 |
Fra due 11 settembre la parabola USA
di Roberto Rizzardi
11 settembre. Ricorrenza infausta nella quale gli effetti della "politica estera" statunitense si coagulano con esiti di morte.
Ero meno che ventenne l'11 settembre 1973 (l'altro e dimenticato 11/9), quando nel lontano Cile un golpe foraggiato dagli USA e dagli interessi delle grosse corporations di quel paese depose il Presidente Allende e il suo esperimento socialista.
Tra il Cile e il nostro paese c'erano allora alcuni paralleli, e noi vivemmo per anni sotto la minaccia ed il ricatto costanti di una "soluzione" cinicamente definita "spaghetti in salsa cilena", che compromise ed orientò la dinamica della dialettica politica italiana.
Essere la provincia di un impero di fatto comporta anche questo.
Quel giorno ero ancora uno studente con un forte impegno politico militante, e non appena giunse la notizia della presa di potere di Pinochet partecipai immediatamente alla vasta mobilitazione che ne seguì. A quei tempi nel Paese vi era una coscienza politica molto più elevata di quella odierna.
La gente, comunque la pensasse, non si disinteressava di ciò che accadeva poiché non era stata ancora scoraggiata dal partecipare agli eventi da una classe politica miserabile come quella odierna, ed il radicamento dei partiti non era stato ancora smantellato da chi preferiva non doversi confrontare con una base da “risvegliare” solo a ridosso di elezioni, magari ricattandola con invocazioni di ipocrita “voto utile”.
L'altro 11 settembre, quello del 2001, ero invece un padre di famiglia di 47 anni.
Quel giorno ero in ferie. Non una vacanza vera, ma solo un giorno preso per sbrigare in orario lavorativo una serie di incombenze.
Girai tutta la mattina per vari uffici, facendo lunghe code e scontrandomi con la flemma tipica dei burocrati da sportello. A quel tempo non eravamo tutti “connessi” H24 come oggi, dunque come la gran parte delle persone che non stazionavano di fronte ad un televisore o non tenevano una radio accesa, non ebbi inizialmente alcun sentore di ciò che stava accadendo al di là dell’Atlantico.
Nel pomeriggio, quando gli schianti si erano già verificati da alcune ore, entrai in un bar per un caffè. La televisione era accesa, i pochi avventori erano stranamente silenziosi e con lo sguardo incollato allo schermo, basiti e increduli, mentre la barista sembrava non riuscire a prestarmi sufficiente attenzione.
Guardai lo schermo e ricordo che pensai, sulle prime, che si trattasse di un film catastrofico, ma era invece la cronaca, trasmessa a ciclo continuo, del successo di un attentato costruito con grande dispendio di danaro e di energie.
Il numero dei morti raggiunse quel giorno quota 2.752 persone!
Il paese nel quale abitavo allora contava 2.596 abitanti!
Quel giorno l’equivalente della popolazione di un paese leggermente più grande di Bornasco era stato ingoiato da un inferno di fiamme e macerie, per non parlare delle migliaia di decessi negli anni successivi, dovuti a neoplasie contratte da moltissimi superstiti e soccorritori venuti a contatto con i materiali cancerogeni dispersi nel crollo delle torri.
Ma non sono solo americani i morti di quella catastrofe. Nel numero andrebbero conteggiate anche le vittime di guerre scatenate subito dopo, nominalmente per comminare la "giusta punizione" per quei fatti, in realtà al servizio di ciniche, e miopi, motivazioni geostrategiche che strumentalizzarono i caduti delle torri.
Quelle guerre colpirono i soggetti “scomodi”, non troppo duri da rompere, Afghanistan e Iraq, e l'Afghanistan alla fine si rivelò non molto "morbido", come avevano già appreso i russi e gli inglesi prima di loro, ma non quelli troppo “impegnativi”, l’Iran, e neanche quelli nominalmente alleati, quel Pakistan che è il parco giochi del terrorismo islamico mondiale, e neanche l’Arabia Saudita, terra natale di gran parte degli esecutori di quell’assalto e del principale finanziatore di quello e di molti altri attentati, nonché capo dell’organizzazione responsabile della mattanza, lo scopo vero essendo quello di mettere un piede stabile nel teatro mediorientale.
Guerre che sono durate decenni, e che non sono cessate veramente, divenendo condizioni di letale instabilità tuttora in corso, degenerate in scontri endemici tra creature politiche spietate e sanguinarie.
Stati di permanente precarietà nati quale logica conseguenza della miopia statunitense, con moribonde entità statuali rimaste stritolate dalla perversa logica neoimperiale della grande potenza.
Guerre che si sono poi avvicinate a grandi passi ai nostri territori. Ma questi territori, nella visione strategica americana, sono la marca esterna, e spendibile, di un impero di fatto, costruito anche per attutire lo scontro.
Il grande padrone occidentale non è più bene in carne come solo pochi decenni fa. Come tutti gli imperi si avvicina, nella fase discendente della sua parabola, con passi sempre più spediti e veloci alla propria implosione, favorita dalle numerose contraddizioni generate da una carente visione strategica.
È tipico di tutti i giganti in affanno essere scomposti quando sentono sfuggire dalle loro mani il potere che davano per scontato, mentre i loro antagonisti globali dimostrano una vitalità, o una resistenza particolarmente efficaci. È proprio allora che il gigante in crisi diventa più pericoloso, e il fatto che l’Europa sia malamente amministrata da servi privi di qualità e particolarmente miserabili è l’altro nostro gigantesco problema.
 
Dossier
diritti
|
|