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26 dicembre 2025
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Diplomazia non è buona intenzione
di Giuseppe Franco Arguto

𝘘𝘶𝘢𝘯𝘥𝘰 𝘭𝘢 𝘥𝘪𝘱𝘭𝘰𝘮𝘢𝘻𝘪𝘢 𝘦̀ 𝘴𝘰𝘳𝘳𝘦𝘵𝘵𝘢 𝘥𝘢𝘭 𝘥𝘪𝘳𝘪𝘵𝘵𝘰, 𝘭𝘢 𝘧𝘰𝘳𝘻𝘢 𝘮𝘪𝘭𝘪𝘵𝘢𝘳𝘦 𝘱𝘦𝘳𝘥𝘦 𝘭𝘢 𝘮𝘢𝘴𝘤𝘩𝘦𝘳𝘢 𝘮𝘰𝘳𝘢𝘭𝘦.

Porgendo i consueti auguri di Natale ai Contingenti militari italiani impegnati nei teatri di operazioni internazionali, la Meloni dice: 𝘌̀' 𝘭𝘢 𝘧𝘰𝘳𝘻𝘢 𝘥𝘦𝘨𝘭𝘪 𝘦𝘴𝘦𝘳𝘤𝘪𝘵𝘪 𝘦 𝘭𝘢 𝘭𝘰𝘳𝘰 𝘤𝘳𝘦𝘥𝘪𝘣𝘪𝘭𝘪𝘵𝘢̀ 𝘭𝘰 𝘴𝘵𝘳𝘶𝘮𝘦𝘯𝘵𝘰 𝘱𝘪𝘶̀ 𝘦𝘧𝘧𝘪𝘤𝘢𝘤𝘦 𝘱𝘦𝘳 𝘤𝘰𝘮𝘣𝘢𝘵𝘵𝘦𝘳𝘦 𝘭𝘦 𝘨𝘶𝘦𝘳𝘳𝘦… 𝘐𝘭 𝘥𝘪𝘢𝘭𝘰𝘨𝘰 𝘦 𝘭𝘢 𝘥𝘪𝘱𝘭𝘰𝘮𝘢𝘻𝘪𝘢 𝘴𝘦𝘳𝘷𝘰𝘯𝘰, 𝘮𝘢 𝘥𝘦𝘷𝘰𝘯𝘰 𝘱𝘰𝘨𝘨𝘪𝘢𝘳𝘦 𝘴𝘶 𝘣𝘢𝘴𝘪 𝘴𝘰𝘭𝘪𝘥𝘦.”

Somiglia alla fortunata tesi di Tajani: 𝘐𝘭 𝘥𝘪𝘳𝘪𝘵𝘵𝘰 𝘪𝘯𝘵𝘦𝘳𝘯𝘢𝘻𝘪𝘰𝘯𝘢𝘭𝘦 𝘷𝘢𝘭𝘦, 𝘮𝘢 𝘧𝘪𝘯𝘰 𝘢𝘥 𝘶𝘯 𝘤𝘦𝘳𝘵𝘰 𝘱𝘶𝘯𝘵𝘰.

Traduco la teoria meloniana: la pace come sottoprodotto della minaccia. La “basi solide” come arsenale. E chi non le possiede, secondo questa grammatica, deve solo sperare nella misericordia di chi le possiede. È un realismo di facciata: sotto, c’è l’idea che la violenza sia la lingua naturale della politica.

La Storia, però, insegna una lezione più scomoda per i governi nazionalisti: la forza armata può congelare un conflitto, raramente costruisce la pace. La deterrenza può ridurre l’azzardo di un attacco, sì. Ma al tempo stesso alimenta ciò che pretende di curare: la spirale della diffidenza, la corsa agli armamenti, il “dilemma della sicurezza” per cui ogni riarmo “difensivo” appare offensivo all’altro.

Il risultato è un mondo dove la pace non è un patto, è una tregua armata. E le tregue armate, prima o poi, chiedono il conto, sempre in vite di esseri umani trasformati in statistica.

La diplomazia non è “buona intenzione”. È tecnologia politica della limitazione della violenza. Funziona quando smette di essere una cerimonia di foto e diventa architettura concreta. La Storia lo mostra con chiarezza: quando la diplomazia crea regole, sedi, verifiche, vincoli, la guerra diventa più difficile. Trattati, ispezioni, canali permanenti, meccanismi di de-escalation: non poesia, ma bulloni.

