18 novembre 2003
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Apartheid:
non solo segregazione Apartheid: "termine olandese entrato nell'uso comune per designare la segregazione razziale, in special modo quella attuata nei confronti della popolazione di colore da parte della minoranza bianca in Sudafrica". Una così sobria definizione non lascia certo immaginare quale terribile realtà di odio, di dolore e di morte si celi dietro questa parola. Al di là della retorica esaltazione di grandi personalità, come i premi Nobel Nelson Mandela e Desmond Tutu, e della rituale condanna della segregazione razziale, l'opinione pubblica italiana conosce infatti ben poco degli orrori dell'apartheid e dell'opera di pacificazione condotta in Sudafrica dalla Commissione per la Verità e la Riconciliazione. Utilissima per chi vuol saperne di più è perciò la lettura del volume di Danilo Franchi e Laura Miani La verità non ha colore (Edizioni Comedit 2000) che, riportando alcune sconvolgenti testimonianze di vittime e di responsabili della violazione dei diritti umani raccolte dalla suddetta Commissione, illumina la tragica storia del Sudafrica e la strada seguita per costruire una società più giusta e pacifica. Già quasi tre secoli fa l'estremo lembo meridionale dell'Africa fu colonizzato da Europei, in maggioranza Olandesi e di religione calvinista, che cominciarono ad opprimere la popolazione indigena sulla base di poche semplici convinzioni: quella terra era stata assegnata da Dio a loro, bianchi e cristiani, che avevano perciò il diritto di possederla e di difendere la loro superiore civiltà senza mescolarsi con gli altri popoli. Si capisce come il razzismo nazista, diffuso dalla forte immigrazione tedesca in Sudafrica degli anni trenta del Novecento, abbia ivi trovato un terreno fertile. Così, dopo la fine della seconda guerra mondiale, il governo vara una legislazione che sancisce nella maniera più radicale la separazione tra i bianchi e i popoli inferiori, soprattutto neri, ridotti a una sudditanza senza possibilità di riscatto e costretti a lavorare in condizioni di mera sopravvivenza. L'oppressione esercitata dalla minoranza bianca non può non provocare la reazione dei neri che, organizzati nell'African National Congress, danno vita a campagne di massa basate sulla disobbedienza civile e sulla resistenza passiva. La risposta del governo, in difesa dei privilegi dei bianchi, è la repressione cruenta sia per mezzo dell'esercito che di forze paramilitari, i cui crimini restano regolarmente impuniti, tanto da indurre gli stessi movimenti di liberazione a ricorrere alla violenza. Solo negli anni novanta, dopo un conflitto che ha causato enormi sofferenze, comincerà ad essere abrogata la legislazione dell'apartheid e saranno avviati i negoziati per l'approvazione della nuova Costituzione che sancirà l'uguaglianza dei diritti tra tutti i cittadini del Sudafrica. Ma come superare divisioni così profonde e radicate, che hanno provocato tanti lutti e tanto odio, e realizzare un'effettiva unità nazionale? La soluzione non può essere l'oblio del passato nè lo spirito di vendetta: solo l'accertamento della verità sui reati commessi può portare al perdono, e quindi alla guarigione delle ferite e alla riconciliazione. Proprio da questa esigenza di pacificazione non esteriore è scaturita l'idea di una Commissione che, raccogliendo migliaia di testimonianze, ha tentato di ricostruire la realtà storica, portando alla luce i crimini commessi e rendendoli di pubblico dominio, in modo da restituire alle vittime dignità e diritti e promuovere nella società la crescita della sensibilità etica e del rispetto della legalità, condizioni indispensabili per evitare che gli orrori del passato possano ripetersi. Ecco allora sfilare davanti alla Commissione vittime, carnefici e anche cittadini che con la loro indifferenza si sono resi corresponsabili dei massacri. Donne e uomini di colore che, poichè sospettati di battersi per il riconoscimento dei loro diritti, vengono allontanati dai familiari di cui non hanno più notizie, privati per giorni e giorni di cibo e di sonno, fatti oggetto di violenze sessuali, psicologicamente e fisicamente torturati. Difficilmente calcolabile, poi, è il numero di coloro che vengono uccisi. Dai sopravvissuti è possibile ascoltare il racconto agghiacciante di sofferenze atroci, nella stragrande maggioranza dei casi inflitte da poliziotti con l'avallo dei loro superiori e delle leggi dello stato. Inevitabile chiedersi: come è stato possibile tutto questo? Come si è arrivati a una crudeltà tanto disumana? Chi erano i torturatori? Erano uomini comuni che avevano recepito la mentalità dei loro genitori e dei loro professori, che erano stati influenzati dalle idee diffuse da giornalisti, prestigiosi intellettuali, politici e ai quali, una volta reclutati, veniva istillato un forte senso di appartenenza al gruppo, uno spirito di corpo che non doveva essere messo in discussione, pena gravi punizioni, e che esigeva l'adesione incondizionata alla lotta contro chi non era più percepito come essere umano ma come nemico: il nero, il comunista. Erano, inoltre, uomini convinti che l'apartheid rispondesse alla volontà divina. Infatti, la più importante Chiesa Olandese Riformata del Sudafrica, a cui apparteneva oltre il 40% della popolazione bianca, continuò a sostenere la discriminazione dei neri anche dopo che nel 1982 questa era stata condannata dal Consiglio Mondiale delle Chiese. Mentre le altre Chiese protestanti storiche e quelle cristiane evangeliche autoctone contrastavano l'apartheid, subendo imputazioni, condanne e arresti, quella Olandese Riformata, come confesseranno davanti alla Commissione alcuni suoi rappresentanti ecclesiastici, si era resa connivente con il potere politico. Per oltre quarant'anni essa ha offerto una giustificazione ideologica dell'apartheid, emarginando i pochi dissenzienti, godendo dei privilegi riservati ai suoi membri e onorando i potenti, responsabili di crimini che si volevano ignorare. Ma bisogna ancora riconoscere che tanta ingiustizia e tante violazioni dei diritti umani non sarebbero state possibili senza la corresponsabilità di chi per timore dell'isolamento e dell'emarginazione, o per insensibilità morale, o perchè abituato ad obbedire all'autorità costituita, non ha opposto resistenza all'orrore dilagante. Tutto questo è stato possibile perchè tanti uomini e tante donne hanno preferito non vedere, preoccupati solo della sicurezza della propria famiglia e desiderosi di mantenere per i propri figli privilegi da difendere anche a costo della vita altrui. L'accettazione piena di queste responsabilità dirette e indirette, individuali e collettive a giudizio della Commissione implica ora, per chi ha goduto dei vantaggi garantiti dal vecchio regime - da un'educazione privilegiata all'assegnazione gratuita di terreni da coltivare - il dovere di impegnarsi fattivamente per la costruzione di una società democratica, capace di offrire a tutti le stesse opportunità. In effetti pare che l'opera di pacificazione abbia avuto realmente successo in Sudafrica. E l'esempio è stato contagioso, tanto che anche in Perù è stata istituita una Commissione per la Veritá e la Riconciliazione che nell'agosto del 2003 ha consegnato nelle mani del Presidente Toledo un voluminoso rapporto finale su 20 anni di violazioni dei diritti umani, che hanno provocato quasi settantamila tra morti e desaparecidos, vittime del terrorismo politico e della repressione statale. Ciò
consente, in un panorama internazionale caratterizzato dall'esplosione
della violenza e dalla contrapposizione tra i diversi fondamentalismi,
di nutrire la speranza che un così originale percorso, che richiede certo
grande coraggio e molta generosità, possa essere ancora seguito da altri
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