Osservatorio sulla legalita' e sui diritti
Osservatorio sulla legalita' onlusscopi, attivita', referenti, i comitati, il presidenteinvia domande, interventi, suggerimentihome osservatorio onlusnews settimanale gratuitaprima pagina
27 novembre 2025
tutti gli speciali

L'amore oltre la guerra
di Rinaldo Battaglia *

Ci sono due parole nel vocabolario umano dalla notte dei tempi che si oppongono, che vivono agli estremi e di solito lottano tra di loro. E la parola ‘guerra’ e quella di ‘amore’. Ed è facile capirne il motivo. Solitamente la guerra cambia l’uomo, verso il male ovviamente. Qualsiasi uomo. Facendogli emergere il peggio di sé e per contrasto l’amore lo esalta e lo avvicina a Dio. Sempre indiscutibilmente la guerra peggiora l’uomo, ma talvolta è l’amore a migliorarlo, anche se in guerra e in tempo di guerra. Perché l'amore va oltre. Anche oltre la guerra.

In questi giorni di fine anno, nel 2016, usciva in Italia un film che si basava su questi canoni. Si chiamava ‘L'amore oltre la guerra’. Ma il titolo originale (L’eccezione - The Exception) rendeva ancora meglio l’idea di come quell’amore fosse così raro se non unico. Fu diretto da David Leveaux, un regista molto sensibile ai temi sentimentali. Aveva già portato nei teatri di Londra e a Broadway, ad esempio, opere come "Romeo e Giulietta" (per la Royal Shakespeare Company).

Il nuovo suo film si basava ora su un romanzo del 2003 'The Kaiser's Last Kiss' scritto da Alan Judd (pseudonimo usato da Alan Edwin Petty) che nel dopoguerra aveva lavorato nell’esercito inglese ma che fu anche un fine diplomatico, arrivando così a conoscere bene i lati oscuri ed inconfessabili delle guerre vere e proprie. Si basava quindi su fatti storici che più o meno erano veritieri, anche se poi saranno la penna di Alan Judd e la maestria di David Leveaux a renderli piacevoli ed interessanti.

“L'amore oltre la guerra” parlava di un Capitano della Wehrmacht, Stefan Brandt, non più in linea con le ideologie naziste dopo aver partecipato a massacri in Polonia, tanto da esser rispedito a ruoli militarmente minori e in zone allora meno calde e più secondarie (venne assegnato quasi per punizione a fare la guardia del corpo, per così dire, dell’ex Kaiser Gugliemo II, ora molto vecchio ed in esilio nel castello Huis Doorn, vicino a Utrecht, in terra d’Olanda appena invasa ed occupata).

Sarà qui che conoscerà una bella ragazza, la domestica olandese Mieke de Jong, che piano piano amerà e di cui solo in seguito verrà a sapere chi veramente lei fosse: una ebrea. Ma non solo: i nazisti le avevano ucciso sia il marito che il padre ed era diventata, da allora, una spia per la resistenza olandese e un’agente per gli inglesi. Anche per la ragazza l’amore, quindi, dovrà fare a botte con l’odio che le terribili vicende della guerra avevano in lei generato. Ma l’amore supererà tutto e tutti: le divise, i ruoli, i pregiudizi, le ideologie.

Esiste una scena determinante in questo, quando Stefan Brandt chiedendo al suo superiore Sigurd con Ilsemann, di cui si fidava e che stimava, se un ufficiale nazista può servire qualcosa di diverso dalla sua patria, si sentì rispondere semplicemente: "Prima devi decidere qual è la tua patria e se esiste ancora". In altre parole, senti prima la tua coscienza, il tuo cuore. Il resto verrà da sé.

Stefan Brandt decise così di aiutare la fuga della sua Mieke de Jong, rischiando tutto e alla fine riuscirà a farla arrivare a Londra, mentre lui in Germania, ancora in ruoli più marginali e lontani dal fronte e dai suoi massacri (era ora relegato negli uffici della Wehrmacht), aspetterà la fine della guerra e la resa nazista per raggiungere il suo amore.

