NOTIZIARIO del 18 giugno 2003

 
     

Corte di Cassazione sez. un. civili - sentenza 18 gennaio 2001 n. 5

Svolgimento del processo.

1.1. Il dott. Piercamillo Davigo, sostituto procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Milano, veniva sottoposto a procedimento disciplinare, su iniziativa del Ministro della Giustizia, che aveva inviato una nota il 13 luglio 1998 al Procuratore Generale presso la Corte di Cassazione, per violazione dell'art. 18 del r.d.l. 31 maggio 1946, n. 511, perché, nel corso di un'intervista resa al quotidiano in lingua italiana, pubblicato negli U.S.A., America Oggi, il 28 giugno 1998, rispondendo a una domanda circa « il fatto che il Corriere della Sera riesca ad avere in anticipo l'avviso al Presidente del Consiglio», dichiarava: «Questo fatto è stato utilizzato da Berlusconi da quattro anni come elemento secondo lui di prova di un nostro accanimento contro di lui. Io allora le rovescio il discorso: Berlusconi era stato condannato per falso in bilancio dal Tribunale di Milano in primo grado e sottoposto a procedimenti penali molto gravi in alcuni dei quali le prove sono molto consistenti. Le chiedo: una persona in quella situazione deve esporsi a presiedere una conferenza internazionale? Deve esporre il prestigio del suo Paese in questo modo?».

A seguito di tale pubblicazione il dott. Davigo rettificava le sue dichiarazioni, con smentita all'Agenzia ANSA riportata da tutti i quotidiani a diffusione nazionale il 30 giugno successivo, precisando: «non ho mai detto che nel novembre 1994 Berlusconi era stato già condannato. Io questa frase non l'ho mai pronunciata, dal momento che, nel novembre 1994, come tutti sanno, Berlusconi doveva ancora essere processato. Non sotto il profilo della legittimità, ma sotto quello dell'opportunità Berlusconi sapeva di essere oggetto di indagini e pertanto avrebbe potuto astenersi dal presiedere quella assise». Si riteneva, pertanto, che il dott. Davigo dovesse rispondere del detto illecito disciplinare, per avere, in modo del tutto improprio ed in violazione del dovere di riserbo, quale magistrato del pubblico ministero componente del c.d. pool mani pulite di Milano, che aveva condotto e conduceva indagini su fatti cui si riferivano le predette dichiarazioni, rilasciate ad organi di stampa nazionali ed internazionali, gravemente ed ingiustificatamente mancato ai propri doveri d'ufficio, così rendendosi immeritevole della fiducia e della considerazione di cui deve godere il magistrato e compromettendo il prestigio dell'Ordine giudiziario. Infatti, secondo l'Ufficio procedente, egli si era posto in aperto contrasto con le indicazioni in materia di esternazioni - enunciate dal Ministro con nota del 20 settembre 1996 - relative alla necessità di un maggior riserbo da parte dei magistrati; aveva, pertanto, violato, non solo il dovere di riservatezza sugli affari in corso e definiti, in modo da ledere i diritti altrui, ma anche abusato della sua qualità di magistrato, componente di un gruppo di magistrati che aveva condotto e conduceva indagini nei confronti di un parlamentare ed ex Presidente del Consiglio, esprimendo valutazioni negative nei suoi confronti.

Il magistrato aveva anche, con le dette dichiarazioni, operato una inammissibile interferenza (e indebita pressione) in procedimenti pendenti in fase dibattimentale, in quanto aveva richiamato la gravità di alcuni di essi e l'esistenza di prove «molto consistenti». Il tenore delle dichiarazioni, anche dopo la rettifica, avrebbe indiscutibilmente causato una lesione al prestigio interno ed internazionale dello Stato e delle sue istituzioni, con la suggestiva prospettazione dell'opportunità dell'astensione del Presidente Berlusconi da un atto del suo ufficio, sull'assunto non dimostrato che egli fosse a conoscenza delle indagini a suo carico prima di ricevere l'avviso di garanzia. Infine, la prevedibile ampia diffusione delle dichiarazioni avrebbe reso ancor più evidente la violazione dei doveri di riservatezza.

