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30 agosto 2025
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Global Sumud Flotilla: l'onere del sostegno tocca a tutti noi
di Rossella Ahmad

Diversi amici mi hanno chiesto di esprimere la mia opinione sulla Freedom Flottilla.

Una premessa obbligatoria: non amo le polarizzazioni. Anzi, le detesto. Così come non mi piace a pelle chi si senta unico detentore del Verbo, qualunque esso sia. E come tale si atteggi.

La questione palestinese non ha bisogno di protagonismi. Essa brilla di luce propria, e tutti noi che le ruotiamo attorno, a vario titolo, siamo semplici comparse più o meno importanti, più o meno informate, più o meno utili.

È un mare magnum, semplicissima nella sua genesi ma nella quale si intersecano molti piani differenti, solo apparentemente contrastanti. E di alcuni di questi piani io voglio parlare.

Esiste il piano della resilienza. Una parola che non amo e super inflazionata nella sua accezione meno nobile, ma quella che più si avvicina al significato originario del termine sumud.

Esserci. Restare. Soffrire ma piantarsi nella terra con radici sempre più profonde, affinché i tentativi di sradicamento da parte dell'oppressore siano vani.

Ed esiste il piano della Resistenza. Una parola invece bellissima, che rappresenta il fulcro della lotta palestinese per la sopravvivenza all'interno della sua patria ancestrale.

Combattere. Sacrificarsi. Difendere le proprie radici con ogni mezzo. Tentare se necessario anche l'impossibile. Al- Muqawwama al Mustamirra, fino alla liberazione. La più nobile e sacra delle opzioni.

Questi due piani attengono unicamente al popolo palestinese, e rappresentano un onere che ricade per intero sulle sue spalle.

Vi è poi il piano del sostegno internazionale. Per sostegno internazionale intendo il sostegno vero, reale, inequivocabile, al popolo palestinese ed alla sua lotta di Resistenza. Ogni altra opzione ibrida che non parta dal riconoscimento dell'ingiustizia storica inflitta ad un popolo innocente e della legittimità della sua Resistenza, non merita per me di essere presa in considerazione.

Questo in generale.

Siamo però in tempi di genocidio. Un popolo imprigionato in uno spazio polverizzato resiste da due anni all'assedio di molte armate coloniali, di molti mercenari, di molte meretrici di ogni risma e di ogni forma.

Miracolosamente, resiste a settecento giorni di bombe a frammentazione. Alla mancanza di cibo ed acqua. Alla crudeltà più perversa mai messa in campo da un esercito occupante. Riesce persino ad infliggere perdite dolorose ai colonizzatori europei grazie al coraggio di uomini votati al sacrificio, poco armati e male equipaggiati.

L'onere del sostegno tocca a tutti noi. Non possiamo sottrarci ad esso, pena la perdita definitiva di ogni residuo brandello di umanità. Ciascuno a modo suo. Ciascuno come può. Utilizzando i mezzi che ha.

Gli studenti nei campus del Nordamerica. Le manifestazioni oceaniche. Ogni occasione pubblica o privata in cui si parli di Palestina e si pronunci il nome di Palestina. L'attivismo sui social e nella vita di ogni giorno. Il sostegno agli orfani. L'accoglienza ai rifugiati. Le donazioni, di ogni tipo. Le Marce Globali. E le piccole barche della libertà.

Nulla serve ma tutto serve ed è utile, soprattutto quando si è consci delle proprie finalità, ed anche dei propri limiti. Che sono enormi, e sarebbe ingenuo non esserne consapevoli. Quando faccio una donazione, devo essere consapevole che parte dei miei soldi finiranno nelle mani sbagliate.

Quando scrivo, devo essere consapevole che potrei essere in ogni momento censurata, bloccata, impedita. E quando manifesto, devo essere consapevole che c'è la concreta possibilità di essere arrestata, forse picchiata, comunque privata dei miei diritti umani.

Ma nessuna lotta può fermarsi. Non ora. Mettiamo da parte le personali preferenze e l'odiosa abitudine a fare le pulci a tutto il resto.

Riusciranno le barche a salpare? Potranno mai giungere fino a Gaza? Non credo. Non è mai accaduto che ci arrivassero dal 2010 allo scorso luglio, figurarsi oggi. Sempre intercettate, sequestrate, fatte oggetto di atti di pirateria - ed in un caso di vere e proprie esecuzioni sommarie dei volontari da parte dell'entità coloniale.

Ai fini pratici non credo serva - anche se spero sempre nell'imponderabile - ma il valore simbolico, di accerchiamento globale dell'entità genocida, del suo sacrosanto sputtanamento in faccia ai popoli del mondo, è enorme ed è qualcosa che a me, personalmente, fa palpitare il cuore.

La partenza delle barche non mette a riposo tutto il resto. Gli dà slancio. Nessun piano è pensato per confliggere con gli altri e, di fatto, nessuno lo fa.

Vi è necessità di connessione tra le diverse lotte anche a livello globale, ma questo potrà avvenire solo se e quando Gaza sarà salva, i suoi cancelli simbolicamente spalancati, la sua gente vittoriosa libera dal sopruso. Ma per questo servirebbe ben altro. Sapete come la penso, l'ho già detto, non è necessario ripetermi.

Quando si è imprigionati, però, si guarda spesso all'orizzonte. Si immagina. Sì spera. Si sogna.

Anche quelle vele al vento possono essere un bel sogno.

Che ha a che fare con la libertà.

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