27 aprile 2002

 
     

L'etica della professione forense.
di Massimiliano Trematerra

(Quello che segue e' il resoconto dell'intervento del vicepresidente del CSM Verde al seminario "Il valore dell'etica nell'esercizio delle discipline forensi", tenutosi in occasione dell'inaugurazione del primo anno della scuola di specializzazione in professioni legali dell'Ateneo Federico II di Napoli.

La relazione e' di grande attualita' , quando si pensa ai nuovi conflitti che di recente contrappongono i diversi ruoli assunti da avvocati di grido assurti a posizioni di rilievo nelle istituzioni, come Taormina, Pecorella ed oggi Vaccarella; ndr)

Chiunque consideri il diritto nella sua veste reale di scienza dello spirito, si pone intuitivamente la domanda se esso debba coincidere con l'etica, intesa come regola di condotta dell'uomo, destinata ad influenzare i suoi comportamenti e quindi le sue relazioni con altri soggetti del gruppo in cui vive, o quanto meno debba recepirne i contenuti essenziali o se invece possa restarle indifferente. E non vi è dubbio che la tendenziale libertà che caratterizza le scienze dello spirito, al contrario di quelle fisiche, dominate dal principio di causalità, rende la risposta a questo quesito variabile.

Storicamente, dopo un lungo periodo di matrice idealistica, nel quale l'idea del diritto si è astratta dal soggetto in quanto persona, con conseguenze a volte aberranti, si è avuta dopo la seconda guerra mondiale una tendenza a rimettere al centro delle dottrine culturali e spirituali l'uomo nella sua più intima essenza, come evidenziato dallo sviluppo delle correnti esistenzialistiche.

Il Prof. Giovanni Verde ha al proposito individuato nella corrente del neogiusnaturalismo il referente giuridico di tale atteggiamento, sottolineando come i diritti della persona possano oggi essere riscoperti, anzitutto nei valori costituzionali che le Carte fondamentali hanno dichiarato. E' il periodo nel quale le Corti internazionali si impongono, nel nome del diritto, agli stessi Stati, riconfermando l'idea di un'Autorità sopranazionale della Giustizia.

Il Prof. Verde evidenzia quindi comparativisticamente, come in merito alla deontologia nell'ambito delle discipline forensi, la prassi anglosassone tenda a recepire le norme dell'etica nel sistema giuridico, ritenendole essenziali ad una corretta amministrazione della Giustizia, molto più di quanto non accada in Italia, almeno per il profilo dell'accesso alla professione di Avvocato nel quale si ha in Inghilterra molta più cura dell'aspetto deontologico.

L'Italia, in particolare, è stata segnalata negativamente dal delegato ONU per l'osservazione dello stato della Giustizia, poiché si è preso atto dell'esistenza di pratiche deprecabili volte a determinare o ad accrescere il rischio di ritardi nell'emanazione di sentenze. E' intuitivo che gli abusi nei processi ad opera degli Avvocati difensori possono divenire tanto più allarmanti, quanto maggiori sono i poteri che la legge riconosce loro. Si rileva che, a fronte di un ampliamento di detti poteri - come per il caso della nuova legge sulle facoltà del difensore nelle indagini difensive - sarebbe auspicabile un maggior controllo sull'adeguatezza dei metodi e dei comportamenti deontologici degli Avvocati.

Allo stato attuale, tuttavia, si può dire che: in primo luogo, il Codice deontologico non ha valore cogente ma costituisce una disciplina di indirizzo, come tale subordinata all'accettazione dei membri del Consiglio, a mò di una disciplina contrattuale; infatti, l'unica norma con valore di legge dichiara sanzionabili "gli abusi e le mancanze o i fatti non conformi al decoro professionale" (art.38 L1933).

In secondo luogo, premesso che il controllo disciplinare avviene a mezzo di un iter procedimentale promosso e gestito da organi interni al Consiglio stesso, va detto che, seppur la legge dichiari l'azione disciplinare obbligatoria, in realtà è stato statisticamente rilevato che, a fronte di un'attività disciplinare consistente, presso determinati Consigli locali, pressoché nulla è invece l'attività di determinati altri Consigli e ciò non può non mettere in guardia, sostiene il Prof. Verde, facendo pensare all'atteggiamento lassista di alcuni di essi.

