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Fummo migranti
di Giuseppe Franco Arguto
Mio nonno emigrò in America nel 1925.
Nato nel 1899 in un piccolo paesino sulle colline siciliane, lasciò la sua terra per fame: aveva combattuto, come centinaia di altre migliaia, la prima grande guerra; la sua generazione fu quasi letteralmente cancellata da quel conflitto.
Ritornato dal fronte, le cose al paese andavano male e per i reduci non v'erano speranze, tanto meno riconoscimenti materiali o garanzie per un futuro migliore.
Quando penso a lui mentre s'imbarca a Napoli, immagino la sua condizione psicologica, le incognite che gli incutevano timore e gli chiudevano in petto un cuore palpitante: posso solo immaginare, e mi aiutano in questo transfer spazio-temporale le istantanee di quelle emigrazioni italiane: dopo giorni e giorni di navigazione, giunto nel porto di destinazione, con gli occhi carichi di emozione liquida ha guardato quella statua imponente - mentre tutti gridavano “America, c’è l’America”- e si è chiesto come sarebbe cambiata la sua vita appena sceso in terra straniera.
Ho pianto trovando il suo nome nei registri della fondazione “Ellis Island”. Viaggiava sulla Conte Grande. In America ha vissuto per 12 anni, potendosi permettere di rientrare al paese in Sicilia solo tre volte. La storia che conosco su di lui me l'ha raccontata una mia prozia (sua figlia).
Dopo le consuete trafile burocratiche per gli immigrati in America, ottenne un lavoro in fabbrica; con il tempo e tanta buona volontà ha imparato la lingua, cosa che gli ha permesso di trovare poi una occupazione presso una ditta farmaceutica americana come rappresentante.
Tutto quello che è riuscito a costruire in Sicilia è stato frutto di quei sacrifici, di quel coraggio e di quella determinazione che ti fa affrontare i mari, gli abissi, gli oceani.
Tornò in Italia quando gli dissero che sua moglie stava morendo a causa di un tumore. Rimesso piede in casa, comprese che il suo posto era accanto ai figli piccoli. Iniziò un nuovo capitolo della sua vita.
Mi chiedo come siamo diventati così insensibili e come abbiamo fatto a dimenticarci dei nostri avi, di tutti quelli che si sono messi su una nave per arrivare dall’altra parte dell’oceano in cerca di una vita migliore.
Il concetto non è cambiato. Perché le guerre, la fame e la miseria non sono le uniche motivazioni ... Le persone pretendono di poter scegliere, di decidere di aprire nuovi orizzonti di libertà.
Noi italiani continuiamo ad emigrare incessantemente, e nella mia famiglia, nonostante non manchi nulla, una delle mie figlie é emigrata lasciando l'Italia. Lo ha fatto spinta non solo dall’idea di poter avere più opportunità di lavoro, un impiego all'altezza delle sue ambizioni, ma di poter aspirare a una società meno 'chiusa' culturalmente, quello che questa Italia non riesce a garantire alle giovani generazioni.
Non serve scappare dalla fame e dai conflitti armati per mettersi su una nave rischiando la vita. Siamo fatti per migrare, per spostarci, per incrociarci e moltiplicarci. E le migrazioni non si possono arrestare.
Ciò che ci rende clandestini sulla “carta” è un concetto artificioso adoperato dallo Stato per limitare l’individuo, per controllarlo con la scusa della “sicurezza”.
Il mondo non ha spazi sicuri in nessun luogo, e i muri o le barriere, o anche solo i respingimenti in mare non fermeranno le persone: anche a costo della vita, la libertà di scegliere dove vivere è nello spirito dell'Essere umano.
E ciò nonostante, nel mare continuano a morire.
 
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