notiziario 28 luglio 2002

 
     

Giornalismo e immigrazione.

Ignoro cosa possa aver spinto gli organizzatori a produrre un’abbinata così scellerata. E’ infatti notorio che in un paese dove esistono fenomeni migratori, ma non fenomeni di stampo giornalistico, detti giornali o telegiornali, unire il serio al faceto produce solo satira. Il modo in cui l’informazione affronta i temi inerenti all’immigrazione è infatti, a destra, al centro e a sinistra, esilarante.

La norma base, valida per tutti e quasi in tutti i casi, è che l’immigrato non è una persona. Si spazia dal criminale alla Hannibal The Cannibal dei quotidiani di Lega e destra, al cagnolino fedele o gatto sornione del centro, fino al Beato Scrosoppi (per restare in Regione) della sinistra. Di umano non ha nulla, se non bassi istinti ladreschi e omicidi o una tendenza al sacrificio che rasenta il masochismo dell’ascesi. Sulla base dell’inesistenza di questi curiosi esseri è ovvio che il giornalista sia completamente in balìa, più di quanto non accada di solito e spesso anche contro la propria etica professionale, dell’editore e delle linee del proprio giornale.

E, ribadisco, vale per tutto l’arco parlamentare. Si crea cioè un problema di doppia tutela. Tutelare i diritti degli immigrati dai giornalisti e tutelare i giornalisti da loro stessi. In teoria esistono già carte di diritti e regole dettate dall’Ordine professionale. Che vengono regolarmente scardinate a causa dell’assunto iniziale e dalla cronicità e dal processo in atto di globalizzazione dell’ignoranza.

L’immigrazione è un fenomeno che accompagna la storia del genere umano. Migranti a branchi o in solitario, il nomadismo era e è ancora una peculiarità della razza umana. Solo in tempi molto recenti anche gli europei bianchi, di religione cattolica e di lingua italiana hanno scoperto la possibilità di essere stanziali. Un’opportunità temporale, dal momento che il sistema mercato non riesce a trovare in questa stanzialità risposta alle sue richieste di flessibilità, soddisfatte appunto dal migrante. Come dire se io resto a casa, qualcun altro deve lasciare la propria.

Al momento attuale a questo sistema mercato si stanno opponendo capolavori di demagogia e populismo, che, piacciano o meno, non servono sicuramente a scardinare un sistema. In tal senso i più onesti sono gli industriali del nord est che affermano tranquillamente di aver bisogno di manodopera a basso costo e flessibile e di norme minime che assicurino il ricambio. Dicono quanto a loro serve. Limpidi nella melma.

A parte questa voce, i proclami sono di solito quanto il giornalista riporta. Se per tacitare le paure del benpensante basta urlare che gli immigrati sono tutti criminali da pena di morte, il politico di turno lo dice, il giornalista trascrive. Se per lavare la coscienza dell’elettorato gli immigrati sono tutti esseri di celestiale bellezza sfruttati, il politico parla, il giornalista lo rende pubblico. Non ci sono politici che si sforzano di affrontare la questione sulla normale base del e dei diritti della persona, né pertanto i giornalisti –mi pare di parlare di cani a cui è stato lanciato l’osso- riportano.

Anche perché non ci sono, nel 99% dei casi, giornalisti che fanno effettivamente giornalismo. Cioè non c’è giornalismo. Quello che comprate si chiama giornale, quello che vedete telegiornale. Nella quotidianità vengono fatti copiando notizie d’agenzia, comunicati e riassumendo quanto detto alle conferenze stampa. L’inchiesta su campo è stata da tempo soppiantata dai così detti sondaggi.

I ritmi e i mezzi tecnici di un giornale hanno sostanzialmente modificato la professione. Il rapporto diretto è con il computer e con tutte le potenzialità d’informazione a esso connesse (in primis Internet), non più con la realtà. E, dulcis in fundo, nessuno pensa più che per essere letti sia necessario raccontare i fatti, anche e soprattutto quelli positivi.

Qui apro una parentesi. Per chi lavora a diretto contatto con gli immigrati leggere che la famiglia di Mohmaed Musakà ha trovato casa e lavoro decenti, i figli sono inseriti a scuola, e va tutto benone sarebbe motivo di orgoglio. Spesso anche chi legge vorrebbe godere di notizie liete, anche perché dietrologia e catastrofismo hanno rotto i coglioni a più di qualcuno. Tenuto presente che per fortuna spesso né i fatti presunti, né le tragedie cosmiche si verificano.

