"Questione
penale"
e democrazia autoritaria
di
Giovanni Russo Spena
Le
vicende italiane degli ultimi anni hanno determinato l'irrompere della
"questione penale" come centrale rispetto alla "governabilità" del sistema
in una fase, delicatissima e convulsa, di transizione istituzionale.
Non amo le semplificazioni; adotto, solo per facilità interpretativa,
la categoria di "passaggio dalla Prima alla Seconda Repubblica", diventata
linguaggio comune della politica di Palazzo, all'interno della quale l'aggettivo
"nuovo", contrapposto all'aggettivo "vecchio", ha assunto un ruolo quasi
orgiastico e salvifico, che copre, in realtà, ricette liberiste.
All'interno di questa fase di transizione l'opinione pubblica chiede,
da un lato, una ulteriore estensione della sfera dell'intervento penale
(che dovrebbe sostituirsi, anche nella gestione del territorio, dell'apparato
produttivo, degli assetti economico/sociali, alla normale dialettica tra
i poteri costituzionali) e, dall'altro, contemporaneamente e contraddittoriamente,
un arretramento dell'azione penale per permettere il pieno sviluppo dell'attività
economica che, dal controllo penale stesso, sarebbe stato gravemente intralciato.
A
quest'ultimo filone risalgono le varie proposte di "uscita da tangentopoli",
le varie forme di "patteggiamento" proposte, la soluzione propugnata da
magistrati della Procura di Milano al convegno di Cernobbio (una proposta
scritta da magistrati insieme ad avvocati di industriali e finanzieri
inquisisti che, al di là del merito, non condivisibile, si è prospettata,
nel metodo, come forma pericolosa, dannosa, di penetrante consociativismo
tra magistratura penale e "poteri forti" confindustriali). Non vi è dubbio,
ed è un punto molto rilevante, che la magistratura, in questi ultimi tre
anni, di fronte all'allarmante "vuoto della politica", sempre più sia
stata costretta ad assumere un ruolo di supplenza che non ha certamente
giovato alla sua stessa credibilità.
Non
inganni la popolarità di cui oggi godono i magistrati più famosi; a lungo
andare il ruolo della magistratura verrà sempre più individuato come interno
alla "partita" dello scontro politico, una "partita", peraltro, "truccata";
ne soffrirà la credibilità dell'istituzione.
La magistratura ha svolto, in questi anni, un indubbio compito di riabilitazione
della legalità (mettendo in crisi settori di ceto politico del vecchio
sistema) e di controllo della legalità nell'esercizio delle pubbliche
funzioni; nel contempo, però, tale delicato e vasto campo di indagine
non ha potuto avere, come necessario contrappeso in uno Stato di diritto,
un adeguato sistema di garanzie.
Ha
ragione Ferrajoli, il quale ammonisce che ai magistrati non servono acritiche,
entusiastiche (e, a volta, strumentali) adesioni; ma, egli argomenta,
"alta e attenta deve essere la critica pubblica delle prassi giudiziarie,
contrappeso necessario dell'indipendenza dei giudici e principale fattore
della loro responsabilizzazione". Siamo stati spettatori desolati, in
questi ultimi mesi, dell'arroganza verso (e contro) le regole costituzionali
e di diritto da parte del berlusconismo, di un conflitto tra "nuovo" potere
politico e magistratura tendente ad imbavagliare quest'ultima; ma anche
di una operazione della magistratura spesso guidata dalla grande stampa
e tesa ad invadere il terreno politico.
Sono fenomeni preoccupanti giuridicamente e politicamente; non li amo
perché alludono entrambi, in ogni caso, a possibili, ulteriori svolte
autoritarie.
Sulla magistratura penale, in particolare, ampi settori dell'opinione
pubblica hanno caricato, indebitamente, ingenue speranze di rigenerazione;
il giustizialismo è da evitare accuratamente, soprattutto in fasi storiche
come l'attuale, perché è, al fondo, dannoso per la stessa magistratura;
illudersi di eliminare il "nemico" politico attraverso i magistrati è,
nello stesso tempo, la negazione sia della giustizia, sia della politica
(intesa in senso "alto").
Non a caso qualche mese fa Cossiga ha scritto (ed io non sono per nulla
d'accordo) che i magistrati sono i "nuovi fondatori" della "rinascita
della nazione Italia".
Essi sono "buoni padri di famiglia", giusti e vendicativi, buoni e popolani
(pensava a Di Pietro?).
