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Per la propria dignità
di
Rinaldo Battaglia *
Che la guerra sia sempre stata un crimine è cosa nota e tutti lo sanno tranne coloro che, sopra, ci campano. Da sempre. Ma talvolta durante la guerra, chi combatte capisce il valore degli altri e soprattutto di sé stesso. Alcuni diventano eroi, altri spietati assassini, alcuni restano solo ‘uomini’.
Lo diceva bene Lev Tolstoj col suo "Se senti dolore sei vivo, se senti il dolore degli altri sei un essere umano."
Ma talvolta non è solo questione di dolore, ma di responsabilità verso gli altri e quindi verso sé stessi. Lo diceva altrettanto bene anche Oriana Fallaci, quando scrisse che per essere uomini - e considerati tali - bisogna rispettare una regola: “Non si fa il proprio dovere perché qualcuno ci dica grazie... lo si fa per principio, per sè stessi, per la propria dignità.”
Per principio, per sè stessi, per la propria dignità. Anche in guerra, soprattutto in guerra.
In questi giorni in cui celebriamo la fine della Grande Guerra, dove vennero bruciati secoli di regole e di rispetto verso il nemico, amo ricordare un caso controcorrente, dove un ufficiale si comportò da uomo d’onore, in contrasto che le regole da far-west di quella guerra.
Pochi lo conoscono e di certo meriterebbe molto di più, perché quella sua azione fu una breccia di luce nel fango morale di quella guerra, dove gli uomini sui confondevano coi topi e le trincee coi cimiteri.
Quell’ufficiale era inglese, era il capitano del 1° Battaglione del Reggimento East Surrey che già dall'agosto 1914 – pochi giorni dopo l’inizio della guerra - venne impiegato dal British Expeditionary Force (BEF) contro l'esercito del Kaiser. Dapprima spedito coi suoi soldati sul canale di Mons-Condé, nel nord-ovest della Francia, poi nella disperata lotta contro il nemico, in territorio belga.
Qui terribile fu la battaglia di Mons, quando dal 23 agosto 1914 i tedeschi - secondo il loro piano Schlieffen - si scontrarono uomo contro uomo con gli inglesi. Un massacro.
Durante quella battaglia oltre 14.000 soldati britannici furono uccisi, feriti o dispersi. Solo i morti vennero, poi, precisamente quantificati in 1.638. Ancora maggiori le perdite tedesche (qualcuno dice almeno 2.000, chi anche 5.000). Un massacro in soli due giorni e una notte.
A salvarsi ma preso prigioniero, perché gravemente ferito, fu quel capitano e molti suoi uomini: si chiamava Robert C. Campbell.
Già il 24 agosto, dopo tre settimane di guerra si dovette arrendere alla forza maggiore degli uomini del Kaiser. Aveva allora 29 anni.
Venne portato in un ospedale militare a Colonia e curato prima di arrivare in un campo tedesco per prigionieri di guerra a Magdeburgo, nel nord-est della Germania, uno dei tanti, assieme ad altre migliaia di soldati ed ufficiali inglesi. E per due anni il suo nome scomparve del tutto, risparmiandosi le sofferenze di trincea ma non di certo la fame, che era analoga dappertutto.
Il suo nome ritornò alla luce due anni dopo, nel novembre del 1916 – 109 anni in questi giorni - quando i francesi e gli inglesi, da una parte, e i tedeschi, dall’altra, si scannavano senza pause nelle colline di Verdun o sulla riva della Somme. E il suo fu un caso unico, degno di menzione, tra la disperazione della guerra e la dignità umana.
Un giorno al capitano Robert Campbell arrivò una lettera della sorella (l'unica che aveva) che lo informava che la loro madre, Louisa, stava morendo causa un cancro. Di fatto aveva i giorni contati. E lui era prigioniero, lontano chilometri. Maledì subito la guerra, chi l’aveva voluta e chi la combatteva. Eppure, eppure aveva scelto lui la carriera militare sin dal 1903 quando, a 18 anni, si arruolò volontario nel British Army.
Maledì anche sé stesso ma poi scelse un’altra strada.
Prese carta e penna e dal campo di prigionia, da soldato, scrisse al numero uno dei nemici, direttamente al Kaiser Wilhelm II, chiedendo di essere rilasciato per poter tornare a casa per visitare sua madre un’ultima volta, prima che morisse.
Più che da militare a militare era una richiesta da uomo ad un altro uomo. Che poi fossero nemici cosa voleva dire?
"Se senti dolore sei vivo, se senti il dolore degli altri sei un essere umano."
E malgrado la guerra, malgrado fosse il kaiser, quella lettera giunse sorprendentemente a Berlino. Sarà passata tra mille mani, mille occhi la lessero ma nessuno la bloccò. Era la lettera di un uomo che voleva vedere la madre prima che morisse. Era la richiesta di un soldato disperato dal dolore, come tanti altri soldati in quel momento, anche loro disperati nel loro dolore e nella lontananza dei propri cari.
