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07 settembre 2025
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Imperialismo di frontiera
di Giuseppe Franco Arguto

[...] 𝘤𝘩𝘦 𝘤𝘰𝘴𝘢 𝘴𝘪𝘦𝘵𝘦? [...] 𝘛𝘶 𝘯𝘰𝘯 𝘧𝘢𝘪 𝘱𝘢𝘳𝘵𝘦 𝘥𝘪 𝘲𝘶𝘦𝘴𝘵𝘰 𝘤𝘢𝘴𝘵𝘦𝘭𝘭𝘰, 𝘯𝘰𝘯 𝘧𝘢𝘪 𝘱𝘢𝘳𝘵𝘦 𝘥𝘪 𝘲𝘶𝘦𝘴𝘵𝘰 𝘷𝘪𝘭𝘭𝘢𝘨𝘨𝘪𝘰, 𝘯𝘰𝘯 𝘴𝘦𝘪 𝘯𝘪𝘦𝘯𝘵𝘦.
𝘔𝘢 𝘢𝘯𝘤𝘩𝘦 𝘵𝘶 𝘴𝘦𝘪 𝘲𝘶𝘢𝘭𝘤𝘰𝘴𝘢, 𝘱𝘶𝘳𝘵𝘳𝘰𝘱𝘱𝘰, 𝘴𝘦𝘪 𝘶𝘯𝘰 𝘴𝘵𝘳𝘢𝘯𝘪𝘦𝘳𝘰, 𝘶𝘯𝘰 𝘤𝘩𝘦 𝘦̀ 𝘴𝘦𝘮𝘱𝘳𝘦 𝘪𝘯𝘰𝘱𝘱𝘰𝘳𝘵𝘶𝘯𝘰 𝘦 𝘥'𝘪𝘯𝘵𝘳𝘢𝘭𝘤𝘪𝘰, 𝘶𝘯𝘰 𝘤𝘩𝘦 𝘱𝘰𝘳𝘵𝘢 𝘶𝘯 𝘴𝘢𝘤𝘤𝘰 𝘥𝘪 𝘨𝘶𝘢𝘪, [...] 𝘭𝘦 𝘤𝘶𝘪 𝘪𝘯𝘵𝘦𝘯𝘻𝘪𝘰𝘯𝘪 𝘯𝘦𝘴𝘴𝘶𝘯𝘰 𝘤𝘰𝘯𝘰𝘴𝘤𝘦.
(F. Kafka, "Il castello", Adelphi)

L'imperialismo di frontiera è un fenomeno geopolitico che ha avuto al centro delle sue attività la chiusura dei varchi di confine, definendo clandestino chiunque lo superi senza garanzie di legalità. Di fatto, ha creato solo stereotipi, aggravato pregiudizi contro lo straniero, soprattutto asiatico e africano, innescato paure: si ha paura degli immigrati perché nella loro miseria possiamo vedere il riflesso della nostra, perché nel loro vagare riconosciamo la nostra condizione quotidiana, quella di individui che si sentono sempre più stranieri sia in questo mondo che a se stessi.

Lo sradicamento è la condizione più diffusa nella nostra società attuale e non una minaccia proveniente da un altrove terrificante e misterioso . Solo guardando in profondità nella nostra vita quotidiana possiamo capire cosa ci coinvolge tutti nelle condizioni degli immigrati. Prima però dobbiamo definire un concetto fondamentale: quello di clandestino.

Un clandestino è semplicemente qualcuno che non ha documenti regolari. E non certo per il puro piacere del rischio o dell'illegalità, ma piuttosto perché, nella maggior parte dei casi, per possedere tali documenti deve essere in grado di fornire quelle stesse garanzie il cui possesso lo avrebbe reso non uno straniero, ma semplicemente un turista o uno studente straniero. Se gli stessi standard fossero applicati a tutti, milioni di persone sarebbero state gettate a mare.

Quale italiano disoccupato, ad esempio, potrebbe dare la garanzia di un salario legale? Cosa potrebbero fare tutti i precari nati qui che lavorano per agenzie di lavoro interinale, i cui contratti non valgono un visto per gli immigrati? E ​​poi, quanti italiani ci sono che vivono in un appartamento di 60 metri quadrati con non più di altre due persone?

Leggiamo tutti questi decreti (sia di sinistra che di destra) sull'immigrazione, e allora sarà chiaro che l'illegalità è un progetto ben preciso dello Stato. Perché?