Non è dato a sapersi quanto di veritiero vi fosse nella vicenda, a lieto fine, del nazista Stefan Brandt e dell’ebrea Mieke de Jong. Si può invece con certezza raccontare un’altra particolare storia d’amore vissuta ai tempi della Shoah. Qui ci sono date precise, testimonianze certe, documenti sicuri, ma purtroppo non la medesima fine. Ma anche qui e forse più del caso precedente, si può affermare che l’amore cambiò un ‘lagerkommandant’ delle S.S. che solo per il ruolo raggiunto – nell’universo nazista - non poteva che essere un sadico criminale.

L’uomo che un po’ come un piccolo Sauro di Tarso sulla strada di Damasco incontrerà l’amore cambiando totalmente (spero di non avere esagerato e di non esser caduto in blasfemia, ma credo renda bene l’idea) si chiamava Heinz Drosihn. Era un ufficiale delle S.S. (SS-Unterscharführer) dal 1942 al comando del lager di Ereda, un sottocampo di Vaivara nei pressi della città della contea di Ida-Virumaa, nell'Estonia occupata, controllato dal Reichskommissariat Ostland e comandato da Hans Aumeier.

Tanto per capirci la SS-Sturmbannführer Hans Aumeier, dal febbraio 1942 all’agosto 1943 opererà ad Auschwitz ma anche, prima e dopo, a Dachau, Flossenbürg e infine a Buchenwald. Catturato a fine guerra, sarà giustiziato per impiccagione. E l’ufficiale S.S. Heinz Drosihn era il suo pupillo, il suo baccio destro, il suo uomo di fiducia.

Si deve sapere che, per quanto piccola fosse l’Estonia, già dall’invasione dell’estate del ’41 nell’operazione Barbarossa, i nazisti, lì nel Baltico, crearono una rete di ben 22 lager tutti alle dipendenze di Hans Aumeier e con i lager di Vaivara ed Ereda, quali riferimenti principali. La loro importanza era strategica ed economica: il Terzo Reich necessitava di scisto bituminoso (indispensabile per far fronte alla carenza di petrolio), di cui le miniere estoni erano ricche.

Servivano schiavi per quell’infame lavoro e i 12.500 ebrei estoni vennero usati e sfruttati immediatamente. Due piccioni con una fava: si rendeva l’Estonia ‘judenfrei’ e si trovava in casa ‘forza lavoro’ gratis. I numeri diranno che a guerra finita oltre la metà saranno morti e, prima dell’arrivo dell’Armata Rossa, almeno 4.600 ricollocati in altri lager.

Ma non vi erano solo gli ebrei locali da schiavizzare. Non bastavano per le esigenze naziste. E così si ricorse anche altrove, anche da Terezìn. Non ci sono numeri precisi su quanti deportati siano transitati ‘solo’ tra Ereda e Vaivara – senza contare gli altri lager minori - ma gli storici sostengono che non furono meno di ventimila, sebbene in gran parte provenienti dai ghetti di Vilnius e Kaunas. Ovviamente, anche qui, chi non era adatto al lavoro veniva eliminato subito.

Nella tarda primavera del ’44 con l’avanzata dell’Armata Rossa, quasi tutti i prigionieri vennero evacuati e trasferiti nel lager di Stutthof o ad Auschwitz. I pochi rimasti e sopravvissuti alle ultime settimane, tra le massime violenze e massime vendette dei nazisti, per come le cose per loro stessero andando, vennero liberati sempre dai sovietici il 28 giugno 1944.

Ma nel lager di Ereda, dove mediamente vi erano 3.000 deportati, le massime violenze furono sempre presenti, un inferno in terra giorno su giorno. Almeno durante il primo periodo del comando di Heinz Drosihn, fino a metà ottobre 1943. Poi qualcosa improvvisamente cambiò. E quell’improvviso cambiamento aveva un nome e le sembianze di una ragazza cecoslovacca di Brno: Inga Syltenová, o per dirla in tedesco come scritto nei documenti, Ingeborg Sylten. All’arrivo nel lager di Ereda aveva diciotto anni, una bellezza unica e delicati capelli castano-chiari.