Il Kaiser la ricevette, la lesse ed autorizzò il viaggio verso casa, concedendogli due mesi di "permesso". A una condizione però: iI capitano Campbell gli desse la sua parola, come ufficiale dell'esercito inglese, che sarebbe tornato.
È il capitano accettò.
Tutti intervennero per il buon fine dell’operazione, coinvolgendo persino l'ambasciata degli Stati Uniti d'America (allora ancora neutrale e fuori dal conflitto).
Il capitano accettò e giurò di tornare al campo di prigionia dopo aver visto la madre. Partì il 7 dicembre 1916, attraversò la neutrale Olanda dalla Germania e prese un traghetto per il Regno Unito e poi un treno per Kent.
Come racconta lo storico Richard van Emden (nel suo libro del 2013 'Meeting the Enemy'), Robert Campbell mantenne la promessa fatta al Kaiser e tornò in Germania. Secondo lo storico, Campbell sentì che aveva il dovere di mantenere la parola: "Se non torno, nessun altro ufficiale sarà, a causa mia, di nuovo rilasciato in questi termini".
E dopo la morte della madre e il suo funerale (inizio febbraio 1917), il capitano inglese prese la strada del ritorno, verso il campo di prigionia, in senso inverso di quanto fatto due mesi prima.
Aveva promesso, aveva giurato, doveva farlo.
“Non si fa il proprio dovere perché qualcuno ci dica grazie... lo si fa per principio, per sè stessi, per la propria dignità.”
Se non lo avesse fatto, mai più nessun prigioniero di guerra avrebbe ottenuto nulla. Non ci sarebbero stati casi analoghi. Né lì né altrove. Doveva tornare e tornò tra la sorpresa dei suoi commilitoni prigionieri. Ma fino ad un certo punto. Quando arrivò al comandante del campo di Magdeburgo, che per primo aveva cercato di esaudire la richiesta del prigioniero inglese e favorire l’invio della lettera al Kaiser, il capitano Cambell gli disse solo ‘Sono tornato’. E altrettanta semplice, ma sincera, la risposta che ottenne: “Lo sapevo che lo avrebbe fatto’.
Più che da militare a militare era un dialogo da uomo ad un altro uomo. Che poi fossero nemici cosa voleva dire?
Gli storici, peraltro, concordano sul fatto che i prigionieri di guerra di Magdeburgo non avrebbero subito alcuna punizione se Campbell non fosse tornato, non sarebbero stati puniti se non avesse rispettato i suoi patti. Il che rende il suo ritorno volontario ancora più straordinario. A quel tempo si faceva così. Anche in Germania.
Un altro punto da sottolineare fu il fatto che l'esercito britannico, o qualche alto suo ufficiale inglese, avesse potuto bloccare il rientro del prigioniero a Magdeburgo. Si era in guerra, nel febbraio 1917 si era nel cuore della Grande Guerra. Con gli esiti finali non ancora scritti. Avrebbero potuto bloccarlo ma nessuno si oppose e tutti acconsentirono al suo ritorno.
“Non si fa il proprio dovere perché qualcuno ci dica grazie... lo si fa per principio, per sé stessi, per la propria dignità.”
Col rientro in prigionia, il capitano Robert Campbell, aveva mantenuto la sua parola ma ciò non voleva dire che non fosse un soldato inglese e compito di ogni prigioniero di guerra resta quello di tentare sempre la fuga. E lo fece. Assieme ad altri prigionieri passò ben nove mesi a scavare dal campo una via d’uscita e prima di fine anno 1917 scapparono verso la neutrale Olanda, forse seguendo la strada che il capitano aveva percorso nel dicembre dell’anno precedente. Ma prima di oltrepassare il confine olandese, vennero catturati e rispediti a Magdeburgo.
La guerra proseguì fino all’11 novembre 1918, quando anche il Kaiser si arrese ai vincitori alleati. Il capitano Robert Campbell ritornò finalmente a casa e restò nell’esercito fino al 1925, quando si ritirò dalla vita militare a 54 anni.
Mai però fece cenno con alcuno della sua vicenda, della sua parola e della dignità dimostrata (e non solo da lui) e tutto andò nel dimenticatoio. Si sa solo che quando l’Inghilterra si trovò di nuovo in guerra dopo l’invasione nazista della Polonia si rese disponibile e divenne, come consulente e stratega, capo osservatore del Royal Observer Corps sull’isola di Wight. A guerra finita si fermò ancora in quell’isola e lì vi morì nel luglio 1966, all’età di 81 anni.
La sua vicenda ritornò a galla solo 12 anni fa grazie allo storico Richard van Emden che ritenne meritevole la sua conoscenza per l’onesta intellettuale di quell’uomo e per il suo senso di dovere. Insegnò nel suo piccolo che “Non si fa il proprio dovere perché qualcuno ci dica grazie... lo si fa per principio, per sè stessi, per la propria dignità.”
Piccolo atto, ma grande lezione di vita.
Per principio, per sè stessi, per la propria dignità.
6 novembre 2025 – 109 anni dopo – Rinaldo Battaglia
* Coordinatore Commissione Storia e Memoria dell'Osservatorio
 
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