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14 dicembre 2025
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Atreju tradito
di Alessandro Negrini *

Ci siamo già normalizzati. Questo è il punto che fa più paura, perché è il punto in cui smettiamo di accorgerci dello strappo.

È normale, oggi, dover ascoltare Italo Bocchino come presenza fissa in qualunque trasmissione televisiva, come se rappresentasse una competenza e non una militanza, come se fosse un analista e non un megafono. È normale che l’opinione venga scambiata per equilibrio, la propaganda per pluralismo.

Ed è normale - questo forse è il segnale più rivelatore - vedere tutti, da Elly Schlein a Giuseppe Conte, da Carlo Conti a Mara Venier, bramare per essere sul palco di Atreju, la festa del partito post fascista "Fratelli d'Italia".

Cominciamo dal nome. Atreju. Già qui c’è qualcosa di rivelatore, e di imbarazzante. Atreju è un personaggio della letteratura fantastica, un ragazzo che combatte il Nulla, che difende un mondo minacciato dall’annientamento, che incarna il coraggio, la cura, la responsabilità verso ciò che è fragile.

Prendere quel nome e appiccicarlo a una festa della destra post-fascista non è una trovata innocente: è una sequestrazione simbolica, un’operazione di marketing culturale che saccheggia l’immaginario per ripulire una storia politica che con Atreju non ha nulla a che vedere. È l’ennesima prova di come quella destra viva di appropriazioni indebite: parole, simboli, miti strappati al loro senso originario e riutilizzati come involucri vuoti.

Atreju diventa così una meta ambita anche per chi dovrebbe contrastarne l’impianto politico e culturale. Come se la legittimazione fosse ormai una moneta necessaria, come se il problema non fosse più dove si parla, ma solo quanto si parla.

È il trionfo dell’idea che l’esposizione equivalga al consenso, che l’assenza sia irrilevanza, che dire “no” a certi luoghi significhi autoescludersi dalla storia. Ed è esattamente così che si perde la capacità di tracciare confini.

È normale avere come seconda carica dello Stato un uomo che rivendica come titolo d’onore l’essere definito fascista. Non che venga accusato: che lo rivendichi. Eppure questa anomalia non produce scandalo, non apre una crisi istituzionale, non provoca nemmeno più un sopracciglio alzato. Scivola via, come tutto ciò che viene ripetuto abbastanza a lungo da diventare rumore di fondo.

È straordinario, ci dicono, avere finalmente una Presidente del Consiglio donna - e già qui bisognerebbe fermarsi, perché l’uso strumentale del genere come scudo politico è una delle più grandi mistificazioni del nostro tempo.

Non governa “una donna”: governa una genealogia politica, governa una storia nera che ha sempre guardato alla Costituzione come a un ostacolo, non come a una casa comune. Che discende da quel buio pesto della Storia chiamato fascismo e neo fascismo. Governa una tribù ideologica che non ha mai nascosto il proprio fastidio per l’equilibrio dei poteri, per il parlamentarismo, per i corpi intermedi, per l’idea stessa di limite.

Ed è normale, oggi, vedere quel fastidio tradursi in riforme. Riforme che non sono casuali, non sono improvvisate, non sono neppure incoerenti. Al contrario: sono straordinariamente coerenti. Talmente coerenti da sembrare la fotocopia di un progetto già visto.

Il piano della Loggia P2 di Licio Gelli non è un fantasma evocato per eccesso retorico: è un documento storico, scritto, dettagliato. E quando si leggono certe proposte di concentrazione del potere esecutivo, di svuotamento del Parlamento, di marginalizzazione della magistratura, di disciplinamento dell’informazione, la sensazione non è quella del déjà-vu: è quella della continuità.

Ma anche questo è diventato normale. Normale avere un governo che lavora, pezzo dopo pezzo, contro lo spirito della Costituzione, pur senza mai dirlo apertamente. Normale assistere a una torsione autoritaria mascherata da efficienza. Normale chiamare “governabilità” ciò che è in realtà riduzione degli spazi democratici.

Normale sostituire la parola Repubblica con la parola Nazione. Normale accettare che il conflitto venga trattato come un problema di ordine pubblico, e non come il sale della democrazia.

La parola che non si vuole pronunciare è “eversivo”. Perché fa paura, perché sembra eccessiva, perché disturba. E invece è la parola precisa da usare. Eversivo non è solo chi usa la violenza: è anche chi svuota dall’interno le regole del gioco, chi resta formalmente dentro le istituzioni mentre ne altera la sostanza, chi utilizza il consenso per ridurre i diritti.

La storia ci ha insegnato che è così che finiscono le democrazie: non con un colpo di Stato, ma con una serie di piccoli e persistenti aggiustamenti “ragionevoli”.

La normalizzazione è la vera vittoria della destra estrema. Non l’aver vinto le elezioni - con percentuali di astensione altissime e quindi rappresentando una minoranza del paese - ma l’aver reso impensabile lo scandalo. L’aver trasformato l’eccezione in consuetudine, l’inaccettabile in opinabile, l’anticostituzionale in discutibile.

È così che si è arrivati fin qui: concedendo spazio, concedendo tempo, concedendo legittimità. Dicendo: ascoltiamoli. Invitiamoli. Confrontiamoci.

Ora siamo al punto in cui non c’è più nemmeno bisogno di invitarli: sono già ovunque. E il problema non è che parlino. Il problema è che, mentre parlano, governano. E mentre governano, riscrivono il Paese secondo un’idea che con la Repubblica nata dalla Resistenza ha sempre avuto un rapporto di ostilità.

Un giorno ci sveglieremo e ci chiederemo quando tutto questo è successo. La risposta sarà semplice e terribile: è successo mentre sembrava normale.

* Componente del Comitato Scientifico dell'Osservatorio


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