1.2. In sede d'interrogatorio dinanzi al Procuratore Generale della Corte di Cassazione il dott. Davigo presentava una memoria nella quale esponeva: a) il periodico America oggi aveva pubblicato, con il titolo «Tutto il potere al Pool», un'intervista a Stanton Burnett, presentato quale ex diplomatico americano che, con l'aiuto di Luca Mantovani, italiano che «lavora all'ufficio stampa di Forza Italia», aveva pubblicato un libro dal titolo «The Italian Guillotine»; b) il 16 giugno 1998 Stefano Vaccara, autore dell'intervista a Burnett, ne aveva trasmesso il contenuto al dott. Francesco Saverio Borrelli, Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Milano, con un fax, nel quale, fra l'altro, sottolineava come i temi trattati nel libro e nell'intervista fossero provocatori e come lo stesso Procuratore e il gruppo dei magistrati di Mani Pulite fossero accusati di aver pianificato un golpe. Chiedeva, quindi, al dott. Borrelli se egli e i suoi colleghi volessero concedere un'intervista al periodico America Oggi per replicare alle tesi esposte nel libro di Burnett, avvertendo che la conversazione sarebbe stata registrata. Il giorno successivo, il Procuratore apponeva in calce al fax la seguente annotazione: «V° al collega COLOMBO perché valuti la possibilità dell'intervista richiesta e anche la possibilità di una reazione giudiziaria alle tesi Burnett»; c) il dott. Gherardo Colombo aveva, quindi, deciso di rilasciare un'intervista ad America Oggi, chiedendo al collega Davigo di presenziare, al fine, eventuale, di integrare i suoi ricordi; d) l'intervista era stata, pertanto, rilasciata per telefono e, come era stato concordato, il testo trascritto della registrazione, contenente due ulteriori domande, ad una delle quali era stata data risposta dal dott. Davigo, era stato inviato alla Procura della Repubblica milanese; e) nel corso di una seconda conversazione telefonica per la dettatura al Vaccara delle correzioni ed integrazioni apposte sulla bozza di intervista, il dott. Davigo aveva pronunziato la frase relativa alla posizione dell'on. Berlusconi, peraltro diversa da quella riportata nel capo d'incolpazione; f) il dott. Davigo aveva negato il consenso al Vaccara di pubblicare in Italia il contenuto dell'intervista. Su tale diniego, non risultante dall'intervista, vi era la possibilità di sentire come testi il collega Colombo e lo stesso Vaccara; g) nell'articolo del 28 giugno 1998 era stata inserita la frase in questione, avente natura meramente chiarificatrice e perciò non destinata a far parte dell'intervista; h) lo stesso Vaccara, con fax del 29 giugno, aveva riconosciuto l'inesattezza di quanto riportato nell'articolo circa l'intervenuta condanna dell'on. Berlusconi all'epoca dell'intervista; i) il dott. Davigo, per smentire l'inesatta parte dell'intervista, aveva spiegato ad alcuni cronisti di agenzia, nella sala stampa del palazzo di giustizia, che il giornalista di America Oggi era incorso in errore.

Nella memoria il magistrato ribadiva, inoltre, che il brano riportato nel capo d'incolpazione costituiva solo un chiarimento ad un interlocutore che dimostrava una conoscenza inadeguata dei fatti e che la pubblicazione era avvenuta in violazione dell'intesa che prevedeva la revisione e l'approvazione di tutte le parti dell'intervista. Osservava, inoltre, che la stessa era rivolta esclusivamente a ripristinare la verità, a seguito di accuse gravissime - violazione del segreto d'ufficio, abuso d'ufficio e finanche di aver ordito un golpe - rivolte a suoi colleghi e a lui stesso. Rilevava, ancora, che l'on. Berlusconi - come attestato in una relazione di servizio redatta da ufficiali dei Carabinieri - aveva ritenuto di presiedere la conferenza anche dopo essere stato informato dell'imminente notifica di un invito a comparire (e non di un avviso di garanzia) e del tenore di tale atto. Nessuna responsabilità, inoltre, poteva attribuirglisi per la pubblicazione della notizia dell'emissione del provvedimento su un quotidiano del 22 novembre 1994 (e cioè, lo stesso giorno della conferenza).

Sulle singole contestazioni precisava, inoltre: le sue dichiarazioni erano consistite in una mera precisazione degli accadimenti e nella contestazione di gravi accuse, senza alcuna volontà di ledere altrui diritti; non aveva abusato della qualità di magistrato in quanto tutte le notizie cui aveva fatto riferimento erano pubbliche e notorie, e non aveva espresso alcuna valutazione nei confronti del dott. Berlusconi, richiamando solo il dato obiettivo (a scopo di chiarimento per un interlocutore che non mostrava adeguata conoscenza delle vicende italiane) che nei confronti dell'on. Berlusconi esisteva una condanna e vari rinvii a giudizio, sì che le accuse non potevano considerarsi frutto di fantasia o di arbitrio; non aveva operato alcuna pressione o interferenza su procedimenti in fase dibattimentale, in quanto il quadro probatorio era stato già definito in requisitoria ed aveva trovato conforto nei provvedimenti dei giudici per l'udienza preliminare (coi quali era stato disposto il rinvio a giudizio); si era soltanto limitato a formulare una domanda che rovesciava la contestazione rivolta ai suoi colleghi e a lui stesso; la scelta della testata estera era stata determinata dalla necessità di rispondere alle accuse comparse nello stesso periodico; era stata, però, vietata la pubblicazione dell'intervista nel periodico Liberal; egli aveva agito mosso soltanto dalla necessità di tutelare la dignità e l'onorabilità dei suoi colleghi e sua, tanto più che il brano non era destinato alla pubblicazione ma era solo un chiarimento per l'interlocutore, era stato pubblicato senza il suo consenso ed in violazione di intervenuta intesa circa la rilettura e l'approvazione del testo, e le sue dichiarazioni erano state riportate in modo non esatto, stravolgendone il senso; segnalava, infine, che la concreta esigenza di tutelare in tal modo l'onorabilità e reputazione sue e dei colleghi era scaturita dalla sostanziale inefficacia delle altre strade sperimentate e dalla molteplicità di accuse propalate da mezzi di informazione o contenute in denunce, dalle quali erano scaturiti ventotto procedimenti penali.

