OMAGGIO
A PAOLO BORSELLINO
di Rita Guma
Con
le testimonianze del dott. Paolo Borgna
e del sen. Ferdinando Imposimato
parte
seconda
Se in Italia
vi sono difficolta’ nell’accertamento della verita’ nei processi di mafia
e nel perseguimento dei colpevoli, altri ostacoli si incontrano per quanto
riguarda le indagini internazionali. Molta parte del riciclaggio del denaro
sporco connesso ai reati di mafia avviene all’estero, nelle banche svizzere,
nei casino’ e nei cosiddetti "stati canaglia". Oggi, poi, le mafie si
sono "evolute", hanno trovato nuovi sbocchi, parlano anche altre ligue
- il rumeno, il russo, l'albanese.
Il dott.
Paolo Borgna, sostituto procuratore presso la divisione antimafia di Torino,
ha trascorso due anni a Bruxelles proprio per studiare le tecniche dei
nuovi gruppi criminali dell'est e gli istituti giuridici internazionali
disponibili per fronteggiare questi fenomeni.
Dottor Borgna,
quali sono gli ostacoli principali nella lotta alle mafie internazionali
con l'avvento della globalizzazione del crimine?
"Non c'è
alcun dubbio: l'ostacolo principale è costituito dalla lentezza e dalla
farraginosità della cooperazione di polizia e giudiziaria. In un'epoca
in cui tutto - le persone, le merci, le notizie - circola, in modo lecito
o non lecito (poco importa), l'unica merce che conosce ancora le vecchie
frontiere è la Giustizia. Indagini di polizia e magistrati si fermano
ancora di fronte a rigide barriere che, a differenza di quanto fanno i
criminali, non si possono mai aggirare.
Lo spazio giuridico comune non esiste. L'Europa che, dopo il 1989, è diventata
per il crimine un enorme cortile in cui allegramente scorazzare, è ancora
divisa, per i giuristi, da tanti muri e muretti chiamati "sovranità nazionale".
Per giudici e polizie quei muri non sono mai caduti.
Estendere lo spazio Schengen, facilitare lo scambio diretto di informazioni
fra operatori della giustizia, creare lo spazio giuridico europeo è il
nostro obiettivo: elemento essenziale (non unico, ma essenziale) per la
costruzione di un'Europa politica, fondata su diritti e doveri comuni
a tutti i cittadini europei."
Dottor Borgna,
all’epoca delle stragi di Capaci e via D’Amelio lei era un giovane magistrato.
Come incisero sulla sua visione della giustizia e dell'impegno per la
legalita' il sacrificio di Falcone e Borsellino e la reazione che ne segui'?
"Per i
magistrati - così come per molti giovani impegnati, nella società civile,
sul fronte antimafia - quelle stragi costituirono un punto di svolta.
L'inizio di una nuova fase di impegno, che ha segnato un'intera generazione.
La risposta delle istituzioni fu, complessivamente, straordinaria. Basti
pensare a cosa significò la domanda di ricoprire l'incarico di procuratore
della Repubblica formulata da Gian Carlo Caselli a pochi giorni da via
D'Amelio. Fu un esempio positivo, una spinta propulsiva che oggi molti
dimenticano e che invece dovremmo più spesso ricordare. Per noi (magistrati
più o meno giovani) fu un'iniezione di fiducia, un incoraggiamento di
cui saremo sempre grati a Caselli."
Ricorda quale
impatto ebbero sulla societa' civile e sullo Stato le stragi mafiose del
'92?
"Le stragi
di Capaci e di via D'amelio costituirono un vero punto critico per il
rapporto tra cittadini e Stato. Soprattutto dopo la strage di via D'Amelio
- così tragicamente vicina a quella di Capaci - fu palpabile, tra i cittadini,
un momento di sgomento: pareva che lo Stato, di fronte a quell'attacco
militare così virulento, non potesse farcela.
Altre nazioni, con tradizioni democratiche ben più antiche e gloriose
della nostra, non avrebbero esitato, di fronte ad una simile dichiarazione
di guerra della mafia, a ricorrere a strumenti militari. Ne abbiamo degli
esempi anche recenti (pensiamo alla civilissima Gran Bretagna: che, di
fronte al terrorismo dell'IRA, non ha esitato ad impiegare l'esercito).
Possiamo dire invece che l'Italia ce l'ha fatta senza ricorrere a leggi
eccezionali. E' un'impresa che, per me, ha quasi dell'incredibile."
Fu direttamente
coinvolto nei momenti che portarono alla strage Ferdinando Imposimato,
giudice istruttore dei più importanti casi di terrorismo (caso Moro, attentato
al Papa, omicidi di alti magistrati), che si è occupato di processi contro
Mafia e Camorra ed e' stato membro della Commissione Parlamentare Antimafia.
Egli stesso pago’ la sua lotta alla criminalita' organizzata venendo colpito
negli affetti familiari: l'11 ottobre 1983 fu ucciso dalla camorra suo
fratello Francesco. Secondo le indagini della Dia, infatti, Cosa Nostra,
ritenendo troppo rischioso uccidere il magistrato, decise di ucciderne
il fratello Francesco, affidando il compito alla camorra che aveva interesse
alla sua eliminazione perché, come sindacalista, aveva avviato iniziative
contro lo sfruttamento abusivo delle cave nel casertano.
