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A quota 204
di
Rinaldo Battaglia *
Ho conosciuto, studiando la nostra ultima guerra, generali comandare, senza alcuna pietà, la distruzione di interi villaggi e di massacrare donne e bambini o di far uccidere innocenti come fossero zanzare d’estate in nome del Duce e del loro ego. Ho letto ordini criminali per ‘ragioni’ che non possono essere ’ragioni’. Ma ho saputo anche di molti atti di generosità e di vero altruismo.
Qualcuno potrebbe anche chiamarli azioni da eroi, degni di medaglie al valore, con tanto di menzione ed onorificenze. E se analizzi in profondità, molti di questi erano solo ragazzi di vent’anni, talvolta anche meno, magari con la seconda o terza elementare, usciti dall’Italia o, peggio, dal loro paese o regione per la prima volta e solo per andare in guerra.
Eppure, hanno saputo manifestare valori di umanità e di spirito di sacrificio migliori di molto loro comandanti, sia quelli - nascosti - nei loro quartieri generali che quelli – al sicuro - a Palazzo Venezia, vigliaccamente al calduccio davanti al caminetto acceso. E al momento decisivo, quando tutti gli oroscopi erano contrari ed il destino oramai scritto non sono scappati verso la Svizzera, mascherandosi con divise altrui, ma hanno mantenuto la posizione, convinti che il loro sacrificio avrebbe salvato altri amici, altri commilitoni, altri disperati come loro. E ce ne furono molti, sebbene quasi tutti oggi anonimi e tristemente dimenticati.
Oggi è il 22 dicembre e quale simbolo di tutti quegli eroi anonimi e dimenticati, a cui nessuno dedicherà piazze e vie, vi racconto la storia e l’eroismo di uno di loro, di un ragazzo di soli 20 anni.
Era pescarese, nativo della contrada Pagliaroli a Farindola. Fino all’aprile ’41 viveva da contadino in una famiglia di contadini: pochi soldi e tanta fatica nel lavoro dei campi e nel pascolo delle pecore. Pochi soldi ma tanta dignità e rispetto degli altri.
Poi con la guerra, Alpino classe 1922 del Btg. L'Aquila - 9° Rgt. della "Julia", quel mitico corpo che il Duce non contento di averlo dissanguato nell’invasione nella Grecia dell’ottobre ’40, sacrificherà nella campagna di Russia. Di nome faceva Giuseppe Mazzocca.
Eravamo sulle rive del Don, nel dicembre 1942, quando dopo la controffensiva sovietica ‘Urano’ del 19 novembre, a metà mese partì l’operazione ‘Piccola Saturno’ che aveva come obiettivo di cacciare via quel che restava del nostro ’ARMIR e dei 229.005 uomini lì spediti da Mussolini per i suoi sogni di gloria e per non essere meno criminale del Fuhrer.
Il Battaglione 'L’Aquila' restava da mesi saldamente ancora attestato in prossimità del bosco di Witeliszki, dietro al “Vicenza” e al “Val Cismon”, a sinistra del “Tolmezzo”. Ma lo sfondamento russo di metà dicembre dove erano prima impegnate le tre principali nostre divisioni (la Sforzesca, la Cosseria e la Ravenna), oltre ad una tedesca, scompigliò totalmente le carte in tavola. Il nostro comando necessitava che fosse subito ‘tamponata’ la falla creatasi da quell’azione nemica e ordinò che a quel compito – così difficile se non impossibile, data le carenze di mezzi, armamenti e di viveri – fosse destinato proprio ‘L’Aquila’.
Il messaggio era chiaro: se i sovietici avessero attaccato ancora e fossero giunti a Rossosch le nostre truppe in ritirata sarebbero state accerchiate da tutte le parti. Senza vie di uscita, come topi presi in trappola. C’era un punto strategico di importanza vitale: bisognava difendere e presidiare senza ‘se’ e senza ‘ma’ il quadrivio di SelenyjJar. Un qualcosa tra il niente ed il nulla, composto da uno stupido incrocio di piste nella steppa, che d’inverno diventava solo ghiaccio e gelo, identificato da un palo con quattro tabelle, che indicavano le direzioni di Komaroff, Krinintschnaja, Deserowatka e Ivanowka.
Se l’Armata Rossa avesse superato quel “quadrivio di sangue”, in un baleno sarebbe stato a Rossosch. Lo sapevano meglio di noi anche i padroni di casa, i russi, e dal 20 dicembre arrivarono in massa verso quel punto.
La battaglia fu feroce fino al 30 dicembre, con la massima violenza, senza pause né esclusione di colpi. Passerà alla storia come la ‘battaglia di Natale’, ma per i nostri reduci, quei pochi che sopravvissero avrà un nome meno poetico e più veritiero: la “battaglia del quadrivio maledetto”.