Nell'interrogatorio il dott. Davigo chiariva che facevano parte dell'intervista soltanto le correzioni aggiunte di suo pugno a margine del testo, mentre le precisazioni date per telefono avevano una finalità puramente esplicativa. Venivano successivamente esaminati i cronisti Paolo Barbieri, Annibale Carenzo e Cristina Bassetto, i quali confermavano che il dott. Davigo si era mostrato fortemente contrariato per l'affermazione attribuitagli nel notiziario ANSA, ripreso dal Corriere della Sera, secondo cui l'on. Berlusconi sarebbe stato condannato prima della partecipazione alla conferenza. Il dott. Davigo aveva, quindi, accettato la proposta del Barbieri, cronista dell'ANSA, di pubblicare una sua dichiarazione chiarificatrice.

1.3. La Sezione disciplinare del Consiglio Superiore della Magistratura, con sentenza 25 febbraio-5 aprile 2000, pronunciava assoluzione perché il fatto contestato non costituiva illecito disciplinare. La sentenza è così motivata: - la ricostruzione e la valutazione, sotto il profilo deontologico, delle frasi attribuite all'incolpato dovevano essere compiute sotto tre distinti profili: I) la collocazione dell'intervista nel contesto in cui era stata resa; II) l'accertamento dell'esatto contenuto della frase pronunciata al telefono e la sua corrispondenza rispetto alla frase pubblicata e riportata nel capo d'incolpazione; III) la ricostruzione del discorso nel cui ambito la frase era stata pronunciata. I) Quanto al primo profilo, vi era da osservare, anzitutto, che l'intervista non era stata in alcun modo richiesta o sollecitata dal dott. Davigo, ma dal dott. Borrelli. Il coinvolgimento del magistrato incolpato era avvenuto in relazione ad un'intervista autorizzata dal capo dell'ufficio, che intendeva assolvere a scopi più volte riconosciuti legittimi, e cioè il ristabilimento della verità e la tutela dell'onore professionale dei magistrati.

La facoltà dei magistrati di fornire le precisazioni necessarie per dissipare equivoci e impedire distorsioni era stata riconosciuta dal Consiglio Superiore della Magistratura nelle risoluzioni del 19 maggio 1993 e del 1° dicembre 1994. In quest'ultima si riconosce il diritto di ciascun magistrato di difendersi contro denigrazioni, e si stabilisce che tale tutela costituisce, nel contempo, un dovere istituzionale al quale non si può abdicare. Tale orientamento, consolidato nella prassi del Consiglio, era confermato dal codice etico dei magistrati, previsto dall'art. 58-bis del d.l.vo 3 febbraio 1993, n. 29, il quale, all'art. 6, legittima l'attività del magistrato diretta a fornire notizie sull'attività giudiziaria per «garantire la corretta informazione dei cittadini», purché non vi ostino ragioni di segreto d'ufficio o di riservatezza. Nella specie, l'intervista costituiva un esercizio del predetto diritto-dovere, essendo una replica ad accuse ed avendo lo scopo di fornire informazioni su vicende oggetto di rappresentazioni giornalistiche ritenute distorte. Per altro verso, essa s'inseriva nel solco di una prassi tipica del giornalismo statunitense, che prevede il diritto di replica per coloro che siano stati oggetto di accuse sullo stesso giornale. Data l'estrema gravità delle accuse formulate contro i magistrati della Procura milanese da Stanton Burnett vi era una effettiva esigenza di «pluralismo» e di«contraddittorio».

Dalla lettura della trascrizione del primo colloquio non risultava pronunciata la frase attribuita al dott. Davigo. La stessa risultava, invece, nella seconda conversazione, successiva all'invio del testo scritto e finalizzata alla correzione di tale testo. La frase doveva considerarsi situata nel contesto di un'intervista legittimamente concessa, di toni complessivamente sobri, e obiettivamente giustificata per replicare all'accusa di accanimento della Procura di Milano contro l'on. Berlusconi. II) Sotto il secondo profilo, la Sezione disciplinare, sulla base della registrazione del colloquio e della relativa trascrizione, rilevava due difformità tra la frase effettivamente pronunciata e quella contenuta nel capo d'incolpazione. La prima era la notizia dell'avvenuta condanna dell'on. Berlusconi al momento della conferenza, laddove si trattava di fatto già avvenuto all'epoca dell'intervista, e cioè nel 1998. La seconda era l'omissione, nel brano pubblicato, della frase pronunciata dal magistrato: «sapendo di che cosa può essere destinatario, di che cosa può essere accusato?», la quale chiariva che il dott. Davigo non poteva riferirsi a condanne già pronunciate nel 1994, anno della conferenza internazionale a Napoli. III) Il dialogo tra il giornalista e il magistrato si era, quindi, sviluppato nella conversazione successiva all'intervista, conversazione nella quale lo stesso magistrato appariva interessato a contestare la veridicità di un'affermazione - contenuta nel libro di Burnett - secondo cui gli ufficiali dei carabinieri, inviati a Roma, si erano recati a Napoli allo scopo di notificare all'on. Berlusconi l'invito a presentarsi.

