NOTIZIARIO del 28 settembre 2001

 
     

Davigo: contro la corruzione meno leggi e meno tasse
«Abbiamo bisogno di pochi funzionari ma molto motivati ben preparati e pure ben pagati» Le riflessioni di un conservatore per convinzione e «rivoluzionario» per necessità
IL PM DI MANI PULITE SI RACCONTA IN UN LIBRO
La ricetta del «Dottor sottile»: l'azione penale? Da sola non basta. Lo Stato intervenga solo dove i privati non possono
di Giuseppe D'Avanzo

Ammiratissimo dalla consorteria togata, temutissimo dagli imputati, odiatissimo dagli avversari politici della brigata di Francesco Saverio Borrelli, Piercamillo Davigo è il «dottor sottile» del pool dei pubblici ministeri milanesi di Mani pulite.

E' curioso e paradossale il destino di Davigo. Se la modernità italiana, per dirla con Ernesto Galli della Loggia, non fosse stata segnata dall'assenza di autonome élite amministrative, culturali e sociali espresse dalle «istituzioni del merito, della competenza e del rango», Piercamillo Davigo avrebbe potuto dirsi un conservatore a tutto tondo. Invece gli è toccato di finire, malgré lui, nella schiera delle toghe, di volta in volta, accusate di essere «rosse». Di diventare secondo le occasioni un «qualunquista un po' fascista» o, al contrario, «un puro comunista». In ogni caso, un estremista alquanto pericoloso.

Piercamillo Davigo ne ha sorriso naturalmente perché in cuor suo ha avuto fin dall'inizio della sua carriera un solo desiderio: indossare, come gli avevano insegnato a Candia Lomellina (Pavia), dove è nato, la «giubba del re». Che diavolo è la «giubba del re»? E' innanzitutto il titolo che il magistrato ha voluto dare alla conversazione pubblicata ora per gli Editori Laterza (La giubba del re, Intervista sulla corruzione, a cura di Davide Pinardi, da domani in libreria). Ma ne è soprattutto la chiave, come usa dire.

«Io vengo - ricorda il pubblico ministero - da un piccolo paese ai confini con il Piemonte e quando ero un ragazzino sentivo i vecchi che avevano un curioso modo di dire. Nella vita, spiegavano, non bisogna portare livree, ma se qualcuno ha necessità di portarla, l'unica da indossare con orgoglio è la "giubba del re". Questa espressione non era altro che il concetto sintetico del servizio di Stato».

La corruzione è allora soltanto uno dei temi del libro e forse nemmeno il più importante. Piercamillo Davigo ne parla ampiamente, come è ovvio. Ne vaglia la patologia e i costi economici ed etici. Analizza il comportamento della pubblica amministrazione, degli imprenditori, della magistratura, delle forze dell'ordine, dei mass media. Illustra le ragioni che, a suo avviso, hanno messo irresistibilmente in movimento Mani pulite. Affronta con severità «le tre affermazioni degradanti» seguite a quel che definisce «la lacerazione del velo». Val la pena di ripercorrerle.

La prima: «Abbiamo agito a fin di bene», si difendevano gli imputati. «Come se non si trattasse - chiosa Davigo - di non uno ma di due reati, l'uno aggravato al fine di commettere l'altro: una corruzione e un finanziamento illecito».

La seconda, «ancora più sorprendente»: «Non rubavamo soltanto noi, ma lo facevano anche gli altri che non avete individuato». E Davigo: «Come se si dovessero identificare e raggiungere tutti i colpevoli di un certo tipo di reato prima di potere giudicare quello che è stato preso con le mani nel sacco».

E poi la terza giustificazione, «la più spaventosa»: «Meglio i corrotti dei tromboni 'moralisti'». «Non mi sarei mai aspettato - scrive amaramente Davigo - che il disvelamento di questi fatti potesse portare a questo effetto perverso e opposto rispetto a quello che ci si dovrebbe attendere dal comune buon senso».

Ma «La giubba del re» non è soltanto una conversazione sulla corruzione. E' anche l'occasione, per il magistrato, di misurare in pubblico la distanza tra il suo senso di appartenenza e un'identità nazionale che non c'è o, se c'è, è debole e storta. Davigo, conservatore per convinzione e «rivoluzionario» per necessità, sembra volerci soprattutto raccontare il contrasto arroventato e (per lui) doloroso tra un ethos, il suo, inteso come «servizio allo Stato» e quell'ethos nazionale che gli si è parato dinanzi durante gli anni di Mani pulite, i costumi, le norme e i modelli di comportamento (non sempre coscienti, spesso illegali) che hanno guidato le azioni degli individui nella comunità che ha abitato (continua ad abitare?) la «città delle tangenti».

