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La censura è un boomerang
di Andrea Battantier *
Noi qui, in questa società occidentale, democratica, coi principi belli scritti sulla carta, parliamo sempre di libertà.
È come se avessimo paura di ammettere che la censura, quella vecchia, quella che dice “questo no, non si può dire”, qui da noi non funziona più. Anzi, fa il contrario di quello che vuole.
Se tu metti un paletto, un divieto, un “questo è vietato”, la gente, che è fatta così, curiosa, che ci vuoi fare, quella gente lì non pensa “ah, allora è giusto che non lo sappia”. No. Pensa “e adesso cosa c’è? Perché non posso saperlo?”.
E allora moltiplichi l’uditorio. È come se da una conversazione in un vicolo, tu la spostassi in piazza. E fai un dibattito, un casino… che alla fine tutti ne parlano.
E quello che volevi nascondere lo sanno pure i sassi.
E allora, a che serve? Non serve a niente. Anzi, è dannosa (per il potere censorio). Perché non è coerente con quei principi lì, con la Costituzione, con l’idea che siamo adulti e possiamo pensare con la nostra testa.
Il potere censorio ha paura del dibattito. Del conflitto delle idee. Crediamo che la società stia insieme solo se tutti pensano le stesse cose, se non ci si grida troppo forte. Ma non è così.
La società è una cosa viva. È come un organismo. E come fa a crescere, a evolversi, se non si confronta? Se non parla?
Se uno ha un’idea, l’altro ne ha un’altra, e tu li metti in una stanza e fai uscire, non so, magari una terza idea, che è più buona di tutte e due, o meno buona, ma verifichiamolo sul campo. È il dialogo, questo. Il dialogo fra diversi.
E la censura è come mettere un tappo. Tu metti un tappo sulla pentola, ma la pentola bolle lo stesso, e prima o poi il tappo vola. E si fa più casino di prima.
Dovremmo avere più fiducia nelle persone, nelle idee, anche in quelle scomode. Perché è lì che si misura la salute di una società. Se ha paura di una parola, di un'idea, allora allora è malata.
Se invece affronta la parola, la discute, la smonta, ci ride sopra, allora è una società che respira. Che cammina.
Alla fine, il quadro di fondo comune, questa cosa che chiamiamo società, non è un quadro appeso al muro, immobile. È un mosaico che si fa e si disfa ogni giorno.
E il cemento che tiene insieme i pezzi non è il silenzio, non è l’omologazione. È proprio quella fatica, quel parlarsi, quel litigare pure, ma sapendo che dall’altra parte c’è un essere umano. E che domani, forse, potresti pure dargli ragione.
Sembra facile, ma è difficile. Perché parlare è difficile. Ascoltare pure. Ma è l’unico modo. L’unico.
* Psicologo, componente del Comitato tecnico-giuridico dell'Osservatorio
 
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