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08 settembre 2025
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Non volevamo tornare a casa a sparare ad altri italiani
di Rinaldo Battaglia *

Ogni vicenda è parte della nostra Storia, del nostro Paese. Ogni IMI (Internati Militari Italiani, ndr) è stato un eroe. Come definirli diversamente, altrimenti? E ogni loro parola merita il massimo rispetto.

Peccato che in Italia abbiamo perso la memoria di questo e un Paese senza memoria non può avere futuro.

Basterebbe leggere solo alcune parole di Aldo Giacon, IMI di 100 anni e originario di Grumolo delle Abbadesse, dalle mie parti: «Il 19 settembre 1943 arrivano gli emissari del Duce. «Ci dicono: volete restare a marcire qui o tornare subito a casa? Aderite alla Repubblica sociale e partirete per l’Italia sul primo treno. Su duemila hanno firmato una trentina. I fascisti sono tornati una settimana dopo. Hanno ripetuto la manfrina, ma, questa volta, non ha firmato nemmeno uno. Perché? Perché eravamo stufi della guerra, stanchi di Mussolini. Non volevamo “tornare a casa” per sparare ad altri italiani. Ho ragionato molto in questi anni.
Se per un qualche motivo fossi rimasto in Italia, cosa avrei fatto? Sarei salito in montagna con i partigiani, mi sarei imboscato, o avrei obbedito a Salò? La risposta non c’è. Avevamo pochi strumenti, poche informazioni. Quello che so, è che davanti ai reclutatori fascisti abbiamo detto no. Sono onesto: ci eravamo illusi di essere comunque al capitolo finale. Che saremmo tornati liberi in fretta. Ma quando abbiamo capito che non era così, che avremmo rischiato di non rivedere più l’Italia e i nostri affetti, come poi è successo a molti di noi che in Germania e Polonia sono morti, nessuno si è tirato indietro. Non eravamo eroi, ma abbiamo fatto la nostra parte».

Come merita l’ascolto la descrizione di come venne accolta il 10 giugno 1940 – Aldo Giacon aveva allora meno di 16 anni – la scelta della guerra da parte del Duce: «Il 10 giugno del 1940 Aldo sente alla radio la dichiarazione di guerra di Mussolini. «Gli altoparlanti gracchiavano le parole del Duce in tutta la città. Nelle piazze, nelle strade, nei negozi, in fabbrica, negli uffici. In quel momento non ho provato nulla di particolare. Solo i reduci del ‘15-‘18 sapevano veramente cosa fosse la guerra. Noi ragazzi cresciuti all’ombra del fascio avevamo una visione ingenua. Come se quella parola - guerra - fosse una cosa irreale, fumosa. Lontana. Più una suggestione che un pericolo incombente».

Come scriveva il 17 settembre 2024 Luca Fregona sul giornale “Alto Adige”, in un articolo dedicato al ‘vecchio’ eroe Aldo Giacon, con tanto di foto alla sua bella età.

Si pensi che Aldo Giacon era stato chiamato alle armi non ancora diciannovenne, a metà agosto del 1943. Le cose andavano male per la nostra Italia e serviva... carne fresca. «Destinazione Gradisca d’Isonzo, in provincia di Gorizia, 11° Reggimento bersaglieri. «Ero preoccupato, ma non troppo. Dopo il 25 luglio e la caduta di Mussolini, ci eravamo convinti che la sorte della guerra fosse segnata e che saremmo tornati a casa presto. Invece...». Arrivò tre settimane dopo l’8 settembre, l’armistizio.

«Non dimenticherò mai quella sera. All’imbrunire, di colpo, a Gradisca si accesero tutte le luci nelle case. La gente aveva tolto i teli oscuranti e si era riversata in strada a ballare e cantare. Credevamo davvero fosse finita». Non è così. Il 12 settembre piomba in paese una colonna di panzer con la svastica.

«Il giorno prima i nostri ufficiali e graduati si erano tolti le mostrine ed erano svaniti nel nulla. Di sicuro avevano saputo qualcosa. Noi burbe abbiamo provato a fuggire, ma i tedeschi e i fascisti ci hanno fermato a un posto di blocco, intimandoci di tornare indietro. I tedeschi avevano posizionato quattro nidi di mitragliatrici intorno alla caserma. Eravamo in trappola. Il giorno dopo ci hanno caricati sui carri merci a Villa Opicina. Ci puntavano la canna del fucile nella schiena e urlavano. VerräterBa-do-gl-io. Traditori, traditori. Foi tutti Ba- do-gl- io. Sento ancora il latrato nelle orecchie. Nel mio vagone eravamo in sessantaquattro pigiati come sardine. In piedi e seduti a turno sopra gli zaini. Dovevamo fare i bisogni lì dentro. Senza cibo e poca acqua. La puzza era nauseante. La tradotta era di circa settecento prigionieri. Quattro giorni e quattro notti così: non lo auguro a nessuno».

