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07 settembre 2025
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I martiri della Basovizza
di Roberto Neri

Novantacinque anni fa, al sorgere del sole del 6 settembre 1930, un intenso viavai di camion trasporta seicento membri della “Milizia volontaria per la sicurezza dello Stato” ad assistere ad una fucilazione a Basovizza, in un prato appena oltre il paese. Alle 5,30 è prevista l’esecuzione.

I miliziani fascisti vengono fatti schierare in modo che ognuno possa vedere il momento in cui un loro plotone scelto farà fuoco contro quattro giovani girati di spalle. La presenza di tante camicie nere serve a dare più ufficialità alla sentenza di morte, emessa appena poche ore prima.

La modalità “di spalle”, riservata ai traditori, evidenzia il disprezzo verso i quattro condannati. Solo che costoro in realtà non sono affatto traditori né rinnegati italiani, perché appartengono alla comunità slava, la più numerosa e radicata della zona in cui stanno per essere giustiziati.

Tre sloveni e un croato per la precisione. I loro volti, dal più giovane a sinistra, 22 anni, al più vecchio a destra, 33 anni, e i dati anagrafici sono nelle foto in basso. Ulteriori nomi, e gli anni e i mesi delle rispettive pene, sono di alcuni degli altri condannati durante un processo terminato la sera prima.

La sentenza colpisce quattordici aderenti a “Borba”, un gruppo giovanile nato qualche anno prima per opporsi alla politica di violenta italianizzazione delle comunità slave che abitano le province lungo il confine orientale. Borba all’inizio non agisce armato.

La loro associazione verrà in seguito conosciuta come TIGR; le lettere sono le iniziali di tre città e relative province (Trieste, Gorizia e Rijeka ovvero Fiume) e una regione, l’Istria, annesse non senza problemi dall’Italia alla fine della prima guerra mondiale. Fin dal 1919 queste zone erano bersaglio delle “spedizioni” squadriste.

L’avvento del regime fascista aveva poi accelerato l’italianizzazione negando l’uso in pubblico delle lingue croate e slovene, perfino al clero. In risposta a ciò il TIGR operava nell’ombra con sabotaggi e diffusione di materiale slavofilo, attirando su di sé l’ira del governo di Roma.

L’anno prima di quello che diverrà noto come “il primo processo di Trieste” contro la comunità slava, il Tribunale speciale del regime si era già mosso. Un croato era stato fucilato a Pola soltanto per aver tentato di far boicottare il plebiscito pro dittatura del 1929.

La Corte istituita qualche anno prima dal governo fascista per zittire gli oppositori, il Tribunale speciale appunto, era mobile. Trieste la ospita per giudicare i ragazzi slavi presi in una retata nell’estate 1930, dopo un attentato contro un quotidiano della città.

Quel giornale, “il Popolo di Trieste”, non era un semplice giornale locale. Fin dal 1920 è il quotidiano fascista più diffuso in Italia, secondo solo allo storico organo del partito, “il Popolo d’Italia” fondato da Mussolini; la città inoltre è stata a lungo quella con più camicie nere del paese.

La bomba del marzo 1930 contro il quotidiano triestino aveva ucciso un dipendente. Oltre ad indagare comunisti e slavi, arrestati quasi subito ma senza alcun collegamento al fatto, un filone seguiva una pista diversa: un attentato interno al Fascio triestino per questioni soldi. Solo più tardi quattordici militanti nel TIGR finivano dentro, con l’imputazione di aver organizzato l’esplosione.

Torturati perché ammettessero di svolgere attività in dissenso col governo italiano, il gruppo dal 1 settembre 1930 finisce davanti al Tribunale speciale; il presidente della corte Guido Cristini ogni giorno riferisce al Duce via telegrafo, mentre la pubblica accusa fonda le requisitorie sull’odio etnico verso gli slavi, accusati di essere terroristi così, a prescindere.

Durante il dibattito uno dei giovani imputati, che cita Giuseppe Mazzini come suo riferimento ideale, viene zittito dal giudice. Gli accusati di questo particolare Tribunale non hanno diritti, se non quello di piegarsi a chiedere pietà. E così si arriva alla spropositata sentenza.

Basovizza, paese dell’altopiano carsico poco fuori Trieste, passa dunque alla storia. Nel momento della fucilazione le vittime vengono udite inneggiare, sia in lingua madre che in italiano, alla Jugoslavia, la nazione vicina verso la quale il fascismo sta fatalmente spingendo chi gli si oppone.

Restati però nella memoria della comunità slava, ai condannati del 1930 già alla fine del secondo conflitto mondiale viene eretto a cura dei loro connazionali -non importa se cittadini italiani o jugoslavi- un cippo sul luogo di morte coi cognomi dei quattro giustiziati.

Da allora, ogni anno la prima domenica dopo il 6 settembre, alla colonna in pietra di Basovizza si ritrovano slavi abitanti di qua e di là dal vicinissimo confine tra Italia e Slovenia, oltre a nostri connazionali in genere, privi di pregiudizi etnici o affini. Sempre ogni anno una commemorazione ufficiale si svolge a Lubiana, e una messa viene celebrata nella chiesa di Basovizza.

Va detto che quel cippo finora ha patito più di venti periodici danneggiamenti. Lì davanti nel 2020 abbiamo assistito alla storico momento del minuto di silenzio alla memoria offerto dai presidenti di Italia e Slovenia, che si tenevano per mano.

La colonna dei fucilati in linea d’aria dista cinquecento metri dalla foiba di Basovizza.


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