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Pace sì ma senza neutralità
di Giuseppe Franco Arguto
In una immagine riferita a Papa Leone si dice una verità semplice: la pace si costruisce con gesti quotidiani, umiltà, pazienza, ascolto, e azione.
È un lessico civile che riconosco.
Ma proprio la parola “coraggio” impone una questione assai critica: dov’era questo coraggio quando, per mesi, la curia ha parlato della guerra in termini generici, evitando di nominare il genocidio palestinese, gli assedi, le punizioni collettive?
Il coraggio, se è tale, non è equidistanza: è prendere parte per le vittime quando farlo costa prestigio, relazioni diplomatiche, vantaggi. Altrimenti i richiami alla pace diventano fiato che non muove la storia.
C’è un secondo nodo: la Chiesa continua a benedire sovrani e poteri che affondano in secoli di violenze coloniali — compresi i regnanti inglesi, da pochi giorni rientrati dalla loro visita in San Pietro — regnanti emblema di un impero che ha lasciato dietro di sé occupazioni, repressioni e tragedie documentate.
Quale credibilità può avere un’istituzione che predica pace mentre offre la propria liturgia a chi incarna quell’ordine?
La pace non è un mazzo di fiori sulle rovine: è giustizia che chiama per nome gli oppressori.
Per questo, oggi, parlare di pace significa: esigere lo stop al massacro, la fine degli assedi, la protezione dei civili, il ricorso a tribunali indipendenti, la riparazione dovuta. E soprattutto rompere il rito della neutralità. Perché tra l’oppresso e l’oppressore, il silenzio non è mediazione: è complicità.
Se non costa nulla, non è pace: è pubblica relazione.
 
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