Nell’intervista da cui Luca Fregona ha sviluppato l’articolo, Aldo Giacon raccontò di un suo ‘portafortuna’: la coperta militare, che tuttora si tiene sempre comoda come una medaglia. Dopo oltre 80 anni. Anche mentre veniva intervistato.

«Questa, questa mi ha salvato la vita. Grazie a Dio l’avevo infilata nello zaino, assieme a un quaderno a quadretti dove ho tenuto un diario della prigionia. Eccolo qua...». Copertina nera, scrittura fitta, date su date, nomi, ma anche interruzioni, pagine lasciate vuote. «Non sempre avevo voglia di annotare anche se capivo che era importante». Prima destinazione Polonia, Stammlager 20, nel nord, vicino alla città di Torun. Il Kz è in aperta campagna. Una fila di baracche. Dentro: castelli di tre piani di tavolacci scheggiati. Né coperte né cuscini. «Dormivamo lì sopra con la divisa addosso. Per fortuna avevo con me la coperta. Faceva già un freddo cane. Scopro che il mio nuovo nome è un numero in tedesco: Kriegsgefangener 49661. E che lo devo ricordare a memoria, perché così mi chiamano e così mi devo presentare: 49661». La disciplina è ferrea. Appello alle 5 del mattino, a colazione una brodaglia che chiamavano tè, a pranzo una zuppa di bietole immangiabili. La sera due chili di pane nero da dividere in sei e un velo di margarina a testa. «Le guardie facevano il loro mestiere, non erano SS. Erano anziani della Wehrmacht con le pance gonfie di birra. Inflessibili, ma non cattivi. Ma si sa: per i tedeschi l’obbedienza è l’undicesimo comandamento».

Ma tutto il suo discorso e la sua scelta di diventare IMI ruotavano su quella precisazione: “Non volevamo “tornare a casa” per sparare ad altri italiani”.

Loro erano gli IMI, gli Internati Militari Italiani, quelli che preferirono il lager piuttosto che ritornare sotto il fascismo e sotto il Duce. Altri italiani, i fascisti, preferirono invece sparare ed uccidere contro i loro connazionali. Anche quand’erano donne, vecchi e bambini.

Perchè non ricordarlo oggi, perchè dimenticarlo, perché ‘perdere la memoria’? Perché non dire a voce altri chi sono stati gli IMI? Quelli che alla fine della guerra, liberati i lager nazisti dagli Alleati o dall’Armata Rossa, in oltre 650.000 tornarono a casa, più morti che vivi nel fisico, ma con profonda e totale dignità.

La dignità di esser ‘rimasti’ uomini, di non aver accettato leggi infami o distinzioni di razza, la dignità di sacrificare la propria vita e la propria libertà, affinché in Italia altri potessero godere di una vita migliore, finalmente in libertà. Preferirono i reticolati di un lager per non avere – loro e gli altri – ancora reticolati nel cuore e nella mente.

Nei lager ne rimasero per sempre 50/60.000. Forse anche di più. Lì si sono fermati e se, oggi, siamo l’Italia liberata dal fascismo – almeno così si dice - lo dobbiamo anche a loro.

Possiamo anche non conoscerli, possiamo anche nascondere le loro gesta, possiamo riscrivere tutta la Storia che si vuole col colore dell’inchiostro che si preferisce, ma il loro eroismo nessuno lo può più toccare. Per l’eternità.

Chi sono stati gli IMI? Chi è stato Aldo Giacon? Eroi. Bob Dylan a suo tempo scriveva che "Un eroe è chi capisce il grado di responsabilità che deriva dalla sua libertà". E gli IMI lo capirono molto bene in tempi tragici, forse i peggiori nella storia dell’umanità.

Eroi, solo eroi, invisibili ed anonimi, ma eroi. Eroi che hanno coscientemente sacrificato la loro vita affinché altri ne avessero una, che si potesse definire tale. Coscientemente. Solo eroi che non hanno voluto “tornare a casa per sparare ad altri italiani”.

Tutto il resto non conta, tutto il resto viene dopo.

Chi sono stati gli IMI? Eroi, solo eroi, invisibili ed anonimi, ma eroi. Nulla di più.

Il 14 settembre 2024 l’IMI Aldo Giacon ha compiuto 100 anni, quando scelse di "non tornare a casa per non sparare agli altri italiani", ne aveva appena compiuti 19. Un ragazzo, allora, ma capace di insegnare a noi, italiani figli di quel tempo, una grande lezione di vita. Peccato che in Italia abbiamo perso la memoria di quei maestri e un Paese senza memoria e senza maestri non può avere futuro.

Ma forse a molti oggi conviene che il nostro Paese non abbia memoria.

8 settembre 2025 - 82 anni dopo - Liberamente tratto dal mio ‘Il tempo che torna indietro – Terza Parte” - Amazon – 2025

* Coordinatore Commissione Storia e Memoria dell'Osservatorio


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