Come
non vedere, in questi giudizi, un fondo culturale ambiguo, possibile cemento
di una svolta populista e reazionaria di massa, di cui già nel berlusconismo
vi sono tanti pericolosi germi?
Vi è una visione patriarcale dello Stato, una sconfitta del protagonismo
di massa, una alienazione politica di massa.
Ha, giustamente, scritto Rodotà: "non vorremmo che l'attuale crisi di
democrazia ci riportasse, anche attraverso la figura dei giudici vendicatori,
all'indietro, in un passato paternalista e totalitario". Guai ad assecondare,
dentro una crisi che rende deboli, confusi, impotenti, il bisogno dell'uomo
giusto e forte come punto unico di riferimento, di fronte alla perdita
del senso collettivo di sé da parte della società! Rischiamo forme di
"plebiscitarismo", peraltro molto mediocre!
Nell'attività sacrosanta della magistratura contro i politici corrotti
non riesco a vedere nessun processo "rivoluzionario", come amano sostenere
Corriere della Sera e Repubblica: essa, in realtà, si inserisce in un
processo di cambiamento che tende al rafforzamento delle classi economiche
dirigenti. Anzi, ne è funzione ed accelerazione.
Il capitale ha avvertito la necessità, dopo la fine del bipolarismo, all'interno
di una crisi grave e complessa di sovrapproduzione, di un drastico mutamento
di ceto politico: l'interclassismo democristiano, il regime DC-PSI costavano,
ormai, troppo al capitale in termini di "conquista del consenso". Occorreva
ristrutturare il sistema politico, ristrutturare il sistema di poteri,
distruggere i partiti (ormai troppo esosi, famelici, costosi); l'introduzione
del sistema maggioritario uninominale nella formazione delle rappresentanze
è stato un aspetto di questa operazione; ma anche l'opera della Magistratura
si iscrive oggettivamente dentro questo processo di ristrutturazione capitalistica,
il cui esito rischia di essere un ampio disegno di ricomposizione neo
autoritaria pilotata dalle classi dirigenti dell'economia italiana.
È un'operazione politica vasta e complessa, che incide sugli assetti economico/sociali,
ma anche sugli assetti costituzionali. Non a caso si attuano o si preparano
controriforme istituzionali, ispirate ai dettami da tempo indicati dalla
Commissione Trilaterale, che tendono ad eliminare, imbavagliare o distorcere
le domande di maggiore democrazia, occludendo i canali di formazione della
decisionalità politica ampia, rendendo sempre più rigidi e verticistici
i processi decisionali.
Gli scopi da attuare sembrano essere due: rendere la governabilità non
permeabile dalle domande sociali, dal conflitto, da un lato; strutturare
l'assetto istituzionale tipico di uno Stato corporativo, dall'altro.
La stessa presunta "tecnicità", che sempre più diventa funzione di governo,
non ha altro significato che la "presa diretta" delle ricette liberiste
sul governo, senza mediazione alcuna. È un processo interno alla costruzione
dell'Europa di Maastricht (e per questo assume una valenza strategica
e non precaria) che cattura larga parte dei vertici sindacali e delle
forze della sinistra, che se ne fanno attive protagoniste, diventando
complemento della ristrutturazione dei "poteri forti". Si va formando
un nuovo "arco politico del mercato", che comprende, ormai, il 90% del
sistema politico italiano; esso costituisce il nuovo parametro dell'"ordine
sociale" e dello stesso "ordine pubblico". Ogni istanza critica, conflittuale,
antagonista, anticapitalistica è fuori del quadro delle compatibilità
e diventa, di conseguenza, destabilizzante di istituzioni che sono finalizzate
ai processi di valorizzazione del capitale. Si spezza, in tal modo, il
legame (tradizionale in Italia) tra conflitto sociale e sistema politico,
tra programmi e politica; la tendenza è alla "americanizzazione" dei rapporti
tra istituzioni e società; le sinistre antagoniste, in Italia, diventeranno
come i "neri", gli "ispanici" dei sistemi maggioritari anglosassoni.
Non
vi è dubbio che, sul sistema dei partiti, l'iniziativa dei giudici abbia
avuto un effetto devastante; ma, purtroppo, non nella direzione di una
critica della politica borghese, né ai veri e propri "comitati di affari"
intrecciati alle politiche di accumulazione; bensì nella direzione del
tentativo di cancellare dalla coscienza di massa la stessa idea di organizzazione,
come passaggio verso una democrazia "plebiscitaria", nella quale alle
organizzazioni di massa si sostituiscono le lobbies, alla decisionalità
pluralistica e collettiva il solitario potere del leader, omologato all'interno
del sistema di potere unico, vale a dire quello legittimato dalle centrali
capitalistiche.