Nulla quaestio con riguardo al valore giurisdizionale delle pronunce del Consiglio nazionale dell'Ordine, a favore del quale si è anche espressa positivamente la Corte Costituzionale, la quale con sentenza n°284/86 a solo richiesto come requisito di legittimità che la disciplina di procedimento non contrasti con i canoni della giurisprudenza, in particolare con riguardo all'indipendenza dei membri giudicanti, con attenzione al meccanismo per le loro nomine.

Al contrario che per gli Avvocati, per i Notai il legislatore ha predicato un totale assorbimento delle norme di comportamento nel sistema giuridico, imponendo al Consiglio del Notariato di emanare un Codice deontologico, il quale, con valore di atto regolamentare, disciplinasse l'adeguatezza dei comportamenti dei notai; si desume l'impugnabilità dei comportamenti ritenuti contrari al Codice, da pare di qualsiasi interessato, con ricorso al Giudice amministrativo, il quale provvederà secondo i poteri che gli sono riconosciuti.

Il procedimento disciplinare nei confronti dei magistrati si svolge davanti alla Sezione disciplinare del CSM, formata in modo proporzionale e tale da assicurare la presenza di membri laici al fianco dei membri togati; ha pieno valore giurisdizionale e culmina in una sentenza che è impugnabile alle SS.UU. della Cassazione civile. L'autodichia e cioè questa predetta qualità è speculare all'indipendenza del magistrato, il quale, per il fatto stesso che detiene un potere di controllo della legalità, anche di coloro che gestiscono la cosa pubblica, ha diritto acchè i suoi comportamenti vengano valutati dal Consiglio cui egli appartiene.

Quanto all'oggetto del procedimento disciplinare, la Sezione è teuta a far rispettare una regola generica di deontologia, anche se dalla società civile provengono pressioni circa una tipizzazione delle regole comportamentali, che possa evitare abusi proprio dagli stessi magistrati. L'opinione del Prof. Verde in proposito sembra essere positiva e tanto più egli ritiene opportuna tale tipizzazione, se ed in quanto il controllo disciplinare dovesse essere trasferito ad un organo esterno al CSM: diverrebbe anzi a quel punto fattore di garanzia per gli stessi magistrati.

Proprio su quest'ultimo fronte, di un possibile cambiamento circa il soggetto deputato a svolgere il controllo disciplinare nei confronti dei magistrati, si deve dire come ha scarso rilievo l'argomento che fonderebbe una tale opportunità sul tipo di procedura adottato dalla Sezione disciplinare: essa, infatti, per disposto dell'art.34 co.3° della legge sulle guarentigie, è tenuta ad applicare le norme del processo penale; quindi le norme del Codice penale Rocco, oggi abrogato dal nuovo C.p.p.; ma tale modifica non dovrebbe essere di intralcio rispetto alla perseverante osservanza del disposto.

Infatti, da un lato non è che le norme anzidette offrano minori garanzie per l'esecuzione di un corretto procedimento rispetto a quante ne offra il nuovo c.p.p. Inoltre, d'altro lato, si deve notare come le violazioni disciplinari non siano violazioni alla legge penale e quindi come sia infondata la necessità di un medesimo trattamento delle due fattispecie. In realtà, basta che siano osservate le norme della giurisprudenza, il diritto alla difesa tecnica, l'indipendenza e la terzietà dei giudicanti, come già indicato dalla sentenza-cardine della Corte Costituzionale in materia di codici deontologici.

Infine, poi, qualsiasi modifica che voglia ripristinare forme di controllo che assoggettano la persona del magistrato all'ingerenza di organi esterni alla stessa magistratura, dovrà essere confrontata con l'art.105 Cost. e la sua legittimità finirà col dipendere dalla modifica di quest'ultimo.

redatto per Bollettino Osservatorio

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