafie si sono "evolute", hanno trovato nuovi sbocchi, parlano anche altre ligue - il rumeno, il russo, l'albanese.

Il dott. Paolo Borgna, sostituto procuratore presso la divisione antimafia di Torino, ha trascorso due anni a Bruxelles proprio per studiare le tecniche dei nuovi gruppi criminali dell'est e gli istituti giuridici internazionali disponibili per fronteggiare questi fenomeni.

Dottor Borgna, quali sono gli ostacoli principali nella lotta alle mafie internazionali con l'avvento della globalizzazione del crimine?

"Non c'è alcun dubbio: l'ostacolo principale è costituito dalla lentezza e dalla farraginosità della cooperazione di polizia e giudiziaria. In un'epoca in cui tutto - le persone, le merci, le notizie - circola, in modo lecito o non lecito (poco importa), l'unica merce che conosce ancora le vecchie frontiere è la Giustizia. Indagini di polizia e magistrati si fermano ancora di fronte a rigide barriere che, a differenza di quanto fanno i criminali, non si possono mai aggirare.
Lo spazio giuridico comune non esiste. L'Europa che, dopo il 1989, è diventata per il crimine un enorme cortile in cui allegramente scorazzare, è ancora divisa, per i giuristi, da tanti muri e muretti chiamati "sovranità nazionale". Per giudici e polizie quei muri non sono mai caduti.
Estendere lo spazio Schengen, facilitare lo scambio diretto di informazioni fra operatori della giustizia, creare lo spazio giuridico europeo è il nostro obiettivo: elemento essenziale (non unico, ma essenziale) per la costruzione di un'Europa politica, fondata su diritti e doveri comuni a tutti i cittadini europei.
"

Dottor Borgna, all’epoca delle stragi di Capaci e via D’Amelio lei era un giovane magistrato. Come incisero sulla sua visione della giustizia e dell'impegno per la legalita' il sacrificio di Falcone e Borsellino e la reazione che ne segui'?

"Per i magistrati - così come per molti giovani impegnati, nella società civile, sul fronte antimafia - quelle stragi costituirono un punto di svolta. L'inizio di una nuova fase di impegno, che ha segnato un'intera generazione.
La risposta delle istituzioni fu, complessivamente, straordinaria. Basti pensare a cosa significò la domanda di ricoprire l'incarico di procuratore della Repubblica formulata da Gian Carlo Caselli a pochi giorni da via D'Amelio. Fu un esempio positivo, una spinta propulsiva che oggi molti dimenticano e che invece dovremmo più spesso ricordare. Per noi (magistrati più o meno giovani) fu un'iniezione di fiducia, un incoraggiamento di cui saremo sempre grati a Caselli.
"

Ricorda quale impatto ebbero sulla societa' civile e sullo Stato le stragi mafiose del '92?

"Le stragi di Capaci e di via D'amelio costituirono un vero punto critico per il rapporto tra cittadini e Stato. Soprattutto dopo la strage di via D'Amelio - così tragicamente vicina a quella di Capaci - fu palpabile, tra i cittadini, un momento di sgomento: pareva che lo Stato, di fronte a quell'attacco militare così virulento, non potesse farcela.
Altre nazioni, con tradizioni democratiche ben più antiche e gloriose della nostra, non avrebbero esitato, di fronte ad una simile dichiarazione di guerra della mafia, a ricorrere a strumenti militari. Ne abbiamo degli esempi anche recenti (pensiamo alla civilissima Gran Bretagna: che, di fronte al terrorismo dell'IRA, non ha esitato ad impiegare l'esercito).
Possiamo dire invece che l'Italia ce l'ha fatta senza ricorrere a leggi eccezionali. E' un'impresa che, per me, ha quasi dell'incredibile.
"

Fu direttamente coinvolto nei momenti che portarono alla strage Ferdinando Imposimato, giudice istruttore dei più importanti casi di terrorismo (caso Moro, attentato al Papa, omicidi di alti magistrati), che si è occupato di processi contro Mafia e Camorra ed e' stato membro della Commissione Parlamentare Antimafia.
Egli stesso pago’ la sua lotta alla criminalita' organizzata venendo colpito negli affetti familiari: l'11 ottobre 1983 fu ucciso dalla camorra suo fratello Francesco. Secondo le indagini della Dia, infatti, Cosa Nostra, ritenendo troppo rischioso uccidere il magistrato, decise di ucciderne il fratello Francesco, affidando il compito alla camorra che aveva interesse alla sua eliminazione perché, come sindacalista, aveva avviato iniziative contro lo sfruttamento abusivo delle cave nel casertano.
Per tale omicio vennero condannati due anni fa all'ergastolo in corte d'assise il capomafia Pippo Calò ed il boss della camorra Vincenzo Lubrano.

Sen. Imposimato, puo’ delinearci la figura del dottor Borsellino come apparve a lei al primo incontro?