Non è forse giunto il tempo, per le forze della sinistra antagonista,
di rilanciare la marxiana critica del Potere, le forme di socializzazione,
autogestione, autorganizzazione? Siamo, infatti, all'interno di una fase
storica in cui occorre rifuggire da ogni forma di Realpolitick, illusoria
ed anche avventurista.
Margini di riformismo sono, oggi, erosi dalla ristrutturazione del capitale;
il capitale ha frantumato da destra il "compromesso sociale": quale spazio
esiste per ipotesi liberaldemocratiche o di vaga ispirazione socialdemocratica?
Per difendere spazi di libertà, ambiti di conflitto, occorre intensificare
radicalità e progettualità, dimostrare che, dietro le chiacchiere, la
partita è truccata. Arretrare, con l'illusione di salvare inesistenti
margini riformistici, significa solo accettare la rotta di Caporetto del
movimento operaio!
Occorre, invece, mettere in discussione il paradosso che stiamo vivendo:
il ricambio del ceto politico, determinato, nei suoi aspetti formali,
soprattutto dal maggioritario e dall'azione di pulizia della magistratura,
è attuato in nome della trasparenza della gestione della cosa pubblica;
ma esso, che pure ha il merito di aver spazzato via un ceto politico corrotto,
è la premessa di un colossale processo di clandestinizzazione del potere,
"mettendolo al riparo" dal conflitto sociale, sottraendolo alla "pressione"
delle domande sociali, affidandolo direttamente (e senza mediazioni istituzionali)
alla "tecnicità" pura degli esperti della Confindustria e dei poteri economici
"forti". Gli stessi partiti di opposizione, che abbandonano l'orizzonte
anticapitalistico, si staccano dagli interessi della loro base sociale
e diventano associazioni politico/statuali, elementi fondamentali di un
unico Stato "allargato": gli schieramenti di centro-destra e di centro-sinistra
saranno in dura competizione elettorale per il governo; ma i punti di
riferimento economico/sociali ed istituzionali saranno identici; i programmi
economici e le politiche antipopolari saranno, infatti, dettate sempre
più, nel caso della vittoria dell'uno come dell'altro schieramento, dal
Fondo Monetario Internazionale.Anche
lo schieramento di centro-sinistra, quindi, si distaccherà sempre più
dai bisogni e dalle pressioni sociali. La sconfitta della democrazia di
massa organizzata, che sarebbe la conseguenza naturale dell'affermazione
delle tendenze in atto, è anche il terreno più adatto alla formazione
di un nuovo regime di massa di stampo plebiscitario, che potrebbe prosperare
all'interno di una disgregazione della coscienza collettiva popolare,
di un confuso e torbido corporativismo ribellistico, populistico, "vandeano".
Non
va sottovalutata nemmeno l'entità delle macerie che l'interventismo dei
magistrati sta lasciando sul terreno sul piano giuridico e dei valori.
Vi è stato, indubbiamente, nella prassi giudiziaria, un arretramento delle
"garanzie"; a volte, vi è stato un uso strumentale dell'azione penale.
I tre momenti costitutivi dell'azione penale (reato, processo, pena) non
sono usciti indenni da questo periodo eccezionale.
Occorre che l'attacco alle prassi emergenzialiste sia portato, correttamente,
da donne e uomini democratici, di sinistra, senza arretramenti furbeschi
e deleteri, senza torsioni stataliste; altrimenti, ci pensano gli Sgarbi
ed i Ferrara a monopolizzare un "garantismo" classista e posticcio, di
difesa di uno spezzone di ceto politico.
Si è riaperto, in questi giorni, un dibattito molto strumentale, sull'"amnistia",
sulla "chiusura politica" per i reati di tangentopoli. Io sono contrario
ad ogni "colpo di spugna", così come ad ogni lesione del principio dell'obbligatorietà
dell'azione penale, che può derivare da un'esasperata applicazione del
modello premiale, attraverso una garanzia di totale impunità ai "pentiti"
che può aprire il varco al mercato delle chiamate in correità, gestito
nella più totale discrezionalità da parte delle procure. Sono anche contrario
alla assoluta equiparazione dei reati di concussione e corruzione, che
mi sembrerebbe particolarmente iniqua.
