NOTIZIARIO del 14 novembre 2001

 
     

"Questione penale"
e democrazia autoritaria

di Giovanni Russo Spena

Le vicende italiane degli ultimi anni hanno determinato l'irrompere della "questione penale" come centrale rispetto alla "governabilità" del sistema in una fase, delicatissima e convulsa, di transizione istituzionale.
Non amo le semplificazioni; adotto, solo per facilità interpretativa, la categoria di "passaggio dalla Prima alla Seconda Repubblica", diventata linguaggio comune della politica di Palazzo, all'interno della quale l'aggettivo "nuovo", contrapposto all'aggettivo "vecchio", ha assunto un ruolo quasi orgiastico e salvifico, che copre, in realtà, ricette liberiste.
All'interno di questa fase di transizione l'opinione pubblica chiede, da un lato, una ulteriore estensione della sfera dell'intervento penale (che dovrebbe sostituirsi, anche nella gestione del territorio, dell'apparato produttivo, degli assetti economico/sociali, alla normale dialettica tra i poteri costituzionali) e, dall'altro, contemporaneamente e contraddittoriamente, un arretramento dell'azione penale per permettere il pieno sviluppo dell'attività economica che, dal controllo penale stesso, sarebbe stato gravemente intralciato.

A quest'ultimo filone risalgono le varie proposte di "uscita da tangentopoli", le varie forme di "patteggiamento" proposte, la soluzione propugnata da magistrati della Procura di Milano al convegno di Cernobbio (una proposta scritta da magistrati insieme ad avvocati di industriali e finanzieri inquisisti che, al di là del merito, non condivisibile, si è prospettata, nel metodo, come forma pericolosa, dannosa, di penetrante consociativismo tra magistratura penale e "poteri forti" confindustriali). Non vi è dubbio, ed è un punto molto rilevante, che la magistratura, in questi ultimi tre anni, di fronte all'allarmante "vuoto della politica", sempre più sia stata costretta ad assumere un ruolo di supplenza che non ha certamente giovato alla sua stessa credibilità.
Non inganni la popolarità di cui oggi godono i magistrati più famosi; a lungo andare il ruolo della magistratura verrà sempre più individuato come interno alla "partita" dello scontro politico, una "partita", peraltro, "truccata"; ne soffrirà la credibilità dell'istituzione.
La magistratura ha svolto, in questi anni, un indubbio compito di riabilitazione della legalità (mettendo in crisi settori di ceto politico del vecchio sistema) e di controllo della legalità nell'esercizio delle pubbliche funzioni; nel contempo, però, tale delicato e vasto campo di indagine non ha potuto avere, come necessario contrappeso in uno Stato di diritto, un adeguato sistema di garanzie.

Ha ragione Ferrajoli, il quale ammonisce che ai magistrati non servono acritiche, entusiastiche (e, a volta, strumentali) adesioni; ma, egli argomenta, "alta e attenta deve essere la critica pubblica delle prassi giudiziarie, contrappeso necessario dell'indipendenza dei giudici e principale fattore della loro responsabilizzazione". Siamo stati spettatori desolati, in questi ultimi mesi, dell'arroganza verso (e contro) le regole costituzionali e di diritto da parte del berlusconismo, di un conflitto tra "nuovo" potere politico e magistratura tendente ad imbavagliare quest'ultima; ma anche di una operazione della magistratura spesso guidata dalla grande stampa e tesa ad invadere il terreno politico.
Sono fenomeni preoccupanti giuridicamente e politicamente; non li amo perché alludono entrambi, in ogni caso, a possibili, ulteriori svolte autoritarie.
Sulla magistratura penale, in particolare, ampi settori dell'opinione pubblica hanno caricato, indebitamente, ingenue speranze di rigenerazione; il giustizialismo è da evitare accuratamente, soprattutto in fasi storiche come l'attuale, perché è, al fondo, dannoso per la stessa magistratura; illudersi di eliminare il "nemico" politico attraverso i magistrati è, nello stesso tempo, la negazione sia della giustizia, sia della politica (intesa in senso "alto").
Non a caso qualche mese fa Cossiga ha scritto (ed io non sono per nulla d'accordo) che i magistrati sono i "nuovi fondatori" della "rinascita della nazione Italia".
Essi sono "buoni padri di famiglia", giusti e vendicativi, buoni e popolani (pensava a Di Pietro?).