Ma è una soddisfazione che nessun giornale intende dare in virtù di un malinteso concetto di notizia. Bisogna esagerare e l’esagerazione nel bene è più difficile e patetica di quella nel male. Vai allora con i cataclismi epocali, di cui gli immigrati fanno regolarmente le spese. La titoliamo emergenza. Anche se è la normalità di un qualsiasi giorno feriale o festivo da dieci anni a questa parte. La chiamiamo emergenza sia nel caso la si voglia usare per blindare con filo spinato munito di sensore satellitare gli arbusti di 380 chilometri di confine e chiedere i documenti alle cernie, sia quando dobbiamo più semplicemente spiegare che non c’è uno straccio di posto letto dove ospitare una decina di bengalesi intirizziti.

L’emergenza, per un altro curioso fenomeno del giornalismo italiano, appare dal nulla. Il nostro paese pare sia un’isola e non una penisola. In questo siamo molto british. Nell’atollo sperduto nell’Atlantico chiamato Italia succede di tutto, nel resto del globo nulla. Se avessimo anche una politica estera che non passa solo per la moda e le Ferrari magari scopriremmo che in Turchia o in Iraq in determinati momenti si accentua la persecuzione nei confronti dei curdi o che la Francia ha drasticamente contingentato gli ingressi dei marocchini. Magari i giornalisti riporterebbero, magari si scoprirebbe il perché di un particolare flusso di curdi o di marocchini verso l’Italia (e, in quest’ultimo caso, da qui verso la Francia).

Ma non abbiamo politica estera –a parte le indossatrici e Schumacher- e farne significa scardinare la gioiosa macchina da guerra delle nostre gloriose ambasciate, costringendo tanti bravi italiani lontani da casa ad abbandonare calici e salatini e valutare a chi, come, perché e fino a quando assegnare, gratis, un visto d’ingresso nel nostro paese. Prima che alle forze dell’ordine, toccherebbe a loro.

A oggi non ho trovato un’inchiesta sul lavoro delle ambasciate in materia d’immigrazione. Lo farei volentieri, ma non ho copertura finanziaria per permettermelo. Se fin qui la situazione fa schifo, dopo è peggio. Il peggio riguarda i minori stranieri. Per definizione un minore in Italia è un minorato. Non ha una personalità, non ha una sessualità, non è in grado d’intendere e di volere. Allo scoccare del diciottesimo anno diventa essere umano, anche se per molto tempo, essendo la famiglia tradizionale fondamento della società, dovrà fare i conti con madri terrorizzate dal fatto che la discoteca gli causa incidenti d’auto e che il branco lo trascina sulla cattiva strada.

Il/la minorato/a italiano/a si emancipa con molto ritardo anche perché, per una questione di comodo, preferisce farsi dare dell’idiota piuttosto che affrontare gli oneri connessi a qualsiasi emancipazione. I giornalisti ci sguazzano, vuoi perché il minorato italiano è fonte inesauribile di consumi (più del pensionato, forma di minorato di ritorno, meglio noto come peso sociale), vuoi perché stuzzica il sacro valore della maternità. Prendete il recente caso di Erika e Omar.

Sognare di sgozzare il fratello minore rompiballe e la madre perfettina e evergreen è un normalissimo sentimento comune a chiunque non pratichi l’ipocrisia di professione e sia vivo. Farlo è assolutamente da anormali. Se poi la stampa e le televisioni sostengono che i ragazzi potevano essere uno qualunque dei nostri figli, posso anche starci, ma devo ammettere prima che non m’ero accorta di alcuni segnali di profondo disagio che provenivano dai nostri figli… Anche la malattia mentale, la più crudele, lancia messaggi prima di esplodere. Ho scelto questo caso perché mi permette di arrivare ai minori stranieri nell’informazione. E non per l’impegno profuso da Erika nel procurarsi un alibi. E’ del tutto normale che, vivendo in un ambiente che conosce e capisce gli immigrati quanto conosce e capisce lei, si aggrappasse agli albanesi per evitare il carcere.