La battaglia fu feroce e di fatto senza speranza, sebbene agli uomini dell’Aquila in quei giorni fossero arrivati in soccorso piccoli gruppi – di più non poterono - dal battaglione Monte Cervino e poi i resti del Vicenza e del Val Cismon. Senza speranza, perché altri soccorsi in uomini e munizioni non sarebbero più potuti arrivare, essendo diventato quello l’ultimo baluardo, l’ultima protezione per chi nella ritirata era già avanti, l’ultima copertura per fermare l’inferno.
Bisognava tener duro e frenare i russi: più si resisteva in quel quadrivio maledetto più italiani sarebbero usciti dalla sacca del Don e più se ne sarebbero salvati. Sarà un macello e coloro che erano lì, come gli uomini dell’Aquila, lo sapevano: il loro sacrifico salvava gli altri.
Tra questi anche Giuseppe Mazzocca.
Era nato tre settimane prima della marcia su Roma e di fatto coetaneo col regime del Duce. Il suo incarico nel battaglione ‘L’Aquila’ era semplice ed elementare: portare le munizioni alla prima linea e in quei giorni, pertanto, si trovò a farlo anche nella tenuta del quadrivio maledetto. Diranno nelle sue note (onorificenza della Presidenza della Repubblica del 13 aprile 1949) che nel periodo in cui la sua “compagnia alpina da più giorni duramente impegnata in aspri combattimenti difensivi contro un nemico numericamente superiore, dava ripetute prove di ardore combattivo, percorrendo con calma e sereno sprezzo del pericolo tratti di terreno scoperto pur di fare affluire regolarmente le munizioni necessarie alla propria arma”.
Il 22 dicembre, il terzo giorno di ‘tenuta’ del quadrivio maledetto di SelenyjJar e precisamente a quota 204 a Ivanowka, arrivato nelle nostre postazioni col suo ‘carico’ si accorse che il suo compagno ‘portamunizioni’ era stato ferito e procedeva lentamente. Scaricate le sue munizioni, ritornò quindi indietro, lo sostenne e insieme tentarono di rientrare nelle nostre linee al coperto. Ma furono entrambi individuati dai russi e una raffica di mitragliatrice colpì Giuseppe e gli tranciò via secco un braccio. Ma non volle cedere e tanto meno lasciare il compagno e le munizioni così importanti e vitali. Col braccio rimasto sorresse l’uomo e con i denti trascinò la cassetta di munizioni. Coi denti: altro non poteva usare. Coi denti: altro non aveva.
La scena fu osservata dai compagni in prima linea, increduli nel vedere quella reazione. Ma durò un attimo, forse anche meno, perché arrivò una granata anticarro che colpì in pieno i due soldati, uccidendoli e frantumandoli in mille pezzi, come un bicchiere di vetro caduto a terra.
L’eroismo di Giuseppe e la sua disperata fine non passò inerme nello spirito degli altri soldati. Fu uno sprone in più, uno stimolo ulteriore. Quelle munizioni per cui anche Giuseppe si era sacrificato potevano salvare altri italiani. E non si fermarono.
Non si fermarono e tennero duro fino al 30 dicembre e poi, con meno perdite fino al 16 gennaio, perchè anche i russi dovettero rallentare nell’offensiva, visto il costo in vite che anche loro stavano subendo. Poi da metà gennaio la situazione precipitò ancora di più per tutti gli italiani e anche ai pochi sopravvissuti del quadrivio maledetto – non vi saranno mai numeri in merito – verrà dato l’ordine di ritirarsi. E lo faranno prima che i sovietici lo avessero conquistato. Vittoria morale, possiamo dire.
Solo una parte degli italiani in ritirata (a 30 o 40 gradi sottozero) riuscirà a salvarsi dopo la battaglia di Nikolaevka del 26 gennaio ’43, dove si riuscì a rompere l'accerchiamento e a guadagnare la via verso Šebekino e la salvezza verso casa. Gli altri, quelli ancora in vita, saranno costretti alla resa il 28 gennaio a Valujki e presi prigionieri.
Se all’andata per portare i nostri soldati in Russia furono necessarie 200 tradotte, ora per il viaggio di ritorno ne bastarono 17.
E se non furono ancora di meno lo si deve a chi si sacrificò, per permettere agli altri quel viaggio. Come avvenne per gli uomini dell’Aquila, sacrificatisi nel quadrivio maledetto. Come fece Giuseppe Mazzocca, contadino del Regno – direbbe Fabrizio De André - chiamato alla guerra a combattere a 4.000 chilometri da casa per una terra già di proprietà di altri contadini.
In quel 22 dicembre 1942 Giuseppe aveva vent’anni e sebbene poco più che ragazzo si comportò da ‘uomo’. Molto meglio di altri più anziani ma meno uomini, ivi compreso quello che lo mandò in guerra per i suoi sogni di gloria e per non essere meno criminale del Fuhrer. In quel momento al calduccio, davanti al camino acceso di Piazzale Venezia.
22 dicembre 2025 – 83 anni dopo - Liberamente tratto dal mio ‘Il tempo che torna indietro – Terza Parte” - Amazon – 2025
* Coordinatore Commissione Storia e Memoria dell'Osservatorio
 
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