Ciò che, peraltro, mi preoccupa maggiormente è la constatazione che la
sovradeterminazione politica e di opinione pubblica, di senso comune,
assunta dalla "risoluzione politica" di Tangentopoli, ha messo completamente
in ombra un tema che invece ritengo centrale. (da non rimuovere assolutamente).
Finalmente si è riparlato, nei giorni scorsi, di carcere. Altri morti,
altri suicidi. Qualche distratta e frettolosa emozione. Poi, di nuovo,
il silenzio. È certamente, quello del carcere, un tema aspro, "contro-corrente"
rispetto al senso comune. Proprio per questo, però, è indispensabile evitare
che se ne impossessi la destra per interessi obliqui, di ceto politico.
La
cultura democratica deve saper ricostruire "luoghi di riflessione", "osservatori"
permanenti. Dobbiamo dunque ricercare il nuovo punto di connessione, tra
difesa delle garanzie e fine risocializzante della pena, di fronte all'assoluta
centralità che il carcere ha assunto nel sistema sanzionatorio. Siamo,
invero, troppo lontani dalla nostra tradizionale utopia di una tensione
continua per "liberarci dalla necessità del carcere". Tanto più che sono
mutate, in pochi anni, la natura stessa del carcere e la composizione
della sua popolazione. La richiesta di "più carcere" nasce, spesso, all'interno
di un diffuso disagio sociale.
A cominciare dal 1990 la popolazione detenuta è aumentata fino a superare
la soglia delle 54 mila presenze; nel contempo le misure alternative al
carcere si sono drasticamente ridotte. È anche un riflesso del fatto che,
ad ogni emergenza, la risposta istituzionale è consistita sempre e soltanto
nell'aumento delle pene detentive. Le forze politiche reazionarie hanno
instillato veleni autoritari, umori rancorosi nelle viscere della società,
organizzando vere e proprie "campagne d'ordine".
Cito solo due nudi dati: negli ultimi tre anni la presenza dei detenuti
tossicodipendenti è passata dal 18% a più del 50%; i detenuti di provenienza
extracomunitaria sono, nello stesso periodo, passati dal 4% al 22%. I
soggetti più bisognosi di trattamenti, amore, socialità sono diventati
"devianti" da temere e da rinchiudere (facendo del carcere uno strumento
di controllo sociale). Nè possiamo dimenticare l'istituto della custodia
cautelare.
È
stato approvato dalla Camera, finalmente, un disegno di legge sui cui
contenuti già emergono polemiche un po' sgangherate e demagogiche. Concordo
con quanto scriveva, tempo fa, Mauro Palma, presidente dell'associazione
Antigone: "questo è un punto di discrimine che può far capire lo spessore
di democraticità e di efficienza dell'intero sistema: sia per la connotazione
impropria di anticipo della pena, sia per l'incidenza percentuale abnorme
che ha sulla popolazione carceraria (attualmente 27 mila detenuti, di
cui 16 mila in attesa di sentenza di primo grado)".
È un inutile vezzo libertario e garantista ricordare che la custodia cautelare
deve essere un istituto estremo a cui ricorrere in modo molto limitato,
sotto un rigido controllo di garanzia e solo in situazioni di inderogabile
necessità?
La presunzione di innocenza non ammette deroghe, per quanto il delitto
sia socialmente oltraggioso. E poi, come spiegano continuamente (ed invano)
gli stessi operatori penitenziari più avvertiti, come si fa, con le carceri
stracolme, ad attuare una politica di risocializzazione? Dove sono finite
le stesse timide riforme del 1975 e del 1986? Eppure, non mancano progetti,
ricerche di grande esperienza ed intelligenza tese a ridisegnare, ad esempio,
le varie forme di semilibertà e le misure alternative al carcere; così
come il rispetto della affettività delle detenute e dei detenuti, anche
nei confronti dei loro figli.
Né possiamo dimenticare che, dopo due legislature, ancora giace in Parlamento
la proposta di legge sulla detenzione politica (è una mostruosità giuridica
e politica). Sono argomenti certamente scomodi: ma si pensa sul serio
di elevare lo spessore della progettualità delle sinistre facendo finta
di dimenticarli, rimuovendoli?
Ora più che mai, credo, il livello di democrazia della società, di fronte
ai disvalori fascisti e berlusconiani, si misura anche dalla civiltà delle
sue carceri e dal valore che si attribuisce alla pena.
(da Democrazia e Giustizialismo-1995- ed. RGF)
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