Si racconta che, in quel giorno di metà ottobre ’43, quando un treno arrivò alla stazione di Raasiku col suo carico di disperate donne ebree da destinare ai lavori ora non più al campo di Jägala ma solo a quello di Ereda, non ci fosse Aleksander Laak, un estone SS-Sturmbannführer comandante del primo lager ma solo e soltanto quello del secondo lager, Heinz Drosihn. In quei giorni Jägala stava per chiudere. Himmler aveva altri progetti dopo la sconfitta di Stalingrado e il ridimensionamento della campagna contro l’URSS.

E forse per la giovane Inga Syltenová fu inizialmente una fortuna, perché di solito quel lavoro lo faceva Aleksander Laak, che amava anche scegliere tra le prigioniere le sue ‘schiave sessuali’ e quando non soddisfatto, poi, le uccideva personalmente. Come dissero e documentarono alcuni sopravvissuti, presenti nell’autunno 1943 quando il suo lager venne definitivamente smantellato. Quel giorno la maggior parte dei detenuti furono fucilati, soprattutto quelli più deboli o malati. Gli altri furono mandati nel lager di Kalevi-Liiva (e molti lì morirono) mentre Laak si divertiva ad uccidere con le sue mani tre donne, le sue ultime ‘prede’.

Appena la vide, così bella, così giovane e di portamento elegante, il comandante del campo la SS-Unterscharführer Heinz Drosihn ne fu colpito immediatamente. Si racconta che la invitò a salire sulla sua auto (anziché le consuete marce dalla stazione al lager), la accompagnò in infermeria del campo, visto che le sembrava molto provata da quel viaggio così disperato e massacrante. Non solo: in quel primo giorno le chiese personalmente se avesse freddo (l’autunno baltico non è certo tra i più caldi).

Inga subito rifiutò, rifiutò anche le coperte quando ugualmente le arrivarono e rifiutò anche una razione maggiore di cibo. Ma pochi giorni dopo si trasferì di sua spontanea volontà nella sua residenza personale, diventandone la sua cuoca, sebbene quella mansione fosse già coperta dalla detenuta Gisela Danzigerová, anche lei ebrea. E l’amore prese possesso dei due, così diversi e così nemici sulla carta e nella realtà. E la storia di Inga Syltenová non era molto diversa da quella raccontata da David Leveaux su Mieke de Jong.

Inga era stata arrestata dai nazisti, in quanto ebrea, a Brno e con la madre Melanie e i due fratelli, Ruth e Peer, deportata subito a Terezìn, lager aperto in pompa magna il 24 novembre 1941, proprio in quei giorni. Nessuno di loro si salverà. Il padre, invece, Robert Sylten era uno slovacco doc e appena finita la grande Guerra, smembrato l’Impero del Kaiser e dopo la nascita dell’indipendente Cecoslovacchia, per rafforzare il disprezzo verso i tedeschi sostituì il suo cognome originario di Silbersteinr in Sylten, molto meno teutonico e più slavo.

Durante la guerra e prima dell’invasione nazista lavorò per alcuni anni in URSS e fu lì che lo trovò l’operazione Barbarossa nel giugno 1941. Venne arrestato e – per non bene definiti motivi politici, colpevole forse di esser nato ai tempi del Kaiser e sotto la bandiera tedesca – deportato nei campi di lavoro sovietici. Riuscirà a fuggire in modo rocambolesco e arrivare in Palestina, dove si impegnerà per la crescita dello Stato di Israele. Morirà a Tel Aviv nel 1980, senza mai aver dimenticato la moglie e i suoi tre figli.

A Terezìn Inga Syltenová venne separata dalla madre e dai fratelli e spedita una prima volta a Raasiku, con il convoglio di 1.000 deportati ebrei, partito il 1° settembre 1942. Da lì fu mandata, assieme ad altre sue compagne di viaggio, a Tallinn, dove venne obbligata a lavori molto pesanti nei cantieri cittadini e al porto, lavori pesanti da uomo. Ma si era nell’autunno ’42, inizio ’43, e nella capitale estone la situazione risultava molto ambigua e non bene definita.