Come non vedere, in questi giudizi, un fondo culturale ambiguo, possibile cemento di una svolta populista e reazionaria di massa, di cui già nel berlusconismo vi sono tanti pericolosi germi?
Vi è una visione patriarcale dello Stato, una sconfitta del protagonismo di massa, una alienazione politica di massa.
Ha, giustamente, scritto Rodotà: "non vorremmo che l'attuale crisi di democrazia ci riportasse, anche attraverso la figura dei giudici vendicatori, all'indietro, in un passato paternalista e totalitario". Guai ad assecondare, dentro una crisi che rende deboli, confusi, impotenti, il bisogno dell'uomo giusto e forte come punto unico di riferimento, di fronte alla perdita del senso collettivo di sé da parte della società! Rischiamo forme di "plebiscitarismo", peraltro molto mediocre!
Nell'attività sacrosanta della magistratura contro i politici corrotti non riesco a vedere nessun processo "rivoluzionario", come amano sostenere Corriere della Sera e Repubblica: essa, in realtà, si inserisce in un processo di cambiamento che tende al rafforzamento delle classi economiche dirigenti. Anzi, ne è funzione ed accelerazione.
Il capitale ha avvertito la necessità, dopo la fine del bipolarismo, all'interno di una crisi grave e complessa di sovrapproduzione, di un drastico mutamento di ceto politico: l'interclassismo democristiano, il regime DC-PSI costavano, ormai, troppo al capitale in termini di "conquista del consenso". Occorreva ristrutturare il sistema politico, ristrutturare il sistema di poteri, distruggere i partiti (ormai troppo esosi, famelici, costosi); l'introduzione del sistema maggioritario uninominale nella formazione delle rappresentanze è stato un aspetto di questa operazione; ma anche l'opera della Magistratura si iscrive oggettivamente dentro questo processo di ristrutturazione capitalistica, il cui esito rischia di essere un ampio disegno di ricomposizione neo autoritaria pilotata dalle classi dirigenti dell'economia italiana.

È un'operazione politica vasta e complessa, che incide sugli assetti economico/sociali, ma anche sugli assetti costituzionali. Non a caso si attuano o si preparano controriforme istituzionali, ispirate ai dettami da tempo indicati dalla Commissione Trilaterale, che tendono ad eliminare, imbavagliare o distorcere le domande di maggiore democrazia, occludendo i canali di formazione della decisionalità politica ampia, rendendo sempre più rigidi e verticistici i processi decisionali.
Gli scopi da attuare sembrano essere due: rendere la governabilità non permeabile dalle domande sociali, dal conflitto, da un lato; strutturare l'assetto istituzionale tipico di uno Stato corporativo, dall'altro.
La stessa presunta "tecnicità", che sempre più diventa funzione di governo, non ha altro significato che la "presa diretta" delle ricette liberiste sul governo, senza mediazione alcuna. È un processo interno alla costruzione dell'Europa di Maastricht (e per questo assume una valenza strategica e non precaria) che cattura larga parte dei vertici sindacali e delle forze della sinistra, che se ne fanno attive protagoniste, diventando complemento della ristrutturazione dei "poteri forti". Si va formando un nuovo "arco politico del mercato", che comprende, ormai, il 90% del sistema politico italiano; esso costituisce il nuovo parametro dell'"ordine sociale" e dello stesso "ordine pubblico". Ogni istanza critica, conflittuale, antagonista, anticapitalistica è fuori del quadro delle compatibilità e diventa, di conseguenza, destabilizzante di istituzioni che sono finalizzate ai processi di valorizzazione del capitale. Si spezza, in tal modo, il legame (tradizionale in Italia) tra conflitto sociale e sistema politico, tra programmi e politica; la tendenza è alla "americanizzazione" dei rapporti tra istituzioni e società; le sinistre antagoniste, in Italia, diventeranno come i "neri", gli "ispanici" dei sistemi maggioritari anglosassoni.

