notiziario 27 gennaio 2002

 
     

UNA RIFLESSIONE SUL TESTO DI RIFORMA DELLA LEGGE IMMIGRATI: INTEGRARE È MEGLIO CHE REPRIMERE
di don Luigi Ciotti
Fondatore del Gruppo Abele

Se la democrazia di un Paese si misura soprattutto dalla capacità di affermare e tutelare i diritti fondamentali delle persone, ad analizzare il testo di riforma della Legge sull’immigrazione verrebbe da concludere che l’Italia è un Paese poco democratico. Fa male a dirlo, ma è così. È difficile pensare a una negazione dei diritti più evidente di questa.

Prendiamo ad esempio la normativa che riguarda le espulsioni: l’accompagnamento coattivo alla frontiera diventa la forma ordinaria dell’esecuzione del provvedimento e, salvo poche eccezioni, colpisce ogni forma d’irregolarità.

Tale generalizzazione, però, associata alle nuove norme che condizionano sempre più il permesso di soggiorno al contratto lavorativo, produrrà un effetto contrario a quello sperato: aumenteranno quelli che da regolari diventano irregolari e da irregolari, clandestini. Senza contare che le espulsioni – valga l’esperienza di Paesi che hanno apparati repressivi forse più efficienti del nostro – sono eseguibili in minima parte.

Il legislatore sembra tuttavia esserne consapevole, se è vero che prolunga da 30 a 60 giorni la detenzione nei centri di accoglienza: se al termine dei due mesi l’espulsione non è stata eseguita, l’immigrato dovrà essere rilasciato e avrà cinque giorni a disposizione per lasciare il Paese. Non facendolo, verrà ritenuto colpevole di un reato punibile con la reclusione da sei mesi a un anno e successiva espulsione. In caso di recidiva, ecco scattare un aumento della pena: da uno a quattro anni.

Ma queste misure di carattere penale, che più che colpire un reato sembrano prefigurare come reato la condizione stessa di migrante, si accompagnano ad altre misure ugualmente restrittive. Il legame tra permesso di soggiorno e lavoro viene ulteriormente irrigidito: la durata del permesso di soggiorno rinnovato è dimezzata, mentre è ridotto da un anno a sei mesi il periodo di tempo concesso a chi perde il posto di lavoro per trovarne un altro.

Con ogni evidenza, si cerca da un verso di rendere ancora più precaria la condizione giuridica del migrante, dall’altro di venire incontro al bisogno di manodopera a basso costo, incrementando l’area del lavoro nero e dello sfruttamento. L’abolizione dell’istituto dello sponsor e la limitazione nei ricongiungimenti familiari sono poi un’ulteriore dimostrazione di come il progetto di riforma consideri il migrante non come una risorsa e una persona detentrice di diritti, ma come un soggetto da controllare e utilizzare con il massimo arbitrio.

Concezione non solo contraria a ogni principio di giustizia sociale, ma anche miope, dal momento che non tiene conto che le spinte che determinano l’immigrazione – prima fra tutte la diversità di condizione di vita tra Paesi ricchi e poveri – sono molto più forti delle norme che vorrebbero arginarla. A conti fatti, sono proprio le politiche di mera repressione e contenimento ad aver reso l’immigrazione un problema, mentre cause e dimensioni del fenomeno avrebbero dovuto suggerire misure flessibili e lungimiranti, capaci di favorire l’integrazione nel pieno rispetto della legalità.

Mi rendo conto che si tratta di una strada difficile, ma credo anche sia la sola in grado di spezzare il circolo vizioso di politiche dal fiato corto, incapaci di capire come la povertà dell’immigrato ci chiami in causa in quanto effetto di un modello economico che, mentre garantisce il benessere di una parte del mondo, produce altrove, con un’efficienza senza precedenti, povertà, abbandono e risentimento. Per questo credo anche che la globalizzazione economica debba procedere di pari passo a una globalizzazione dei diritti.

È soltanto globalizzando i diritti, cioè riducendo il più possibile le zone del mondo dove mancano giustizia e legalità, che potremo realizzare nuove forme di convivenza civile. Si parla tanto di cittadinanza globale, in questi tempi; ma essere "cittadini globali" significa proprio questo: pensare ai diritti degli altri come se fossero i nostri diritti. E ai nostri diritti come se fossero quelli degli altri.

Famiglia Cristiana 27/01/02

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