Alle donne deportate - per evitare malcontento tra la popolazione estone – veniva concesso di di indossare i propri abiti sul posto di lavoro senza mostrare la stella gialla e potevano anche esser avvicinate da civili o chiedere cibo agli abitanti del luogo. In quella fase, a Tallinn era prioritaria per i nazisti la produzione, il risultato economico e quindi la vita delle deportate ebree risultava ancora accettabile. Ovviamente esistevano ferrei controlli e nel caso di tentativi di fuga ci andavano di mezzo anche le altre.

Ma col passare dei mesi anche Tallinn divenne preda delle paure naziste, i sovietici avanzavano da ogni parte e a rimetterci per primi erano sempre i prigionieri ebrei. E le prigioniere ancora di più. Le violenze fisiche e morali aumentarono, l’alimentazione ridotta, i lavori ancora appesantiti e un po’ alla volta furono tutte smistate nei vari lager situati sempre in Estonia. A Inga Syltenová il destino volle che fosse se non più possibile Jägala del terribile Aleksander Laak, ma ora Ereda dell’altrettanto terribile Heinz Drosihn. E le notizie che giravano su quei lager non facevano che aumentare il terrore e la disperazione in quelle donne.

Anche per Inga Syltenová l’amore, quindi, avrà dovuto fare a botte – come per Mieke de Jong - con l’odio che le terribili vicende della guerra avevano anche in lei generato. Ma l’amore superò pure in questo caso tutto e tutti: le divise, i ruoli, i pregiudizi, le ideologie.

L’amore tra la prigioniera ebrea e il terribile comandante del lager, la SS-Unterscharführer Heinz Drosihn, si sviluppò di giorno in giorno. Malgrado le preoccupazioni e i consigli che le altre deportate ebree amichevolmente davano a Inga. Come la cuoca e poi amica Gisela Danzigerová, che così racconterà nelle sue memorie. «Secondo me – le dicevo – non è una buona idea andare a vivere da lui… Ma lei canticchiava, era molto giovane».

Altre donne della sua terra ceca più volte l'avevano scoraggiata dall'avere una relazione col comandante nazista, ma lei ne era veramente innamorata. "Era come se si fossero completamente dimenticati dove si trovavano”, ricorderà anni dopo un altro sopravvissuto. E l’amore si sviluppò e si ingigantì di giorno in giorno, con benefici immediati ed evidenti per tutti. Strano a dirsi ma fu così. Fino a metà ottobre 1943 Heinz Drosihn era stato un terribile e sanguinario lagerkommandant, seguace preferito del criminale SS-Sturmbannführer Hans Aumeier. Testimonianze provarono che nel lager tutti i prigionieri tremavano a solo vederlo. Era il terrore in persona, uccidere o far uccidere era un suo capriccio, quasi un gioco. Soprattutto se producevi poco, indipendentemente dai motivi, che erano solitamente la fame e la scarsa salute. Uomini o donne poco cambiava, erano tutti ‘stuken’, solo pezzi di ingranaggio, solo razze inferiori destinate alla morte per la gloria del Terzo Reich.

Poi il miracolo chiamato Inga. I turni dei deportati diventarono meno massacranti, le guardie meno feroci, il cibo meno liquido e più sostanzioso. Ma non solo. Testimoni racconteranno che un giorno nella conta mattutina mentre Heinz Drosihn, come era solito fare prima, stava punendo un’ebrea per chissà quale banale motivo col suo personale frustino di pelle, arrivò all’improvviso Inga e senza alcuna minima reazione, davanti a tutti in piedi, se lo lasciò da lei prendere. Inizialmente Drosihn si era rifiutato ma poi le consegnò la frusta e non la usò mai più contro nessuno. Sembrava che tutto quello che ora facesse il comandante del lager fosse nell’ottica di non contrariare o deludere la sua amata Inga. Ed eravamo in guerra, in un lager nazista, ai tempi della Shoah.