Non vi è dubbio che, sul sistema dei partiti, l'iniziativa dei giudici abbia avuto un effetto devastante; ma, purtroppo, non nella direzione di una critica della politica borghese, né ai veri e propri "comitati di affari" intrecciati alle politiche di accumulazione; bensì nella direzione del tentativo di cancellare dalla coscienza di massa la stessa idea di organizzazione, come passaggio verso una democrazia "plebiscitaria", nella quale alle organizzazioni di massa si sostituiscono le lobbies, alla decisionalità pluralistica e collettiva il solitario potere del leader, omologato all'interno del sistema di potere unico, vale a dire quello legittimato dalle centrali capitalistiche.
Non è forse giunto il tempo, per le forze della sinistra antagonista, di rilanciare la marxiana critica del Potere, le forme di socializzazione, autogestione, autorganizzazione? Siamo, infatti, all'interno di una fase storica in cui occorre rifuggire da ogni forma di Realpolitick, illusoria ed anche avventurista.
Margini di riformismo sono, oggi, erosi dalla ristrutturazione del capitale; il capitale ha frantumato da destra il "compromesso sociale": quale spazio esiste per ipotesi liberaldemocratiche o di vaga ispirazione socialdemocratica? Per difendere spazi di libertà, ambiti di conflitto, occorre intensificare radicalità e progettualità, dimostrare che, dietro le chiacchiere, la partita è truccata. Arretrare, con l'illusione di salvare inesistenti margini riformistici, significa solo accettare la rotta di Caporetto del movimento operaio!
Occorre, invece, mettere in discussione il paradosso che stiamo vivendo: il ricambio del ceto politico, determinato, nei suoi aspetti formali, soprattutto dal maggioritario e dall'azione di pulizia della magistratura, è attuato in nome della trasparenza della gestione della cosa pubblica; ma esso, che pure ha il merito di aver spazzato via un ceto politico corrotto, è la premessa di un colossale processo di clandestinizzazione del potere, "mettendolo al riparo" dal conflitto sociale, sottraendolo alla "pressione" delle domande sociali, affidandolo direttamente (e senza mediazioni istituzionali) alla "tecnicità" pura degli esperti della Confindustria e dei poteri economici "forti". Gli stessi partiti di opposizione, che abbandonano l'orizzonte anticapitalistico, si staccano dagli interessi della loro base sociale e diventano associazioni politico/statuali, elementi fondamentali di un unico Stato "allargato": gli schieramenti di centro-destra e di centro-sinistra saranno in dura competizione elettorale per il governo; ma i punti di riferimento economico/sociali ed istituzionali saranno identici; i programmi economici e le politiche antipopolari saranno, infatti, dettate sempre più, nel caso della vittoria dell'uno come dell'altro schieramento, dal Fondo Monetario Internazionale.
Anche lo schieramento di centro-sinistra, quindi, si distaccherà sempre più dai bisogni e dalle pressioni sociali. La sconfitta della democrazia di massa organizzata, che sarebbe la conseguenza naturale dell'affermazione delle tendenze in atto, è anche il terreno più adatto alla formazione di un nuovo regime di massa di stampo plebiscitario, che potrebbe prosperare all'interno di una disgregazione della coscienza collettiva popolare, di un confuso e torbido corporativismo ribellistico, populistico, "vandeano".

Non va sottovalutata nemmeno l'entità delle macerie che l'interventismo dei magistrati sta lasciando sul terreno sul piano giuridico e dei valori.
Vi è stato, indubbiamente, nella prassi giudiziaria, un arretramento delle "garanzie"; a volte, vi è stato un uso strumentale dell'azione penale. I tre momenti costitutivi dell'azione penale (reato, processo, pena) non sono usciti indenni da questo periodo eccezionale.
Occorre che l'attacco alle prassi emergenzialiste sia portato, correttamente, da donne e uomini democratici, di sinistra, senza arretramenti furbeschi e deleteri, senza torsioni stataliste; altrimenti, ci pensano gli Sgarbi ed i Ferrara a monopolizzare un "garantismo" classista e posticcio, di difesa di uno spezzone di ceto politico.
Si è riaperto, in questi giorni, un dibattito molto strumentale, sull'"amnistia", sulla "chiusura politica" per i reati di tangentopoli. Io sono contrario ad ogni "colpo di spugna", così come ad ogni lesione del principio dell'obbligatorietà dell'azione penale, che può derivare da un'esasperata applicazione del modello premiale, attraverso una garanzia di totale impunità ai "pentiti" che può aprire il varco al mercato delle chiamate in correità, gestito nella più totale discrezionalità da parte delle procure. Sono anche contrario alla assoluta equiparazione dei reati di concussione e corruzione, che mi sembrerebbe particolarmente iniqua.
Ciò che, peraltro, mi preoccupa maggiormente è la constatazione che la sovradeterminazione politica e di opinione pubblica, di senso comune, assunta dalla "risoluzione politica" di Tangentopoli, ha messo completamente in ombra un tema che invece ritengo centrale. (da non rimuovere assolutamente). Finalmente si è riparlato, nei giorni scorsi, di carcere. Altri morti, altri suicidi. Qualche distratta e frettolosa emozione. Poi, di nuovo, il silenzio. È certamente, quello del carcere, un tema aspro, "contro-corrente" rispetto al senso comune. Proprio per questo, però, è indispensabile evitare che se ne impossessi la destra per interessi obliqui, di ceto politico.