Per tale omicio vennero condannati due anni fa all'ergastolo in corte
d'assise il capomafia Pippo Calò ed il boss della camorra Vincenzo Lubrano.
Sen. Imposimato,
puo’ delinearci la figura del dottor Borsellino come apparve a lei al
primo incontro?
"Incontrai
Paolo Borsellino diverse volte tra i primi anni ottanta e i primi anni
novanta.
I nostri rapporti veri e propri iniziarono dopo la morte di Rocco Chinnici
e l'arrivo di Antonino Caponnetto, che mi chiese del pool antiterrorismo
da me creato a Roma e della possibilità di trasferire quella esperienza
nella lotta alla mafia. C'era anche Paolo Borsellino a quegli incontri
con Giovanni Falcone.
Dissi di si'. E nacque il pool antimafia sotto la guida di Caponnetto.
C'erano Falcone, Borsellino, e Di Lello.
Borsellino mi fu subito simpatico per la sua dolcezza e la sua disponibilità
al dialogo.
Anche se era riservato. Era un riflessivo, modesto, intelligente. Non
un pallone gonfiato. Tutto era tranne un ambizioso carrierista.
Ma mi diede anche l'impressione di una grande forza e determinazione nel
lottare contro la mafia. Ma anche di una grande fragilità contro gli attacchi
che gli venivano dai politici ispirati da mafiosi."
E con l'avvicinarsi
del periodo della strage, vide in lui dei segnali di scoraggiamento o
preoccupazione?
"L'ultimo
incontro tra me e Borsellino avvenne a Marsala, ove lui era Procuratore
della Repubblica. C'era un convegno organizzato da un parlamentare socialista.
Lo incontrai in una pausa del convegno e lo salutai con grande calore
e simpatia. Aveva la solita sigaretta accesa ed il viso stanco e triste.
Era reduce dagli attacchi di Leonardo Sciascia che lo aveva inserito nel
novero dei professionisti dell'antimafia. Niente di più falso. Ma Sciascia
era una specie di mostro sacro intoccabile, anche se diceva un'assurdità
come quella riferita a Borsellino. Le accuse di Sciascia però servirono
ad isolare ancora di piu’ Paolo Borsellino, preparando il terreno per
l'inchiesta del CSM e per la strage di via D'Amelio.
All'epoca ero parlamentare eletto come indipendente del PCI e mi battevo
in commissione antimafia sulla questione degli appalti nelle grandi opera
pubbliche. Ed anche lui si interessava come giudice degli stessi problemi.
Avevamo imboccato ancora una volta una questione cruciale."
Sen. Imposimato,
conoscendo Falcone e Borsellino, ed alla luce della sua esperienza di
magistrato e di componente della commissione antimafia, che idea si e'
fatto delle dinamiche che portarono alla strage di via d'Amelio?
"Prima
della strage, Paolo si stava interessando dei rapporti tra mafia e politica.
Non mancava molto a quel fatale 19 luglio del 1992.
Avevo parlato per telefono con lui dell'inchiesta sugli appalti. Lui era
molto schivo e riservato. Non volle parlarne per telefono.
Borsellino disse "Dobbiamo trovare una soluzione per fare in modo che
gli imprenditori collaborino." Evidentemente Borsellino si riferiva agli
imprenditori che pagavano le mazzette, ma anche ai mafiosi come Tommaso
Buscetta che avevano cominciato a collaborare, prima con me e Falcone
e poi con altri.
Borsellino era riuscito a convincere alcuni dei mafiosi a parlare dei
meccanismi e dei beneficiari dell'imbroglio, dei politici, degli amministratori,
imprenditori, mafiosi, faccendieri e decine di magistrati che fungevano
da controllori controllati.
Interrogando Gaspare Mutolo, aveva saputo della reazione rabbiosa della
mafia alle inchieste di Falcone sugli appalti delle grandi opere pubbliche.
Confesso
che molte cose le ho comprese dopo la lettura della requisitoria del Pubblico
Ministero Luca Tescaroli al processo d'appello per la strage di Capaci
. Dopo la strage di Capaci, a chiarire la intricata ed esplosiva vicenda
fu il consulente finanziario di Totò Riina, il dottor Angelo Siino, che
collaborava con i giudici di Palermo e di Caltanissetta.
Verso la fine del 1991 - anno in cui era partito il grande affare dell'Alta
Velocita’ - un irato Ignazio Salvo, il noto gabelliere di Palermo, aveva
detto a Siino che Giovanni Falcone "s'avia fottuto a testa".
Ciò aveva suscitato l'allarme anche del mafioso Buscemi Antonino, la quinta
colonna di Cosa Nostra all'interno degli appalti. Siino aggiunse che ad
allarmare Cosa Nostra era stata una battuta di Falcone, che aveva colto
nel segno: "la mafia é entrata in borsa".
Parlando con Gaspare Mutolo, Borsellino venne a sapere che Falcone era
stato ucciso per le inchieste sugli appalti. Ma Borsellino era troppo
legato a Giovanni Falcone per abbandonare l'inchiesta che lo avrebbe portato
ai mandanti della strage di Capaci.
E quella
curiosità segnò anche la fine di Paolo Borsellino, amico dolcissimo e
generoso."
Bollettino
Osservatorio
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