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21 ottobre 2025
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Non conosci le donne di Palestina
di Rossella Ahmad

Mi è venuto in mente quanto da me scritto lo scorso marzo. Sono i concetti che si confermano, esatti e precisi, ogniqualvolta io sia a contatto con una donna di Gaza, oppure ne ascolti storia ed istanze, ed ormai avviene molto spesso.

Non è mai capitato che abbia incontrato donne meno che forti. Capaci di reinventarsi la vita, da sole, in un paese straniero e, al contempo, di tessere legami e creare comunità, onorando con fedeltà retaggio e identità. Con solida accettazione, come a reiterare un inestinguibile istinto di sopravvivenza nel mezzo della tragedia.

Perchè non c'è liberazione, né femminile né di alcun genere, se non all'interno dei propri parametri culturali e all'interno di una lotta globale che sia simultaneamente anti coloniale, anti-imperialista e anti-razzista.

Ed a proposito di ciò, cito il più disturbante esempio di suprematismo coloniale pseudo-femminista che io abbia avuto la sventura di vedere, e che molti di voi ricorderanno: la giornalista britannica Julia Hartley Brewer mise a tacere il dottor Mustafa Barghouti - mite medico e politico palestinese - durante un'intervista televisiva utilizzando proprio l'arma del femminismo coloniale, gettato in faccia al suo interlocutore con una supponenza, un'arroganza e la maleducazione tipica di chi voglia confrontarsi con un altro sistema di valori senza averne le capacità, né umane né intellettive.

"Stia zitto, uomo. Forse lei è abituato ad avere a che fare con donne che tacciono".

Aveva ovviamente sbagliato tutto. Anche obiettivo. La moglie di Barghouti, Rita Giacaman, è professore di Salute Pubblica all' Institute of Community and Public Health della Birzeit University. Sua figlia Diah sta svolgendo un dottorato di ricerca presso l'università di Londra.

Lo ricordo mentre guardo le immagini scorrere sul mio pc ed ascolto le parole di questa gazawie, che mi sembrano sovrapponibili a quelle di tutte le donne con cui ho parlato - nei campi profughi giordani, nella diaspora , e nella condizione odierna di rifugiate temporanee, con figli malati, emaciati, da salvare, curare, riportare alla vita.

Il dolore della perdita. La nostalgia. Il costante senso di colpa, quasi una sindrome, per aver frapposto una barriera fatta di migliaia di chilometri tra sé ed il genocidio, avvertito sempre più come un destino esistenziale.

Per contrasto, avverto in tutto il suo stridore il paesaggio morale da landa post-atomica in cui ci troviamo a vegetare, piena di Mieli, di Sardoni, di Incoronate e Cortigiane. Volgarità allo stato puro. Il Day After dello spirito.

Sentirli palare di Palestina mi lacera. Sentirli parlare di donne di Palestina mi devasta. Mi piacerebbe che provassero, anche solo per un istante, il sentimento della vergogna e della propria rovinosa inutilità al cospetto di donne che portano sulle spalle il peso dell'identità di un popolo, minacciata e aggredita da ogni lato, dotate di braccia che sollevano non solo il firmamento, ma l'intero spazio che si frappone tra esso e le viscere della terra. L'universo nei loro occhi

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