"Incontrai Paolo Borsellino diverse volte tra i primi anni ottanta e i primi anni novanta.
I nostri rapporti veri e propri iniziarono dopo la morte di Rocco Chinnici e l'arrivo di Antonino Caponnetto, che mi chiese del pool antiterrorismo da me creato a Roma e della possibilità di trasferire quella esperienza nella lotta alla mafia. C'era anche Paolo Borsellino a quegli incontri con Giovanni Falcone.
Dissi di si'. E nacque il pool antimafia sotto la guida di Caponnetto. C'erano Falcone, Borsellino, e Di Lello.
Borsellino mi fu subito simpatico per la sua dolcezza e la sua disponibilità al dialogo.
Anche se era riservato. Era un riflessivo, modesto, intelligente. Non un pallone gonfiato. Tutto era tranne un ambizioso carrierista.
Ma mi diede anche l'impressione di una grande forza e determinazione nel lottare contro la mafia. Ma anche di una grande fragilità contro gli attacchi che gli venivano dai politici ispirati da mafiosi.
"

E con l'avvicinarsi del periodo della strage, vide in lui dei segnali di scoraggiamento o preoccupazione?

"L'ultimo incontro tra me e Borsellino avvenne a Marsala, ove lui era Procuratore della Repubblica. C'era un convegno organizzato da un parlamentare socialista. Lo incontrai in una pausa del convegno e lo salutai con grande calore e simpatia. Aveva la solita sigaretta accesa ed il viso stanco e triste.
Era reduce dagli attacchi di Leonardo Sciascia che lo aveva inserito nel novero dei professionisti dell'antimafia. Niente di più falso. Ma Sciascia era una specie di mostro sacro intoccabile, anche se diceva un'assurdità come quella riferita a Borsellino. Le accuse di Sciascia però servirono ad isolare ancora di piu’ Paolo Borsellino, preparando il terreno per l'inchiesta del CSM e per la strage di via D'Amelio.
All'epoca ero parlamentare eletto come indipendente del PCI e mi battevo in commissione antimafia sulla questione degli appalti nelle grandi opera pubbliche. Ed anche lui si interessava come giudice degli stessi problemi.
Avevamo imboccato ancora una volta una questione cruciale
."

Sen. Imposimato, conoscendo Falcone e Borsellino, ed alla luce della sua esperienza di magistrato e di componente della commissione antimafia, che idea si e' fatto delle dinamiche che portarono alla strage di via d'Amelio?

"Prima della strage, Paolo si stava interessando dei rapporti tra mafia e politica. Non mancava molto a quel fatale 19 luglio del 1992.
Avevo parlato per telefono con lui dell'inchiesta sugli appalti. Lui era molto schivo e riservato. Non volle parlarne per telefono.
Borsellino disse "Dobbiamo trovare una soluzione per fare in modo che gli imprenditori collaborino." Evidentemente Borsellino si riferiva agli imprenditori che pagavano le mazzette, ma anche ai mafiosi come Tommaso Buscetta che avevano cominciato a collaborare, prima con me e Falcone e poi con altri.
Borsellino era riuscito a convincere alcuni dei mafiosi a parlare dei meccanismi e dei beneficiari dell'imbroglio, dei politici, degli amministratori, imprenditori, mafiosi, faccendieri e decine di magistrati che fungevano da controllori controllati.
Interrogando Gaspare Mutolo, aveva saputo della reazione rabbiosa della mafia alle inchieste di Falcone sugli appalti delle grandi opere pubbliche.

Confesso che molte cose le ho comprese dopo la lettura della requisitoria del Pubblico Ministero Luca Tescaroli al processo d'appello per la strage di Capaci
. Dopo la strage di Capaci, a chiarire la intricata ed esplosiva vicenda fu il consulente finanziario di Totò Riina, il dottor Angelo Siino, che collaborava con i giudici di Palermo e di Caltanissetta.
Verso la fine del 1991 - anno in cui era partito il grande affare dell'Alta Velocita’ - un irato Ignazio Salvo, il noto gabelliere di Palermo, aveva detto a Siino che Giovanni Falcone "s'avia fottuto a testa".
Ciò aveva suscitato l'allarme anche del mafioso Buscemi Antonino, la quinta colonna di Cosa Nostra all'interno degli appalti. Siino aggiunse che ad allarmare Cosa Nostra era stata una battuta di Falcone, che aveva colto nel segno: "la mafia é entrata in borsa".
Parlando con Gaspare Mutolo, Borsellino venne a sapere che Falcone era stato ucciso per le inchieste sugli appalti. Ma Borsellino era troppo legato a Giovanni Falcone per abbandonare l'inchiesta che lo avrebbe portato ai mandanti della strage di Capaci.

E quella curiosità segnò anche la fine di Paolo Borsellino, amico dolcissimo e generoso."

Bollettino Osservatorio

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