Altre donne sopravvissute racconteranno come tra novembre e dicembre, in una giornata di freddo polare, alcune deportate mentre stavano tornando - a piedi come al solito - da un cantiere lontano vennero colpite da una forte tempesta di neve. Alcune non riuscirono più a camminare, col rischio di restare congelate. Caddero a terra sfinite. Quando Inga venne informata al campo, chiese ed ottenne che il comandante Heinz Drosihn dasse l’ordine di inviare una squadra di soccorso, con slitte trainate da cavalli. E così avvenne.

“Ormai è come se il campo, la guerra, per loro non esistessero più: Heinz si strappa persino i gradi, gira per il campo senza l’uniforme delle SS benché svolga ancora le solite mansioni.” Così scriverà lo storico Lukáš Pribyl, grande studioso in materia, e lo scriverà molto bene e con dovizia di particolari nel suo “Trasporti dimenticati in Estonia”. Lo stesso farà più di recente (2 febbraio 2017) il nostro Angelo Bonaguro nel suo blog e in un suo articolo ( “Storia di Heinz, nazista, e Inge, ebrea”) li paragonerà a Romeo e Giulietta.

Ma la storia d’amore in un lager nazista nella fredda Estonia con l’Armata Rossa all’orizzonte poteva durare? Dopo 4/5 mesi il Comando decise di intervenire. Forse più da Berlino che da Vaivara (la SS-Sturmbannführer Hans Aumeier non avrebbe mai creduto alla metamorfosi del suo pupillo criminale, ma ora era impegnato altrove ad uccidere tra Dachau, Flossenbürg e Buchenwald).

Così mandarono a fine febbraio 1944 un’ispezione della Gestapo. Era pur sempre un lager nazista, non erano previste devianze o scontistiche. Nulla sembrò casuale: il lagerkommandant impegnato fuori in una missione e la dolce sua ebrea innamorata, in buona salute, che risiedeva nella sua abitazione personale. Venne picchiata, bastonata a sangue, interrogata con le maniere che è facile intuire.

Appena saputo Heinz Drosihn rientrò di nascosto nel lager, probabilmente aiutato da qualcuno del campo e liberata in qualche modo Inga – anche qui non è da escludere il contributo di altri deportati o delle sue guardie rimastegli fedeli – entrambi scapparono da una via segreta, forse da tempo preparata dallo stesso comandante. Se ne andarono, seguiti da alcuni altri prigionieri e guardie.

Ma il lieto fine non arrivò. La fuga per Heinz Drosihn e Inga Syltenová non fu facile. L’unica strada da battere, nel gelo del febbraio baltico, era verso la Finlandia in direzione della neutrale Svezia. Si raccontò che vennero presi dai nazisti al loro inseguimento dopo alcuni giorni. Catturati e subito fucilati assieme e assieme sepolti in un luogo a noi oggi sconosciuto.

L’amore tra Heinz Drosihn e Inga Syltenová in un lager nazista, al tempo della Shoah, resta l’ennesima conferma che indiscutibilmente la guerra peggiora l’uomo, ma talvolta, talvolta è l’amore a migliorarlo, anche se in guerra e in tempo di guerra. Perché l’amore conta e conta più di qualsiasi guerra.

La Storia insegna che la guerra passa ma l’amore può andare oltre, oltre i lager, le divise, i ruoli, i pregiudizi, le ideologie. Altrimenti l’uomo non sarebbe ancora qui presente su questo palmo di terra. L’amore va oltre. Oltre anche la guerra. Oltre.

28 novembre 2025 – 9 anni dopo – liberamente tratto dal mio ‘Il tempo che torna indietro – Terza Parte” - Amazon – 2025

* Coordinatore Commissione Storia e Memoria dell'Osservatorio


per approfondire...

Dossier diritti

_____
NB: I CONTENUTI DEL SITO POSSONO ESSERE PRELEVATI
CITANDO L'AUTORE E LINKANDO
www.osservatoriosullalegalita.org

°
avviso legale