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Trasmissioni TV non invitano palestinesi
di Soumaila Diawara
Perché i palestinesi non vengono mai invitati nelle trasmissioni, nei dibattiti pubblici, nelle conferenze, a parlare della loro terra, della loro storia e del loro dolore?
Perché si preferisce dare spazio sempre alle stesse voci, che riducono la tragedia palestinese a una narrazione comoda, come se l’incubo fosse cominciato il 7 ottobre?
Non parlo degli studiosi seri, che hanno indagato con rigore, come Francesca Albanese, rappresentante di istituzioni internazionali, ma dei sedicenti opinionisti dalle posizioni ambigue, che hanno atteso sessantamila morti per abbozzare una presa di posizione. Persone che parlano sulla Palestina, ma mai con i palestinesi.
Finché la comunicazione continuerà a essere gestita in questo modo, scegliendo ospiti che non mettono in crisi l’ego smisurato dell’Occidente e la sua mentalità coloniale e paternalista, quell’arroganza che pretende di avere soluzioni per il mondo intero ma non sa ascoltare chi soffre, la verità resterà nascosta.
Non si può fingere che non esistano palestinesi capaci, lucidi e intellettualmente autorevoli, in grado di raccontare la loro storia con chiarezza. Non vengono esclusi per mancanza di competenza, ma perché sono “scomodi”: le loro parole strapperebbero il velo dell’ipocrisia e metterebbero a nudo le responsabilità dell’Occidente in una tragedia che ha i tratti di un genocidio. Le loro voci incrinerebbero il pensiero unico e coloniale che domina i nostri media.
Vogliamo davvero aiutare i palestinesi? Possiamo farlo in molti modi: sostenendoli economicamente, appoggiando le loro manifestazioni, contribuendo a iniziative come la Global Flotilla, che hanno la forza di mettere a nudo verità scomode e il comportamento criminale dello Stato di Israele. Ma c’è una cosa che non possiamo e non dobbiamo fare: sostituirci a loro. Non possiamo parlare della Palestina come se fossimo palestinesi.
Io stesso, che parlo di Palestina da quasi vent’anni e ci sono stato due volte, so bene che non potrò mai raccontarla meglio dei palestinesi stessi. Per questo mi sono sempre rifiutato di parlare “a nome loro”, non per timore, ma perché credo sia un atto di rispetto e di onestà.
Se vogliamo davvero aiutare, dobbiamo liberarci dalla presunzione e dal protagonismo dell’ego. Dobbiamo scendere con i piedi per terra, ascoltare i palestinesi, dare loro la parola, anche se quello che diranno metterà in crisi il nostro ego, le nostre certezze e le nostre comodità intellettuali.
Perché non si può risolvere un problema senza ascoltare chi lo subisce.
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