Dalla relazione di servizio redatta dal tenente colonnello Garelli e dal capitano La Forgia, nonché dalle testimonianze rese dal primo, nonché dal dott. Borrelli e dal dott. Colombo, risultava accertato che l'on. Berlusconi aveva escluso di poter incontrare i detti ufficiali a Napoli, mentre la notifica era avvenuta a Roma, a Palazzo Chigi, il 22 novembre 1994. Dalla detta relazione risultava, inoltre, che il colonnello Garelli aveva avuto, la sera del 21 novembre, due conversazioni con l'on. Berlusconi, nel corso delle quali egli gli aveva dato lettura dell'atto da notificare. Proprio in tale contesto, di fronte all'incalzare delle domande, il dott. Davigo prospettava che, se proprio voleva attribuirsi ai magistrati della Procura una sorta di responsabilità nella vicenda, allora bisognava considerare l'altro lato della vicenda stessa, e cioè che anche la scelta dell'on. Berlusconi di partecipare alla conferenza poteva essere oggetto di critiche sotto il profilo dell'opportunità. Pur dovendosi riconoscere il carattere non appropriato della precisazione, la stessa non poteva considerarsi un giudizio etico-politico autonomamente formulato, ma soltanto un'argomentazione, utilizzata nel corso di un colloquio con l'intenzione di spiegare precedenti dichiarazioni. Quanto al punto della destinazione alla pubblicazione della seconda conversazione, pur dovendosi tener fermo che un magistrato, dell'esperienza del dott. Davigo non poteva non conoscere il modus operandi dei giornalisti, e non poteva, quindi, escludere a priori la pubblicazione di quanto loro detto, vi era da considerare che il magistrato, proprio in forza degli accordi, riponeva pieno e ragionevole affidamento sul fatto che non vi sarebbe stata pubblicazione di nulla che non fosse stato visionato e corretto sul testo scritto. La dichiarazione resa alle agenzie di stampa il giorno 29 giugno 1998 non poteva avere alcuna valenza disciplinare, non avendo il dott. Davigo aggiunto nulla, salvo correggere l'errore di fatto in cui il giornalista era incorso.

Tanto premesso, la Sezione disciplinare osservava che nel comportamento del magistrato, così ricostruito ed inquadrato in un caso di enfasi argomentativa, non poteva ravvisarsi il dolo o la colpa. Innanzitutto era da escludersi una violazione del dovere di riservatezza, essendo il fatto su cui il dott. Davigo si era soffermato notissimo e non essendo gli atti giudiziari relativi più coperti da segreto. Dalla nota del Ministro della Giustizia del 20 giugno 1996 non poteva derivare alcun vincolo per il Giudice disciplinare, come riconosciuto dalle Sezioni Unite nella sentenza n. 282/1999. Non vi era stato neppure abuso della qualità di magistrato, avendo egli agito al solo scopo di ripristinare la verità circa l'operato suo e dei suoi colleghi in relazione a fatti che erano stati oggetto di una rappresentazione inesatta, parziale, interessata o distorta. Né si poteva ipotizzare che la frase fosse stata pronunziata per interferire sui giudizi pendenti. Il fatto che il dott. Davigo avesse fatto cenno a «prove molto consistenti» costituiva solo un modo del tutto atecnico per manifestare l'opinione del pubblico ministero, che aveva raggiunto un convincimento, non disdicevole ma necessario, circa la posizione della persona sottoposta a indagini, quando le stesse si erano concluse con una richiesta di rinvio a giudizio. Quanto, infine, alla prospettata ipotesi di lesione al prestigio interno ed internazionale dello Stato, derivante dall'aver rilasciato un'intervista ad un giornale straniero, occorreva ribadire che l'intervista non era frutto di una deliberata opzione, ma della necessità di rispondere ad accuse sulla stessa testata che le aveva pubblicate. Si trattava, pertanto, di ripristinare una rappresentazione realistica dell'operato della Procura della Repubblica di Milano. In definitiva, non era ravvisabile l'elemento soggettivo dell'illecito disciplinare.

Avverso tale sentenza il Procuratore Generale presso questa Suprema Corte ha proposto ricorso per cassazione, sulla base di due mezzi d'annullamento.
Il dott. Davigo resiste con controricorso.

I motivi di ricorso

2.1. Col primo motivo il Procuratore Generale denuncia violazione e falsa applicazione dell'art. 18 del r.d.l.vo 31 maggio 1946, n. 511, in relazione, all'art. 360, n. 3, cod. proc. civ., con riferimento alla qualificazione della condotta come illecito disciplinare. Censura il giudizio della Sezione disciplinare, la quale ha ritenuto legittimo che l'incolpato - direttamente interessato alla conduzione delle indagini nelle quali era stato e sarebbe stato coinvolto il parlamentare - utilizzasse lo strumento delle pubbliche dichiarazioni, non solo per manifestare il suo dissenso dalle sue proteste d'innocenza, ma anche per esprimere apprezzamenti sulla sua condotta. L'esposizione pubblica di un magistrato impegnato nella conduzione delle indagini, infatti, è altamente rischiosa per la credibilità della funzione giurisdizionale, che trova il suo momento di massima compenetrazione nel sistema alla condizione di totale neutralità rispetto alle parti in contesa, come attuazione del principio di imparzialità. Tale regola vale anche per il pubblico ministero, e l'aspettativa d'imparzialità viene frustrata se il magistrato che ne esercita le funzioni difende il suo operato alla stregua di un personale compito di ristabilimento della legalità. Il giudice disciplinare non è chiamato a svolgere un compito paranormativo di definire i comportamenti deontologicamente vietati, ma deve limitarsi ad un'attività ermeneutica per verificare se la condotta considerata rientri nel paradigma normativo. Come è stato chiarito dalla Corte Costituzionale (sentenza n. 100 del 1981) e riconosciuto dalla stessa Sezione disciplinare, il principio di libera manifestazione del pensiero assicurato a tutti i cittadini non è senza limiti, dovendo osservare quelli posti dalla legge a presidio di altri valori costituzionali.

