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Responsabilità civile e coscienza collettiva
di Raffaele Florio
Francesco, 3 anni, è morto in un parco di Vibo Valentia, schiacciato da un palo. La sua vita è stata spezzata in pochi secondi, e con essa la fiducia minima che una comunità deve poter riporre nei luoghi pubblici: la certezza che un parco giochi sia un posto sicuro, non una trappola.
In queste ore tutti cercano di individuare il “colpevole”: la ditta, l’amministrazione, i controlli mancati. Giusto. La magistratura farà il suo corso. Ma c’è un punto che non possiamo dimenticare e che va oltre l’aula di un tribunale: la responsabilità civile.
Perché se la vite di quel palo era spezzata – corrosa, instabile, chiaramente compromessa – e chi lo ha visto non ha avuto la prontezza di segnalarlo, allora quella persona è parte del problema. Non per dolo, ma per omissione. Perché la responsabilità civile non è un optional: è l’impegno quotidiano di ciascun cittadino a custodire il bene comune, a prendersi cura di ciò che appartiene a tutti.
Un palo non cade all’improvviso da un minuto all’altro. Prima scricchiola, si piega, mostra segni evidenti di usura. Se chi lavora in un cantiere, se chi frequenta il parco, se chi amministra la città, non si assume il dovere minimo di segnalare e intervenire, la catena della responsabilità si spezza. E quando si spezza, la conseguenza non è un danno materiale: è la morte di un bambino.
Per questo la responsabilità civile è fondamentale: perché impedisce alle tragedie di diventare routine, agli incidenti di trasformarsi in fatalità. La politica ha i suoi doveri, le ditte i loro obblighi contrattuali, ma senza una comunità vigile e partecipe tutto si riduce a burocrazia.
Il sacrificio di Francesco non può essere liquidato con le solite frasi di circostanza. Deve diventare un monito: non basta commuoversi, bisogna assumersi responsabilità. Tutti. Dall’amministratore al cittadino comune.
Perché un palo che cade in un parco pubblico non è solo un cedimento del ferro: è il cedimento della coscienza collettiva.
 
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