Che non è soltanto la cittadella dei Craxi e dei Cusani, degli imprenditori corruttori o concussi, dei servitori dello Stato corrotti, ma una metropoli di quartieri dimenticati abitata da «ragazzi di buona famiglia» che pagano per l'esonero dal servizio militare o per ottenere in fretta la patente di guida; di impiegati che vendono se stessi e una licenza edilizia per una Lancia Thema; di magistrati che sporcano la toga per un pugno di sterline oro o per una vacanza alle Maldive.

E' la parte - credo - più interessante del libro. Davigo vi rovescia con convinzione (non disgiunta da una disincantata amarezza) la sua cultura dello Stato che è cultura degli interessi generali e della loro tutela. Della legge e dell'imparzialità delle procedure. Lungo questa strada il pubblico ministero rintraccia un solo valore - la legalità - da proporre come leva per (ri)costruire un'identità nazionale.

Dice: «E' indispensabile radicare l'idea, per quanto lo si possa fare per legge, che la legalità è un valore in sé. E, se è un valore in sé, gli strappi alla legalità sono di per sé un disvalore». Semplice, no? Legalità-illegalità. Questa dicotomia, si sa e lo sa Davigo, non piace, non è a tutti gradita. Appena un anno fa una «proposta sullo Stato di diritto» presentata dalla Fondazione «amici di Liberal» denunciava che il destino della crisi italiana, l'antagonismo di fondo della transizione a una nuova repubblica, si sia giocato e si giochi intorno al contrasto legalità-illegalità. «Un equivoco culturale, una dicotomia premoderna».

«Si può ragionevolmente affermare che, se in Italia non esistesse più corruzione, il nostro Stato perciò stesso comincerebbe d'incanto a funzionare al servizio dei cittadini?», si chiedevano gli «amici di Liberal». Davigo, la «giubba del re» non si sottrae alla questione. E' certo che la legalità, il rispetto convinto e conveniente delle leggi sia la pre-condizione di ogni ordinato e fruttuoso vivere civile.

«Io credo nei valori che sono chiamato a rappresentare, e credo che la legalità sia una valore, non solo in questo Paese ma in tutto il mondo che ci somiglia o a cui diciamo di volere rassomigliare. Lo Stato di diritto per me è un valore e di conseguenza mi comporto con la fermezza che deriva dalla convinzione di una funzione demandatami dalle leggi e dalla Costizuione». Non si illude tuttavia il magistrato che soltanto la legge, le istruttorie, i processi, in una parola la repressione, possano radicare valori e virtù nell'ethos di un popolo. Ben altra è l'impresa. Ben altri, che non i magistrati del pubblico ministero, i protagonisti.

Davigo prova ad elencare (quel che gli appaiono) i protagonisti essenziali e i provvedimenti urgenti. Innanzitutto un'élite burocratica-amministrativa legittimata, all'altezza dei tempi e dei compiti. «Noi abbiamo bisogno di pochi funzionari molto motivati, ben preparati e conseguentemente ben pagati; non ci servono molti funzionari poco motivati e poco preparati e mal pagati». Se si vuole uscire dalla corruzione sistemica, dice il pubblico ministero, «lo Stato dovrebbe fare, a mio avviso, soltanto quello che i privati non possono fare, quello che è indispensabile che faccia in prima persona».

Uno Stato più leggero, dunque, e un mercato più largo e più trasparente. Meno leggi e più chiare. Meno fiscalità e più coerente e «certa». Più controlli amministrativi e meno controllo penale. Soprattutto occorre meno sudditanza e più libertà: «Raramente i cittadini pensano di essere in grado di tutelarsi con la libertà: la libertà del mercato, la libertà del voto, la libertà dell'agire. Al contrario tutti, o molti, sono sempre alla ricerca di una qualche forma di protezione da parte dello Stato».

C'è dunque speranza? Se lo chiedete al «dottor sottile», rivoluzionario per caso, vi risponderà così: «Io sono stato educato ai valori tradizionali del cattolicesimo e continuo a credere che le tenebre non possano prevalere sulla luce. Per questo penso che, alla lunga, le cose non potranno peggiorare». Che davvero sia così?
La Repubblica, 18 giugno 1998

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