I limiti, per i magistrati, sono costituiti proprio dai principi di imparzialità e indipendenza, volti a tutelare anche la considerazione di cui il magistrato deve godere presso la pubblica opinione. Gli stessi principi possono essere ritenuti compatibili anche se si ammette che, di fronte a distorsioni o manipolazioni interessate, al magistrato sia riconosciuta l'esigenza di ristabilire la verità dei fatti e si renda, quindi, necessaria un'esposizione esterna, quando altri (come il capo dell'ufficio) non si sia dato carico delle opportune rettifiche. Ma, proprio perché il giornalista finisce con l'essere il tramite tra magistrato e opinione pubblica, il rapporto con lo stesso deve essere improntato alla massima cautela. Nella specie la Sezione disciplinare, nel ritenere che il rilascio di un'intervista possa comunque costituire legittimo esercizio di un diritto di replica o giustificazione, sarebbe incorsa in violazione di legge, non considerando che una pubblica dichiarazione di biasimo nei confronti di un soggetto destinatario di azione giudiziaria può compromettere la credibilità della funzione, destinata ad essere svolta in condizioni di assoluta imparzialità; non considerando, altresì, che la stessa espressione, concernente un soggetto che riveste un altissimo ruolo pubblico, sottenderebbe un vero e proprio conflitto fra le istituzioni della Stato, che minerebbe in radice la neutralità della giurisdizione rispetto ad altri poteri. Elevare un severo giudizio pubblico nei confronti di persone rivestenti cariche istituzionali implicherebbe, secondo il Procuratore Generale, un'inammissibile interferenza, e non mera espressione di una libera opinione. L'unica oggettiva ricaduta sulla sfera giuridica dei soggetti per un corretto equilibrio istituzionale può solo derivare dalla sentenza del giudice. L'Ufficio ricorrente censura, inoltre, la decisione, nella parte in cui non ha ritenuto che le dichiarazioni potessero costituire una corposa ingerenza nel processo in corso. Qualunque sia stato l'esito del processo, la condotta dell'incolpato sarebbe comunque lesiva del dovere d'imparzialità, soprattutto da parte del magistrato che ha svolto le indagini, in quanto aperta manifestazione d'interferenza sul compito demandato ai giudici.

2.2. Col secondo motivo, denunciando omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un punto decisivo, in relazione all'art. 360, n. 5, cod. proc. civ., il Procuratore Generale lamenta che la sentenza si fonderebbe su una non esatta ricostruzione dei fatti, e più precisamente: la Sezione disciplinare avrebbe dato una lettura benevola del comportamento dell'incolpato, aderendo acriticamente alla tesi difensiva dello stesso, secondo cui le dichiarazioni non contenevano una critica morale rivolta all'on. Berlusconi, ma rispondevano ad una necessità di difesa; pur riconoscendo che la frase costituiva una «inappropriata e non pertinente argomentazione», svolta in un contesto in cui s'impone al magistrato «un controllo notevolmente più rigoroso di quello richiesto quando parla come un semplice cittadino», si è, in contraddizione con tale premessa, ritenuto che la frase costituisse mera argomentazione dialettica; la frase della quale era stata omessa la menzione non solo non muta il significato dell'intero discorso, ma sottende addirittura possibili ulteriori iniziative giudiziarie; la considerazione che la frase non era destinata alla pubblicazione non tiene conto della situazione, che comunque induceva alla massima cautela, dimostrata dal dott. Davigo e dal dott. Colombo nell'intera conversazione; la frase non poteva essere considerata come strumento necessario a ristabilire la verità storica. Se occorreva precisare che la Procura di Milano non aveva dato disposizioni di raggiungere il Presidente del Consiglio a Napoli, la puntualizzazione che doveva essere lui, il Presidente, a valutare l'inopportunità di presiedere la conferenza, non era certamente funzionale a tale scopo; la Sezione disciplinare avrebbe, inoltre, errato ritenendo che la dichiarazione non fosse destinata alla pubblicazione. Il tenore della registrazione dimostrerebbe la piena volontarietà della dichiarazione. E anche ammesso che la stessa fosse stata frutto di una caduta di attenzione, dagli atti emergeva che il dott. Davigo non aveva fatto nulla per rimediarvi, facendo addirittura in modo che l'espressione fosse ripresa e pubblicata con maggiore diffusione. Infatti, come emerge dalle dichiarazioni dei giornalisti, gli stessi erano stati convocati soltanto per precisazioni sulla circostanza della data della sentenza di condanna, senza che il dott. Davigo precisasse che la frase in questione non era oggetto dell'intervista. Anzi, gli stessi giornalisti avevano riferito che il magistrato aveva ribadito l'inopportunità che l'on. Berlusconi presiedesse la conferenza internazionale sulla criminalità; - l'aver ritenuto che l'intervista non fosse idonea ad interferire sui processi in corso in quanto destinata solo alla pubblicazione all'estero non terrebbe conto delle circostanze, incontestabilmente accertate, che l'intervista aveva avuto immediata diffusione nella stampa italiana e che il magistrato aveva confermato tutto ai giornalisti italiani. Motivi della decisione.

