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Doppio razzismo verso la stampa palestinese
di Roberto Prinzi
Il razzismo verso la stampa palestinese (e più in generale verso il mondo palestinese), si manifesta in due modi molto chiari. La carneficina di Anas e degli altri suoi 6 colleghi l'ha solamente ribadito.
Sul primo razzismo non mi dilungo tanto perché è esplicito, immediato e nasce da un chiaro processo di disumanizzazione dell'“altro” di stampo settecentesco/ottocentesco. Sintetizzo: sono palestinesi, quindi arabi, musulmani, quindi retrogradi, non sono come “noi”, sono bestie. Se sono bestie, allora possiamo silenziarli o non parlandone proprio, o ucciderli senza farci problemi.
Magari sporcando pure la loro reputazione per legittimare i nostri crimini e autoassolverci dai nostri peccati. Se non ci fosse questo razzismo, di Anas non si sarebbero spesi in questi giorni fiumi d'inchiostro sulla stampa mainstream sul suo essere un “terrorista” di Hamas prendendo per oro colato le “prove” ridicole offerta da Israele. Si sarebbe pianto la barbara uccisione sua e dei suoi colleghi. Sarebbe stato il minimo sindacale.
Il secondo razzismo è più infame perché paradossalmente non sembra razzismo. Anzi, sembra essere un qualcosa a favore dei palestinesi e ciò lo rende ancora più pernicioso. Questo razzismo – o meglio senso superiorità paternalistica coloniale verso i palestinesi – opera spesso quando il governo israeliano spara le sue oscene bugie (“Non c'è carestia a Gaza”, “il numero dei morti è inventato da Hamas”, etc. etc) e tanti, pur bravi commentatori, dicono: “Allora, fateci entrare così da farci verificare quanto affermate”. Questo modo di procedere va a braccetto con un'altra grave dichiarazione che si continua purtroppo a ripetere: “Questa guerra è avvenuta e sta avvenendo senza che ci siano giornalisti presenti”.
Alcuni affermano ciò spinti da buoni sentimenti per i palestinesi: noi dimostriamo al nemico che avete ragione, che siete le vittime. Entriamo in pratica per dare il bollino verde alle storie che voi raccontate, perché se lo diciamo noi allora questo avrà un peso maggiore politico per la comunità internazionale perché (e hanno ragione a riguardo) la nostra parola vale più della vostra. Tuttavia, nell'agire in questo modo, non si accorgono che riproducono un odioso atavico paternalismo che delegittima i giornalisti e le voci native di Gaza. Ripetono il pattern che vogliono a parole distruggere. I giornalisti gazawi sono bravi, maledettamente bravi.
Non sono presenti i colleghi occidentali, ma la stampa c'è. Cosa c'è da verificare? Che non ci sia un genocidio? Che il numero dei morti non è quello? Che la Striscia non è di fatto rasa al suolo? Pagando con la morte o rischiando di morire, gli operatori dell'informazione palestinese ci stanno permettendo di vedere tutto comodamente dalle nostre case, senza raccontare frottole.
Eppure, all'interno del gruppo di autoproclamati scrutatori da bollino Chiquita, resta vivo il pregiudizio orientalista: sono arabi, non fanno giornalismo come noi. L'altra sera a “In Onda” Giovanna Botteri, che pure voleva dire qualcosa vagamente di sinistra, ha di fatto detto che spetta a noi verificare con i nostri parametri quanto accade. Ma poi che parametri? Il genocidio di Gaza ha segnato lo stato comatoso e corrotto del giornalismo mainstream.
I giornalisti occidentali devono assolutamente entrare nella Striscia? Certamente, è gravissima la loro assenza come testimoni dell'Olocausto (Israele vuole che il genocidio abbia meno occhi possibili perciò stermina deliberatamente la stampa palestinese). Ma è grave non in quanto “maestri” dei loro “alunni” autoctoni imberbi. Devono entrare perché la stampa non può avere confini, non perché “necessari” per accertare la “verità”.
I palestinesi non vogliono questo, non hanno bisogno di questo. Hanno i Wael Dahdouh. Hanno avuto gli Al-Ghoul, gli Anas al-Sharif. E ancora prima la straordinaria Shirina Abu Aqleh. Paragonati a molti inviati e corrispondenti italiani, il confronto è imbarazzante.
Chi ha a cuore veramente la causa palestinese deve promuovere le voci palestinesi sul posto e nella Diaspora. Bisogna fare pressioni sulla stampa nostrana ponendoci non in termini umanitari: Anas era un grande professionista, non solo un bravo ragazzo che abbraccia i suoi due figli in un video.
La battaglia per la diffusione della cultura palestinese è di vitale importanza: l' “animale umano” è un essere umano. Valorizzare il racconto delle storie dei giornalisti è il primo passo di questo percorso perché le storie della stampa sono concrete, attuali, immediatamente politiche, ma deve abbracciare gli altri campi del sapere.
Insieme al boicottaggio, è un lavoro che va promosso per cui c'è tanto da fare. E' un arma che, a differenza di quella dei nostri governi, non uccide nessuno.
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