La cultura democratica deve saper ricostruire "luoghi di riflessione", "osservatori" permanenti. Dobbiamo dunque ricercare il nuovo punto di connessione, tra difesa delle garanzie e fine risocializzante della pena, di fronte all'assoluta centralità che il carcere ha assunto nel sistema sanzionatorio. Siamo, invero, troppo lontani dalla nostra tradizionale utopia di una tensione continua per "liberarci dalla necessità del carcere". Tanto più che sono mutate, in pochi anni, la natura stessa del carcere e la composizione della sua popolazione. La richiesta di "più carcere" nasce, spesso, all'interno di un diffuso disagio sociale.
A cominciare dal 1990 la popolazione detenuta è aumentata fino a superare la soglia delle 54 mila presenze; nel contempo le misure alternative al carcere si sono drasticamente ridotte. È anche un riflesso del fatto che, ad ogni emergenza, la risposta istituzionale è consistita sempre e soltanto nell'aumento delle pene detentive. Le forze politiche reazionarie hanno instillato veleni autoritari, umori rancorosi nelle viscere della società, organizzando vere e proprie "campagne d'ordine".
Cito solo due nudi dati: negli ultimi tre anni la presenza dei detenuti tossicodipendenti è passata dal 18% a più del 50%; i detenuti di provenienza extracomunitaria sono, nello stesso periodo, passati dal 4% al 22%. I soggetti più bisognosi di trattamenti, amore, socialità sono diventati "devianti" da temere e da rinchiudere (facendo del carcere uno strumento di controllo sociale). Nè possiamo dimenticare l'istituto della custodia cautelare.

È stato approvato dalla Camera, finalmente, un disegno di legge sui cui contenuti già emergono polemiche un po' sgangherate e demagogiche. Concordo con quanto scriveva, tempo fa, Mauro Palma, presidente dell'associazione Antigone: "questo è un punto di discrimine che può far capire lo spessore di democraticità e di efficienza dell'intero sistema: sia per la connotazione impropria di anticipo della pena, sia per l'incidenza percentuale abnorme che ha sulla popolazione carceraria (attualmente 27 mila detenuti, di cui 16 mila in attesa di sentenza di primo grado)".
È un inutile vezzo libertario e garantista ricordare che la custodia cautelare deve essere un istituto estremo a cui ricorrere in modo molto limitato, sotto un rigido controllo di garanzia e solo in situazioni di inderogabile necessità?
La presunzione di innocenza non ammette deroghe, per quanto il delitto sia socialmente oltraggioso. E poi, come spiegano continuamente (ed invano) gli stessi operatori penitenziari più avvertiti, come si fa, con le carceri stracolme, ad attuare una politica di risocializzazione? Dove sono finite le stesse timide riforme del 1975 e del 1986? Eppure, non mancano progetti, ricerche di grande esperienza ed intelligenza tese a ridisegnare, ad esempio, le varie forme di semilibertà e le misure alternative al carcere; così come il rispetto della affettività delle detenute e dei detenuti, anche nei confronti dei loro figli.
Né possiamo dimenticare che, dopo due legislature, ancora giace in Parlamento la proposta di legge sulla detenzione politica (è una mostruosità giuridica e politica). Sono argomenti certamente scomodi: ma si pensa sul serio di elevare lo spessore della progettualità delle sinistre facendo finta di dimenticarli, rimuovendoli?
Ora più che mai, credo, il livello di democrazia della società, di fronte ai disvalori fascisti e berlusconiani, si misura anche dalla civiltà delle sue carceri e dal valore che si attribuisce alla pena.
(da Democrazia e Giustizialismo-1995- ed. RGF)

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