3.1. Occorre preliminarmente esaminare le questioni svolte dalla difesa del resistente, nelle quali si deduce l'inammissibilità delle censure. Nel controricorso si sostiene che il compito del giudice di legittimità sarebbe circoscritto al controllo sulla ricostruzione della fattispecie normativa astratta operata dal giudice di merito, mentre ne sarebbe estranea l'operazione di sussunzione del fatto a detta ipotesi normativa. La tesi non è fondata. Il controllo di legittimità nel sistema processuale civile non si esaurisce, infatti, in una verifica di correttezza dell'attività ermeneutica diretta a ricostruire la portata precettiva della norma, ma è esteso - secondo la tradizione del pensiero processuale, di origine tedesca e introdotto nel codice di procedura civile del 1940 - alla sussunzione del fatto, accertato dal giudice di merito, nell'ipotesi normativa. Proprio tale estensione distingue il giudizio di cassazione del sistema italiano da quello originariamente introdotto dall'omonimo istituto francese all'inizio del XIX secolo, nel quale la Cassation costituiva uno strumento per controllare gli straripamenti del giudice nella sfera del potere legislativo. L'art. 360, n. 3, del cod. proc. civ. prevede infatti, come vizio della sentenza denunciabile in cassazione, non soltanto la violazione, ma anche la falsa applicazione di norme di diritto. La giurisprudenza di questa Suprema Corte si è costantemente uniformata a tale tradizione, non ponendosi mai in dubbio che il vizio di cui al n. 3 dell'art. 360 cod. proc. civ. comprenda, anche quando non venga esercitato il potere di decisione nel merito ex art. 384, primo comma, cod. proc. civ., non solo l'errore d'interpretazione, ma anche quello di sussunzione. È evidente che la distinzione, agevole, nella sua enunciazione teorica, diviene assai più difficile nella sua pratica attuazione, ed ha innegabilmente condotto a risultati non sempre coerenti, soprattutto quando, come è avvenuto nel caso di specie, il giudice del merito deve applicare norme dai confini non precisamente definiti.

3.2. Si può, quindi, scendere all'esame delle censure, del Procuratore Generale, che possono essere congiuntamente esaminate. Vi è da premettere che, come affermato dalla costante giurisprudenza delle Sezioni Unite (si veda, per un'articolata esposizione del problema, la sentenza n. 2411 del 14 aprile 1984) la norma della legge sulle guarentigie della magistratura (art. 18 del r.d.l. 31 maggio 1941, n. 511) la quale prevede la responsabilità disciplinare del magistrato «che manchi ai suoi doveri o tenga in ufficio o fuori una condotta che lo renda immeritevole della fiducia e della considerazione di cui deve godere o che comprometta il prestigio dell'ordine giudiziario», non contiene una specifica tipizzazione di ipotesi d'illecito. La ragione di tale scelta di formulazione normativa viene generalmente indicata nel fine di evitare che violazioni dei doveri anche gravi possano sfuggire alla sanzione disciplinare. Iniziando ad esaminare il primo motivo di ricorso, col quale si denuncia violazione e falsa applicazione del citato art. 18, per avere la Sezione disciplinare escluso - sotto i diversi profili contestati - la valenza disciplinare della condotta attribuita al dott. Davigo, osserva la Corte che l'Ufficio ricorrente non considera la particolare natura della norma la quale descrive il modello di illecito disciplinare, non mediante un catologo di ipotesi tipiche, ma mediante clausole generali o, se si vuole usare l'espressione coniata nel XIX secolo dalla dottrina tedesca, mediante «concetti giuridici indeterminati» (Unbestimmte Rechtsbegriffe).

L'applicazione di norme di tale specie può dar luogo a valutazioni che - pur rimanendo distinte dal campo della c.d. discrezionalità, intesa come ponderazione comparativa d'interessi - finiscono con l'attribuire all'organo decidente un margine di apprezzamento non controllabile in cassazione. Il sindacato del giudice di legittimità sull'applicazione del concetto, pertanto, deve essere anzitutto rispettoso dei limiti che il legislatore gli ha posto, utilizzando una simile tecnica di formulazione normativa, che attribuisce al giudice del merito uno spazio di libera valutazione ed apprezzamento. Nella specie, la Sezione disciplinare ha enunciato il principio che i magistrati sono legittimati a fornire le precisazioni necessarie per dissipare equivoci e impedire distorsioni sul loro operato, quando l'attività informativa degli organi a ciò preposti non sia stata all'uopo sufficiente; che, anzi, l'esercizio di tale attività costituisce, non solo un diritto del magistrato, ma ha un collegamento funzionale con l'interesse pubblico ad una esatta rappresentazione dell'attività giudiziaria e della correttezza del suo esercizio. Si ammette, in tal modo, un sistema diffuso di tutela di tale interesse. È questa la regola di condotta alla stregua della quale la Sezione disciplinare ha compiuto la verifica dell'operato del dott. Davigo.