𝘈𝘣𝘣𝘪𝘢𝘮𝘰 𝘤𝘩𝘪𝘦𝘴𝘵𝘰 𝘭𝘢 𝘮𝘢𝘯𝘰𝘥𝘰𝘱𝘦𝘳𝘢 𝘦 𝘨𝘭𝘪 𝘶𝘰𝘮𝘪𝘯𝘪 𝘴𝘰𝘯𝘰 𝘢𝘳𝘳𝘪𝘷𝘢𝘵𝘪. (Max Frisch, “Svizzera senza esercito? Una discussione necessaria”, Garzanti 1989).

Quando Max Frisch scriveva «𝘈𝘣𝘣𝘪𝘢𝘮𝘰 𝘤𝘩𝘪𝘦𝘴𝘵𝘰 𝘭𝘢 𝘮𝘢𝘯𝘰𝘥𝘰𝘱𝘦𝘳𝘢 𝘦 𝘨𝘭𝘪 𝘶𝘰𝘮𝘪𝘯𝘪 𝘴𝘰𝘯𝘰 𝘢𝘳𝘳𝘪𝘷𝘢𝘵𝘪», denunciava un’ipocrisia che oggi è ancora più evidente. La logica del capitalismo globale continua a ridurre le persone a forza-lavoro: si cercano braccia per i campi, per l’edilizia, per l’assistenza domestica o sanitaria, ma non si è disposti a riconoscere che quelle braccia appartengono a esseri umani portatori di dignità, diritti e bisogni.

Oggi, le economie occidentali dipendono in maniera strutturale dai migranti. Eppure, gli stessi governi che beneficiano del loro lavoro li criminalizzano, blindando i confini, organizzando centri di detenzione, adoperando retoriche securitarie. È il paradosso della nostra epoca: i migranti sono indispensabili ma indesiderati.

La frase di Frisch ci obbliga a un esercizio di verità: dietro ogni “manodopera” c’è una storia di vita, di sradicamento, di sacrificio. Vederla solo come funzione economica significa condannare intere comunità all’invisibilità e perpetuare una forma di razzismo istituzionale.

In un mondo attraversato da crisi climatiche, guerre e disuguaglianze, le migrazioni non sono un’emergenza passeggera, ma la condizione del nostro tempo. Per questo le parole di Frisch risuonano come un monito: o impariamo a riconoscere i migranti come persone, e quindi come parte costitutiva delle nostre società, oppure continueremo a costruire sistemi fondati sulla disumanizzazione e sulla paura.

Un immigrato clandestino è più vulnerabile al ricatto, portato ad accettare condizioni di lavoro e di esistenza ancora più odiose (precarietà, vagabondaggio senza fine, alloggi di fortuna e così via) sotto la minaccia di essere espulso. E questa minaccia ha valore anche per chi ha un visto, ma sa bene quanto sia facile perderlo quando non si è graditi ai padroni e agli agenti di polizia. Con lo spettro della polizia, i padroni ottengono dei salariati addomesticati, o meglio, dei veri e propri lavori forzati.

Il fenomeno della clandestinità non nasce da una scelta individuale ma da un preciso progetto statale: creare una massa di lavoratori senza diritti, ricattabili e sfruttabili. Le leggi sull’immigrazione – sia di destra che di sinistra – costruiscono l’irregolarità, alimentano un mercato della precarietà e forniscono alla polizia e ai padroni strumenti di controllo. In questo modo, lo Stato mantiene una gerarchia tra poveri, mentre i mass media e la politica fabbricano un nemico – lo straniero – che diventa capro espiatorio delle tensioni sociali.

I centri di detenzione per immigrati, definiti “Lager”, sono l’emblema di una sospensione della legalità che ricorda le peggiori pagine del Novecento. Qui, uomini e donne vengono privati di diritti fondamentali solo perché indesiderati, trasformati in pura forza-lavoro o in scarti sociali.

Il capitalismo globale ha generato un nuovo sradicamento: ha distrutto comunità, reso obsolete intere popolazioni, creato precarietà e isolamento. In questo vuoto proliferano fondamentalismi, nazionalismi e nuovi conflitti etnici e religiosi, in un contesto che somiglia sempre più a una guerra civile permanente.

Di fronte a questo scenario, due sole vie appaiono possibili: la guerra fratricida tra poveri, fomentata dai dominanti, oppure la lotta di classe, capace di ricostruire solidarietà reali e universali. Il razzismo, presentato come paura o opinione, è in realtà un’arma politica che divide e paralizza gli sfruttati; può dissolversi solo nell’azione comune contro padroni, Stato e apparati repressivi.

“Siamo tutti clandestini”: questa è la parola d’ordine di una solidarietà che non si limita alla compassione, ma diventa lotta collettiva per spezzare i pilastri dello sfruttamento e aprire la via a comunità che rifiutino nettamente le dinamiche capitaliste e stataliste che nelle frontiere, soprattutto identitarie, seminano l'odio razziale e le discriminazioni economiche.


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