Quando la diplomazia riconosce interessi e paure reciproche, riduce l’errore di calcolo, che è una delle cause più frequenti delle catastrofi. Molte guerre nascono non dalla “necessità”, ma dal fraintendimento armato.

Quando la diplomazia è sorretta dal diritto, la forza perde la maschera morale. Senza diritto, la “credibilità” militare diventa solo prestigio tribale: chi urla più forte impone il silenzio.

Quando la diplomazia affronta le cause materiali, non solo i confini: risorse, disuguaglianze, umiliazioni, economie di rapina. Altrimenti si firmano accordi sopra un incendio e poi ci si stupisce se riparte.

Ecco la crepa decisiva nella tesi meloniana: 𝙨𝙚 “𝙗𝙖𝙨𝙞 𝙨𝙤𝙡𝙞𝙙𝙚” 𝙨𝙞𝙜𝙣𝙞𝙛𝙞𝙘𝙖 𝙖𝙧𝙢𝙞, 𝙖𝙡𝙡𝙤𝙧𝙖 𝙡𝙖 𝙥𝙖𝙘𝙚 𝙙𝙞𝙥𝙚𝙣𝙙𝙚 𝙙𝙖𝙡𝙡𝙖 𝙨𝙪𝙥𝙚𝙧𝙞𝙤𝙧𝙞𝙩𝙖̀. 𝙀 𝙡𝙖 𝙨𝙪𝙥𝙚𝙧𝙞𝙤𝙧𝙞𝙩𝙖̀, 𝙥𝙚𝙧 𝙙𝙚𝙛𝙞𝙣𝙞𝙯𝙞𝙤𝙣𝙚, 𝙥𝙧𝙤𝙙𝙪𝙘𝙚 𝙨𝙪𝙗𝙤𝙧𝙙𝙞𝙣𝙖𝙯𝙞𝙤𝙣𝙚. 𝙄𝙣 𝙦𝙪𝙚𝙨𝙩𝙤 𝙨𝙘𝙝𝙚𝙢𝙖 𝙣𝙤𝙣 𝙚𝙨𝙞𝙨𝙩𝙤𝙣𝙤 “𝙥𝙖𝙧𝙩𝙣𝙚𝙧”, 𝙚𝙨𝙞𝙨𝙩𝙤𝙣𝙤 𝙫𝙖𝙨𝙨𝙖𝙡𝙡𝙞 𝙚 𝙗𝙚𝙧𝙨𝙖𝙜𝙡𝙞 𝙥𝙤𝙩𝙚𝙣𝙯𝙞𝙖𝙡𝙞. 𝙄𝙡 𝙣𝙖𝙯𝙞𝙤𝙣𝙖𝙡𝙞𝙨𝙢𝙤 𝙨𝙞 𝙣𝙪𝙩𝙧𝙚 𝙥𝙧𝙤𝙥𝙧𝙞𝙤 𝙙𝙞 𝙦𝙪𝙚𝙨𝙩𝙖 𝙢𝙞𝙩𝙤𝙡𝙤𝙜𝙞𝙖: 𝙡𝙖 𝙘𝙤𝙢𝙪𝙣𝙞𝙩𝙖̀ 𝙘𝙤𝙢𝙚 𝙛𝙤𝙧𝙩𝙚𝙯𝙯𝙖, 𝙡𝙖 𝙥𝙤𝙡𝙞𝙩𝙞𝙘𝙖 𝙘𝙤𝙢𝙚 𝙘𝙖𝙨𝙚𝙧𝙢𝙖, 𝙞𝙡 𝙛𝙪𝙩𝙪𝙧𝙤 𝙘𝙤𝙢𝙚 𝙢𝙤𝙗𝙞𝙡𝙞𝙩𝙖𝙯𝙞𝙤𝙣𝙚 𝙥𝙚𝙧𝙢𝙖𝙣𝙚𝙣𝙩𝙚.

Una critica con basi solide, allora, rovescia l’assioma: la diplomazia è credibile quando è più forte dell’industria della guerra, quando la politica non è ostaggio dei profitti bellici e della propaganda della paura; quando la sicurezza è pensata come sicurezza comune, non come dominio. La vera “solidità” non sono le bombe. Sono le istituzioni che limitano la violenza, la trasparenza che impedisce i pretesti, la giustizia che disinnesca il rancore, la cooperazione che rende costosa la guerra e conveniente la pace.

Se la pace deve poggiare su basi solide, scegliamole bene: diritto, responsabilità, controllo democratico, disarmo verificabile, diplomazia permanente. Tutto il resto è un altare dove si sacrifica carne da macello e lo si chiama “realismo”.


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