Il controllo della Corte di Cassazione sulla corretta applicazione dell'art. 18 del r.d.l. n. 511/1946 non può prescindere, come si è detto, dal fatto che detta norma contiene, per la definizione delle condotte sanzionabili, concetti o categorie giuridici indeterminati. Non fornendo la norma, per sua intrinseca natura, elementi tassativi per la definizione delle condotte disciplinarmente illecite, il sindacato di legittimità sulla sussunzione non può non tener conto del fatto che la categoria normativa impiegata finisce con l'attribuire al giudice di merito un compito di individuazione concreta delle condotte sanzionabili, rispetto al quale non può ammettersi una sostituzione da parte dal giudice di legittimità. Il dibattito sul controllo di legittimità dell'applicazione di clausole generali effettuato dal giudice di merito non è certo recente, né esclusivo della tradizione giuridica italiana, ma risale ad oltre un secolo e mezzo fa. Limitando l'esame all'esperienza applicativa della Corte, è certo che, almeno nella sua teorica enunciazione, quando il giudice del merito è chiamato ad applicare «concetti giuridici indeterminati», il compito del controllo di legittimità può essere soltanto quello di verificare - soprattutto attraverso la motivazione - la ragionevolezza della sussunzione del fatto. Pertanto la Corte non può, come preteso dall'Ufficio ricorrente, sostituirsi al giudice di merito nell'attività di sussunzione appunto della fattispecie nell'ipotesi formulata nel citato art. 18. Tale è la linea che si ricava dalla costante giurisprudenza della Corte e, in particolare, dalle pronunce delle Sezioni Unite in tema di sindacato di legittimità sulle decisioni della Sezione disciplinare del CSM. Il fatto che talvolta la Corte di Cassazione abbia enucleato delle fattispecie, considerandole come ipotesi sussumibili in una clausola generale, non significa che essa abbia inteso derogare alla regola predetta, ma soltanto che, talvolta, essa ha ritenuto utile, nell'esercizio della sua funzione di nomofilachia, fornire indicazioni utili ai giudici di merito nella sfera applicativa.

Applicando tale principio al caso di specie, e premettendo che le censure del Procuratore Generale non investono l'esistenza della regola di condotta, così come enunciata nella sentenza impugnata, la Corte ritiene che la motivazione della stessa sia immune da critiche, dovendosi ritenere che l'applicazione dei concetti contenuti nell'art. 18 del r.d.l. n. 511/1946 sia del tutto ragionevole ed espressa attraverso una motivazione coerente. Si consideri, infatti, che il riconoscimento di un diritto-dovere diffuso di ciascun magistrato a fornire informazioni, e la contemporanea affermazione di limiti, quali il rispetto del diritto dell'altrui reputazione o la considerazione che le istituzioni devono godere nell'opinione pubblica, comportano, come conseguenza che, non potendosi in astratto tracciare tali limiti, il rispetto degli stessi deve essere verificato attraverso una valutazione di contemperamento, che presenta affinità con una vera e propria valutazione discrezionale, dovendosi tener conto di tutte le circostanze di fatto nelle quali le precisazioni s'inquadrano. S'intende facilmente come tale giudizio, di natura non prettamente sillogistica, ma, in certa misura, assiologica, ancor meno si presti, per la sua intrinseca natura, ad un riesame di legittimità che non si limiti alla sua ragionevolezza, ma comporti una diretta definizione e valutazione della condotta da parte della Corte di Cassazione. Deve, infatti, ritenersi assolutamente estranea alla struttura di tale giudizio una diretta operazione di contemperamento d'interessi, quale è quella che il Giudice disciplinare è chiamato a compiere per tracciare, nel caso concreto, i limiti dell'esercizio del diritto di fornire informazioni sull'attività giudiziaria.

Nella specie si deve ritenere che la motivazione della sentenza dia pienamente conto di un giudizio valutativo che presenta i caratteri della ragionevolezza. La Sezione disciplinare ha, infatti, considerato la particolare posizione del magistrato, l'influenza che la stessa poteva svolgere sull'opinione pubblica, la cautela dimostrata nel complessivo comportamento, il fatto che l'intervista non era frutto di personale iniziativa del magistrato, ma era stata disposta dal capo dell'ufficio. Ha, poi, effettuato una comparazione di tali elementi con l'esercizio del diritto-dovere di informazione dell'opinione pubblica e, considerando la necessità di difendere l'operato dell'ufficio e personale dello stesso magistrato contro gravissime e reiterate denigrazioni e falsificazioni, ha operato un ponderato contemperamento tra gli interessi in gioco, considerando che la frase pronunciata dal dott. Davigo non rappresentasse una deviazione da tale esigenza. Proprio tale operazione di contemperamento tra i vari interessi, imposta dalla assenza di una netta separazione normativa tra l'ambito degli stessi, rende il giudizio della Sezione disciplinare, in quanto espresso in termini di ragionevolezza e sostenuto da adeguata motivazione, insindacabile in sede di legittimità.