M’interessa caso mai il numero di fesserie che sono state dette e scritte sul caso. Erika è una bianca, di religione cattolica, benestante e di lingua italiana. Minore. Le fosse mancato uno di questi cinque particolari il caso, per l’informazione, avrebbe preso una piega diversa. Raccoglie in sé quattro elementi che ne fanno una ‘normale’ per definizione, più un quinto che l’assolve (e la condanna a vita, comunque finiscano le vicende giudiziarie). E’ una ‘normale’ che non è in grado di intendere e di volere. E non lo sarà mai più. La carta di Treviso può chiedere (con scarsi risultati) che non circoli la sua foto, ma l’essenza non cambia. Sorridevo amaramente a una domanda posta da un collega su cosa lei e Omar rischiassero (in termini giuridici): aveva perso il senno, il collega, non si rendeva conto che quei due s’erano giocati tutto e basta, sani o no di mente fossero stati.

Per il minore straniero le cose vanno in apparenza meglio. Non voglio immaginare Erika, minorenne profuga bosniaca, e Omar, profugo rumeno, alle prese con un delitto. Linciaggio e lapidazione, cortei per la pena di morte e quant’altro sarebbero le iniziative più lievi. Immagino Erika e Omar, profughi dall’est balcanico, nella realtà di ogni giorno. Hanno sedici anni all’anagrafe, molti di più per l’informazione. Non sono minorati. Sono minorenni condannati –come i pensionati- ad essere pesi sociali. Palle al piede di cui disfarsi al compimento del diciottesimo anno d’età, perché prima magari qualcuno rompe le scatole con la storia della Convenzione di New York.

La loro storia, solitamente non allegra (ma cosa sappiamo poi veramente delle storie dei minori e di quella terribile età che per luogo comune viene definita come la migliore della vita?), pesa come un macigno non tanto su loro come persone (è comune a tutti gli esseri umani), ma sui loro diritti. Casa, cibo, studi, salute, svago: un tanto al chilo per tacitare coscienze pelose. Prima scompaiono e acquisiscono quell’età anagrafica che permette a tutti di dimenticare che per qualche ignoto motivo le loro mamme non hanno avuto tempo o modo di andare a parlare coi professori, prima crescono anagraficamente meglio è.

Da anni ho imparato che le madri curde sono un esempio di civiltà per tutte noi. Me l’ha insegnato il dottor Apa rispedendo in Turchia un coso grande e grosso, curdo afflitto da epilessia, di diciassette anni. L’ha riconfermato l’allora ministro degli Interni Napolitano, rispondendo a un’interrogazione. Li sanno far crescere in fretta, vuoi mettere le yiddische mamele o la mammà italiota… Se l’immigrato non è una persona, il minore immigrato non lo è due volte.

Cosa si può fare? Nulla è la prima risposta che mi viene in mente e mi pare già qualcosa. Piuttosto che scrivere fesserie, piuttosto che far circolare disinformazione, piuttosto che creare falsi allarmi è meglio ricordarsi che ‘un bel tacer non fu mai scritto’. Oppure tornare a fare giornalismo su campo, ammesso e non concesso esistano testate che apprezzano quest’insolita forma deideologizzata di informazione. Ricette non ce ne sono. Vale per i giornalisti come per chi opera in qualsiasi altro settore.

La cultura è un ottimo antidoto contro la cattiva informazione. La libertà di pensiero è il migliore. Funziona anche qualche piccola regola morale, come quella obsoleta del rispetto verso gli altri.

Nel caso in questione funzionerebbe persino una massima da ‘Quelli della notte…’: c’è l’albanese buono e l’albanese cattivo, c’è l’italiano buono e l’italiano cattivo, c’è il curdo buono e c’è il curdo cattivo… non mi ricordo più quanti miliardi siamo sulla terra, ma sono sicura che con tanta gente non ce n’è uno che mi somigli. O che somigli a Elena Benvenuto, che ha avuto la pessima idea di chiamarmi. O a chiunque dei presenti e degli assenti…Persino Schiavone, per fortuna, è irripetibile… Francesca Longo (Trieste)

2 aprile 2002 Francesca Longo intervento ad un convegno a Trieste, da Il Barbiere della sera.

Nota. Apa è il capo della Polmare, gli altri gente che lavora per il Consorzio Italiano di solidarietà (Ics) e si occupano d’immigrazione.

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