La Corte non ritiene che debba essere condiviso il principio - enunciato dal Procuratore Generale - secondo cui il magistrato del P.M. non potrebbe manifestare, in linea con l'orientamento del proprio ufficio, che abbia ricevuto già una conferma in provvedimenti del giudice, una propria opinione sulla fondatezza di ipotesi accusatorie, quando le stesse concernano comportamenti di soggetti che rivestano responsabilità istituzionali, anche se di rilevanza costituzionale, essendo tale compito riservato alla sentenza. L'esercizio del riconosciuto diritto-dovere, infatti, viene riconosciuto in modo diffuso proprio per esigenze di effettività, che verrebbero frustrate se dovesse attendersi la pronuncia del giudice, pronuncia che - nella logica di tale impostazione - non potrebbe se non essere che quella definitiva. La tesi sostenuta dall'Ufficio ricorrente finirebbe col ritenere illecita perfino l'attività di chiarimento normalmente svolta dagli uffici inquirenti su fatti che abbiano un particolare interesse per l'opinione pubblica. La sentenza ha, inoltre, adeguatamente chiarito perché l'esercizio del predetto diritto-dovere non abbia superato altri limiti, come quello segnato dal dovere di riservatezza, sia perché si trattava di notizie non più coperte dal segreto delle indagini, sia perché non era ipotizzabile una indebita pressione sui giudici che dovevano pronunciarsi sulle vicende nelle quali esisteva o poteva verificarsi un coinvolgimento dell'on. Berlusconi, essendo la posizione della Procura milanese su tali vicende ben nota a tutti, ed espressa in modo ufficiale nelle requisitorie. Le censure svolte sui predetti punti non riguardano l'applicazione di clausole generali, ma accertamenti di fatto. Avendo la Sezione disciplinare adeguatamente spiegato perché, per ragioni pratiche, il comportamento non fosse lesivo del dovere di riservatezza, tale accertamento non può essere sindacato in cassazione.

Infine, il non aver la Sezione considerato il conflitto tra organi dello Stato che era derivato dalle dichiarazioni non ha alcuna attinenza con la ipotesi di illecito disciplinare contestata. L'esercizio di un diritto, specie se lo stesso ha un ricollegamento funzionale con la tutela di un pubblico interesse, può ben dar luogo ad una situazione di conflitto. Negare che ciò possa avvenire senza che la condotta diventi un illlecito disciplinare significherebbe - né più né meno - affermare che, se l'esercizio del diritto implica valutazioni negative circa l'operato del titolare di un pubblico ufficio, tale esercizio deve essere escluso in radice. Una simile concezione presupporrebbe, inoltre, un divieto assoluto - che non esiste nell'ordinamento giuridico - per tutti i titolari di pubbliche funzioni di esprimere opinioni che possano contenere giudizi sull'operato di soggetti appartenenti alla stessa categoria o che, comunque, rivestano cariche di pubblico rilievo. L'essenziale è che, anche sotto tale profilo e tenuto conto dei riflessi profilabili sul piano della politica internazionale, tale esercizio sia circondato da particolari cautele. Cosa che, secondo la valutazione della Sezione disciplinare, insindacabile in sede di legittimità, era avvenuto. Quanto alla affermata contraddizione tra l'avere definito impropria la sede delle dichiarazioni e l'essere state le stesse considerate ricollegabili all'esercizio del diritto, la Corte rileva che, in realtà, l'enunciazione dell'esistenza di un diritto-dovere di rendere chiarimenti, proprio per il suo carattere diffuso, non implica necessariamente che tale esercizio avvenga esclusivamente nelle sedi ufficiali. Non si ravvisa, pertanto, alcuna contraddizione, nell'avere la Sezione, nel suo insindacabile potere di valutazione insito nell'applicazione dell'art. 18 del r.d.l. n. 511/1946, considerato che la frase in questione rappresentava, non una deviazione, una sorta di corpo estraneo nell'intervista, ma un chiarimento necessario per l'interlocutore.

In definitiva, le Sezioni Unite ritengono che la Sezione disciplinare, partendo dalla non contestata enunciazione del diritto-dovere di chiarimenti e d'informazione, abbia correttamente statuito, con giudizio non irragionevole e sostenuto da motivazione adeguata e non contraddittoria, che la condotta del dott. Davigo non costituisse fatto illecito disciplinare. Il procedimento logico-valutativo seguito dal Giudice disciplinare conduceva necessariamente, quindi, ad una pronuncia assolutoria, anche se la stessa avrebbe dovuto essere di insussistenza dell'illecito disciplinare, in quanto, secondo lo stesso ragionamento della Sezione, mancherebbero gli elementi oggettivi della condotta sanzionabile, e non soltanto l'elemento soggettivo. Tale errato impiego della formula assolutoria non dà luogo a vizio della sentenza, non essendo stata la stessa impugnata sul punto, né dal Procuratore Generale, né dal dott. Davigo con ricorso incidentale. Il ricorso del Procuratore Generale deve essere, pertanto, rigettato. Ricorrono giusti motivi per compensare le spese.

PQM

La Corte di Cassazione, a Sezioni Unite, rigetta il ricorso.

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